§ Tra cronaca e storia

Quando nacquero le due Italie




Ada Provenzano, Luca Franchi
Collab. Gianna Marchesi, Franca Moreno, Alfio Sensini



Dieci gennaio 1885. A Palazzo Madama è in discussione il disegno di legge sul risanamento di Napoli. E' stata una nuova, drammatica epidemia di colera a indurre il governo Depretis a presentarlo. Intervenendo in quella discussione, prende per la prima volta la parola nell'alta assemblea Pasquale Villari, ("Ultimo venuto in quest'assemblea, so che non avrei l'autorità necessaria a intrattenere lungamente il Senato"). Lo ricorda Giovanni Spadolini, in una ricostruzione storica edita, appunto, per i tipi di Palazzo Madama.
Ma chi è Pasquale Villari? Già deputato negli anni Settanta, noto biografo di Machiavelli e di Gerolamo Savonarola, ha ricevuto la nomina al laticlavio il ventisei novembre del 1884, per la diciottesima e la diciannovesima categoria, quella dei membri della Regia Accademia delle Scienze dopo sette anni dalla nomina e quella dei membri ordinari del Consiglio Superiore di Istruzione Pubblica, anche in questo caso dopo sette anni di esercizio. Scrive lo storico: sono temi e problemi che Villari in realtà ha appena affrontato in un saggio apparso nella
Nuova Antologia, la rivista erede della prima e gloriosa Antologia di Capponi e di Vieusseux, che Villari stesso ha contribuito a rilanciare e a rifondare nella Firenze del 1865-1866 (ed è stato sul punto di esserne il direttore). La questione di Napoli: è il titolo emblematico e rivelatore di quel saggio, che appare nell'ultimo fascicolo dell'anno, quello di metà dicembre 1884.
Determinante l'intervento di Villari, nella Nuova Antologia e soprattutto nell'aula di Palazzo Madama, per fissare alcuni punti fondamentali dell'intera questione meridionale, quale irrompe sugli orizzonti di una penisola ancora adolescente e piuttosto malferma. Primo, la portata della legge di cui si chiede l'approvazione: non la "legge del colera", cioè un provvedimento legato ad una circostanza particolare, anche se frequente, ma un intervento necessario, atteso da anni, da parte dello Stato centrale verso mali "eccezionali e straordinari", tali che nessuna amministrazione, per quanto "bene ordinata", vi potrebbe con le proprie forze provvedere.
Mancanza di abitazioni, di "case del popolo" nel senso di "case del povero": poiché non possono essere considerate tali il fondaco, la grotta, il basso. "Voi avete i fondaci - ammonisce Villari con una punta di orgoglioso rimprovero - dei quali una volta quando io li descrissi, negavasi l'esistenza: ora se ne parla come se fossero il solo male di Napoli. Invece questi fondaci sono adesso ottantatre, con una popolazione di 9.800 abitanti; dimodoché, per grande che sia, ha tali proporzioni che facilmente si potrebbe sopprimere. Il male più grande è che vi sono i 'bassi', i quali sono quarantacinque mila e costituiscono l'abitazione di centoventotto mila persone, e sono sparsi in tutta quanta la città di Napoli, non solamente nei bassi quartieri, ma per ogni dove". I quartieri bassi sono i più infetti, poiché la popolazione vi è concentrata più che in ogni altra parte della città.
Le cifre prodotte da Pasquale Villari nell'assemblea sono abbastanza allarmanti: "Mentre a Londra si hanno più di trecento metri per ogni abitante, a Napoli ne abbiamo sedici, nei quartieri bassi ne abbiamo sette. Ma se voi andate a Santa Lucia, negli stretti vicoli, dove sta il popolo minuto, dove abitano cioè i marinai, voi trovate due mila metri di abitazione con mille abitanti, cioè due metri per abitante".
E' questo l'autentico problema di fondo, sottolinea lo storico; un problema che deve essere affrontato in tutta la sua gravità e drammaticità. "Io sono entrato in una casa - è il racconto dell'esperienza diretta di Villari - ed ho trovato nel pian terreno, in una sola stanza, quattro gruppi di persone nei quattro angoli. Erano quattro famiglie che pagavano ciascuna la pigione per quell'angolo: non v'era un letto né una sedia, e una donna mi disse: in quest'angolo ho fatto sei figli". C'è intero il dramma della questione meridionale.
Commenta Spadolini: certo, i mali di Napoli sono anche altri, responsabili della diffusione del colera e di altre malattie epidemiche; e Villari non li dimentica. In primis, la cattiva fognatura della città, che ha rivelato l'assoluta insufficienza degli ultimi trent'anni, specie nei quartieri bassi, dove le acque nere si mescolano con quelle chiare che arrivano dalla collina e con quelle salate del mare che filtrano nel sottosuolo e raggiungono quasi il livello della strada: e tutto ribolle. Nuove abitazioni, nuova fognatura, nuove strade, allargamento delle piazze (ma senza demolire prima d'aver costruito): sono queste le basi indispensabili per ogni forma igienica e sanitaria di Napoli.
A pochissimi mesi di distanza dal suo intervento parlamentare, all'inizio del 1885, compare la seconda edizione delle Lettere meridionali, che erano state pubblicate per la prima volta in volume nel 1878. Attraverso quelle lettere, spedite nel mese di marzo del 1875 al direttore dell'Opinione, Giacomo Dina, Pasquale Villari si impone quale primo meridionalista, pioniere anticipatore e coraggioso di quella corrente politico-culturale e sociale che porrà l'Italia meridionale al centro dei propri interessi di studio, ma soprattutto come elemento chiave portante dell'intera realtà nazionale. La corrente che avrà nel suo splendido circuito intellettuale i Sonnino e i Franchetti, i Fortunato e i De Viti De Marco, gli Sturzo e i Salvemini. "Una denuncia spietata, concreta, senza accentuazioni ma anche senza falsi pudori; un'analisi attenta e documentata esposta attraverso un linguaggio chiaro e immediatamente accessibile. Una denuncia costantemente rinnovata, dal 1861 in avanti, con la coscienza dell'aggiungersi degli squilibri fra Nord e Sud, dell'allargarsi implacabile della forbice, dell'incancrenirsi dei problemi".
Mai rassegnazione, nel Villari; ma una consapevolezza, scrive lo storico, "direi una coscienza precisa", venata di malinconia, dalla pochezza dei risultati raccolti nei decenni. "Non le nascondo -scriveva a Luigi Albertini il 4 settembre 1905 - che sulla questione meridionale io sono diventato assai sfiduciato e scettico. Ne scrissi fin dal 1860... A che valse? A nulla addirittura".
Villari senatore, Villari apostolo della questione meridionale, Villari "socialista dalla cattedra" e insieme conservatore. Sono tutti aspetti che lo storico Spadolini aveva affrontato nella sua ricerca di archivio destinata a La Firenze di Pasquale Villari, l'ultimo suo libro di storia fiorentina che si ricongiunge direttamente alla Firenze di Gino Capponi. Scrive: "Non avevo allora trattato, come meritava e come meriterebbe, il ministro della Pubblica Istruzione: sia pure in quel difficile governo Di Rudinì che esaurisce in poco più di un anno fra il febbraio '91 e maggio '92 la sua vita, quasi soffocato fra il primo grande ministero Crispi e il primo un po' meno grande ministero Giolitti".
Pasquale Villari non lascia un'impronta profonda, incisiva, in quel ministero. Non è un uomo politico, nel senso di negoziatore occulto o di tessitore di scambi verso i parlamentari. Non è un uomo di indulgenze demagogiche o popolaresche. Ha un'idea precisa di un ministero quando egli stesso - in un intervento successivo al Senato, il 30 giugno 1896 - lo definisce con questi tratti sapienti e penetranti: "Si può dire, perché è una cosa che ormai tutti sanno, che al ministeri della Pubblica Istruzione c'è una folla continua di gente che sale e scende le scale, domandando sempre esenzioni dai regolamenti e dalle leggi, esami facili, corsi abbreviati, diplomi senza esami e senza gli studi necessari, favori indebiti a istituti privati, eccetera. E tutto questo con un'insistenza continua, senza curarsi né di leggi, né di regolamenti, né di giustizia". Sembra una pagina di Benedetto Croce in quei taccuini segreti che lo storico ha studiato per l'introduzione al carteggio di Croce con la biblioteca del Senato.
Quattordici febbraio 1891. Il Re accetta le dimissioni di Crispi e il nuovo governo si presenta al Senato. Il senatore Villari è ministro della Pubblica Istruzione. Ma subito ci si accorge quanto l'Italia è mutata. Sottolinea Spadolini: "Quell'ultimo tormentato decennio del secolo che culminerà nell'ostruzionismo parlamentare, e nelle leggi liberticide e nel regicidio trova quasi un preannuncio nei fischi che all'università di Bologna l'11 marzo 1891 colpiscono Giosuè Carducci, il poeta della terza ltalia, sacro a Crispi e sacro anche alla monarchia nonostante le sue origini repubblicane. Causa della protesta: la disponibilità di Carducci a inaugurare insieme a Crispi la bandiera dell'unione monarchica bolognese.
In realtà è la stessa amicizia con Crispi sotto accusa. Molti giovani, che pure avevano inneggiato all'avvento dello statista siciliano nell'87, sono profondamente delusi dall'opera dell'antico compagno di Garibaldi, non condividono gli entusiasmi carducciani per il 'novello Procida', si orientano sempre più nettamente verso le posizioni di Cavallotti, arretrano turbati di fronte al divorzio dei leader della Sinistra storica dagli ideali dell'irredentismo e della democrazia d'avanguardia, dimenticano forse troppo rapidamente la legge sulle Opere Pie per concentrare tutto il fuoco contro lo statista che indulge a motivi triplicisti, nazionalisti e autoritari. Di qui un distacco politico fra Carducci e una parte della giovane generazione, che esploderà irrazionale, fulmineo, in certo modo irrimediabile, nella manifestazione di quell'11 marzo 1891". A Montecitorio, reazione accorata di Pasquale Villari verso il collega senatore, un uomo intoccabile per l'Italia nuova che veniva sottoposto alla prima, blasfema contestazione. "Io sono addolorato, umiliato di dovere esporre questi fatti dinnanzi alla Camera. Quando io vedo gli studenti insultare il loro professore, violare la libertà della parola, calpestare la dignità della cattedra, mi sembra di assistere al triste spettacolo dei figli che insultano il padre. Perciò la colpa mi apparisce più grave e la pena mi pare più necessaria".
Difesa di Carducci a parte - difesa che rivelava tutto un mondo - Villari ministro adotta misure e provvedimenti ispirati a una linea costante di severità e di rigore. Incitamento costante ai professori a fare il proprio lavoro, agli studenti ad applicarsi nel rispetto della serietà degli studi. Non teme la riduzione del numero degli studenti stranieri nelle università italiane, se questo va a vantaggio di una maggior serietà nelle ammissioni. Sostiene la necessità degli esami di ammissione alla scuola secondaria, non trascura l'importanza delle scuole professionali, difende tenacemente negli istituti classici la presenza del greco e del latino. Rivendica, fra i primi, la tutela del patrimonio artistico nazionale e denuncia la mancanza di una legislazione di protezione specifica adeguata. Costante, in Villari ministro, la prova di buon senso, di empirismo, di concretezza. Egli, storico insigne, alleggerì i programmi e l'orario della storia, accrebbe quelli della matematica e per considerazioni varie ma tutte valide rinunziò all'edizione - proposta da altri -delle opere di Machiavelli.
"Pochi uomini avevano avuto, come Villari, la percezione del gap fra lo Stato liberal-garantista che nasceva, figlio dello straordinario concorso di eventi del 1859-'61, e lo sviluppo della società italiana, l'evoluzione del suo popolo. Tutta la sua vita fu intesa a ridurre quel gap. Come un educatore laico, che rispondeva a tutte le difficoltà e a tutte le smentite".

Il dualismo secondo Abulafia

Due Italie dal Medioevo

Molto di quel che si traduce in Italia è di media (e in non pochi casi persino mediocre) qualità.
Ma le buone sorprese non mancano.
Apparso in Inghilterra in tempi non recenti (era il 7977), ora è disponibile, nella veste editoriale della Guida, e nell'esemplare versione di Cosima Campagnolo, "Le due Italie", di David Abulafia. Si tratta, in effetti, di uno dei migliori contributi allo studio del dualismo economico italiano nella sua genesi storica. Di "due Italie" parlò, a suo tempo, Giustino Fortunato, e non sappiamo se Abulafia abbia ripreso l'espressione, nel suo titolo, consapevolmente oppure no. L'autore si colloca in un punto cronologico tanto preciso quanto fondamentale. Come rivela il sottotitolo dei libro, egli studia le "relazioni economiche fra il Regno normanno di Sicilia e i Comuni settentrionali", e per spiegare il dualismo non insegue il modello di un'astratta comparazione tra il Nord e il Sud.
Abulafia vien Fuori dall'ottica della comparazione-contrapposizione e concentra la sua attenzione su un momento storico nodale.
E' il momento in cui, dopo la rovina dei mondo ellenistico-romano, si ricompone tra il 1000 e il 1250, in qualche modo, l'unità economica della penisola, con una differenziazione e con una complementarità entrambe degne di nota. La differenziazione è tra un Nord caratterizzato da grandi e piccoli centri urbani dalle forti attività manifatturiere e mercantili, con risorse finanziarie e con capacità imprenditoriali crescenti, e un Sud caratterizzato da una forte vocazione agraria, in grado di offrire al mercato internazionale le sue eccedenze di prodotti agricoli o di materie prime, controllate dal potere politico e da feudatari e proprietari terrieri.
E' una differenziazione tendenziale e di massima, naturalmente; non una eterogeneità assoluta e monolitica. Essa tuttavia è sufficiente a formare la materia della complementarità che parallelamente si determina fra le due Italie grazie all'azione concorrente di mercanti settentrionali e sovrani meridionali.
I primi trovano nel Sud la molteplice "miniera" di approvvigionamento di merci fortemente richieste sul mercato italiano e internazionale (grano e cereali, seta, olio, vino soprattutto) e uno sbocco prezioso per la loro produzione manifatturiera; i secondi assicurano all'economia agraria dei loro paese una forte spinta propulsiva e a se stessi una fonte cospicua di redditi doganali e tributari, oltre che un mezzo di pressione politica per la possibilità che hanno di serrare o di aprire la porta dei traffici.
Ma i mercanti possono offrire ai sovrani anche i servigi della loro potenza Finanziaria, anticipando ad essi le grandi somme richieste dalla foro azione politica e rivalendosi con privilegi, assegnazione e gestione di entrate varie, di terre, eccetera. Il commercio si trasforma in questo modo in banca: dal capitale commerciale al capitale finanziario, come si sarebbe detto in seguito. La complementarità diventa più piena e, anche, più inestricabile.
Il senso completo di questa storia apparirà anche meglio alcuni secoli dopo, quando la potenza commerciale delle città dell'Alta Italia declinerà, e il ruolo di quelle città verrò assunto da operatori di altri Paesi, senza che la funzione dipendente e complementare dei Mezzogiorno muti nella sua logica. Anzi, la nuova grande fase di espansione dell'economia mediterraneo ed europea dopo la crisi dei quattordicesimo secolo. quella del sedicesimo secolo, di cui sono ancora protagoniste in gran parte le città italiane - portando alla sua più piena espressione la logica differenziata e complementare degli sviluppi proprii del Mezzogiorno consegnerà quest'ultimo al commercio e alla finanza europea in condizioni alquanto più sclerotiche e pregiudicate.
Una linea ricostruttiva e interpretativa di tal genere esce fuori dalla logica delle categorie di "scambio ineguale" o di "centro e periferia" che hanno avuto tanta (né tutta immeritata) fortuna negli studi di storia economica dell'ultimo ventennio. Esce fuori, ugualmente, dalla logica di una storia che nella diversità degli svolgimenti politici e istituzionali (monarchia e feudi, da una parte; città e comuni, dall'altra) esaurisce il fortissimo spessore di una vicenda di estrema complessità.
Il grande merito di Abulafia è stato quello di aver avvertito la centralità dei problema storico che egli poneva, oltre a quello di aver cercato di annodare in esso la considerazione di una serie di temi e di elementi storici. La sua indagine, documentariamente sagace, convalida gli elementi tradizionali dell'analisi (feudalesimo meridionale, città dei Nord), ma li assume in un quadro storico che ne trasforma il significato. Nella letteratura storica italiana questa posizione era tutt'altro che assente; anzi, si può dire che vi era o esplicitamente o implicitamente presente, (come, ad esempio, nel caso di Giuseppe Galasso) in misura sufficiente a determinare e a caratterizzare una linea interpretativa più robusta e più soddisfacente del cosiddetto "dualismo" italiano.
Era anche la posizione di coloro che in ogni caso non pensavano che il "dualismo" fosse un destino determinatosi una volta per sempre in maniera più o meno fatale, e tanto meno pensavano che, a causa di questo "dualismo", la storia del Mezzogiorno comportasse una inalterabile e inalterata immobilità, un'assenza di sviluppi sia "positivi" che "negativi": insomma, una storia monotona e unilaterale.
A questa posizione il volume di Abulafia da il conforto di una delle poche ricostruzioni storiche d'insieme, organiche e definite, in cui essa si è finora espressa; e, anche se non spiega (né voleva spiegare) tutto, aiuta a spiegare meglio ciò che si propone di spiegare. Già solo per questo meritava da parecchio tempo la traduzione italiano.
Ma la merita anche per la persistente attualità in un contesto storiografico in cui i criteri della differenziazione e della complementarità storica fra le "due Italie" sono certamente ancor più presenti che al momento della sua apparizione; e, tuttavia, sembra tendersi a ritenere che il criterio della differenziazione annulli quello delle differenze (non ci sono città e mercati anche nel Sud?) e che quello della complementarità escluda dipendenze e subalternità o, viceversa, che dipendenza e subalternità escludano autonomia e ricchezza di sviluppi (non ha anche il Mezzogiorno i suoi grandi momenti di storia?). Tutto questo l'autore propone alla riflessione collettiva, italiana ed europea.

La requisitoria di Nitti

Il grande dissidio della vita italiana

"Le mie parole, per quanto siano dettate da un vivo desiderio di verità, possono dispiacere al maggior numero.
Riconoscere con lealtà che l'Italia meridionale ha ora in Italia una situazione relativa minore che nel 1860 e che il regime finanziario e il regime doganale hanno molto giovato al Nord e molto nociuto al Sud, è cosa che non può piacere ai settentrionali; ma dire che di quanto è accaduto la colpa più grande spetta al Mezzogiorno, che sono le sue abitudini e le sue tradizioni, le quali nocciono più d'ogni cosa, può piacere anche meno ai meridionali. La ricerca della verità non ha blandizie [ ... ]. Due cose sono ormai fuori di dubbio: la prima è che il regime unitario, il quale ha prodotto grandi benefizi, non li ha prodotti egualmente nel Nord e nel Sud d'Italia; la seconda è che lo sviluppo dell'Italia settentrionale non è dovuto soltanto alle sue forze, ma anche ai sacrifizi in grandissima misura sopportati dal Mezzogiorno".
Così, Francesco Saverio Nitti. Il dibattito sulle condizioni del Sud d'Italia fu, dagli anni '70 alla fine del secolo scorso, molto intenso e vivo. Esponenti delle diverse correnti politiche si interrogavano sui guasti e sui ritardi che, passata l'euforia della raggiunta unità nazionale, si rivelavano nella parte meridionale della penisola. Studiosi e politici diversi per nascita, formazione e ideologia esaminarono i molteplici aspetti del problema con passione e acutezza e la loro azione è stata giustamente definita "illuministica", perché rivelava al Paese quello che era, e sarebbe rimasto, il suo problema centrale.
E' stato tuttavia Francesco Saverio Nitti a collegare in termini precisi sotto il profilo scientifico -economico questo dibattito al più generale dibattito sullo sviluppo economico del Paese che, proprio sul finire del secolo, si trovava di fronte alla crisi di crescita posta dal delinearsi della nuova democrazia industriale. Nitti sostituì alle invettive e alle intuizioni le cifre e i risultati di una analisi economica corretta e verificabile, e contribuì quindi a sfatare molti luoghi comuni accettati talvolta dagli stessi meridionalisti.
La visione di Nitti dei problemi e del futuro del Mezzogiorno è sostenuta dalla fiducia negli effetti benefici dell'industrializzazione incipiente e del corretto funzionamento degli istituti e degli equilibri politici che caratterizzano le democrazie industriali. Lo studioso e statista lucano ritiene possibile far uscire il Sud dalla sua degradazione economica e socio-politica utilizzando le risorse di cui il Paese dispone, solo che lo Stato si decida ad interventi correttivi e riequilibratori. Lo Stato unitario - dice in sostanza Nitti agli inizi del secolo - deve soltanto ridare al Sud quel che gli ha tolto in termini di ricchezza reale il processo di unificazione: il resto verrà da sé, per effetto del naturale impulso allo sviluppo che caratterizzerà tutta la penisola.
Nitti era convinto della "naturale" povertà dei Mezzogiorno; ma riteneva, tuttavia, che il Sud avesse al momento dell'unità risorse finanziarie ed agricolo-naturali tali da consentirgli di svilupparsi come il Nord. Che cosa ha impedito questo sviluppo? Nitti risponde a questa domanda mettendo sotto accusa il sistema fiscale dello Stato unitario, responsabile di un gigantesco dragaggio di ricchezza utilizzata soltanto per investimenti e per infrastrutture del Nord del Paese. Nitti, in ultima analisi, mette in mora lo Stato unitario, ricordandogli che esso è debitore nei confronti del Sud, sicché gli interventi nel Mezzogiorno sono invocati come atto dovuto, di perequazione necessaria.
E' stato osservato che il politico lucano ebbe del problema meridionale una visione "produttivistica", perché egli riteneva che solo potenziando, con opportune agevolazioni e interventi dello Stato, le scarse iniziative imprenditoriali si sarebbe potuto accelerare il ritmo della stagnante vita economica. Da studioso di economia, Nitti era consapevole della scarsità di risorse disponibili nell'intero Paese, e ciò lo portò a ipotizzare un ruolo determinante dello Stato nel processo di industrializzazione. Il quale, comunque, doveva riguardare gli equilibri interni della penisola, senza abbandonare intere aree all'arretratezza e al sottosviluppo. E in questo si colgono gli aspetti moderni del suo pensiero, che riproponiamo in una breve sintesi antologica.
"La vita politica del Mezzogiorno è assai misera, abbondano in essa avvocati dal ricco eloquio e dalle povere idee, cui nulla più giova dello stato presente di anarchia morale e di disordine. I deputati del Mezzogiorno -fatte alcune stimabilissime e veramente nobili eccezioni - sono i bassi fondi di tutte le maggioranze; disposti nella più gran parte per una piccola concessione attuale a rinunziare a ogni avvenire. E' fra essi che si reclutano i difensori di qualunque violazione allo Statuto". "Nel 1800, la situazione del Regno delle Due Sicilie, di fronte agli altri Stati della penisola, era la seguente, data la sua ricchezza e il numero dei suoi abitanti:
1°) le imposte erano inferiori a quelle degli altri Stati;
2°) i beni demaniali e i beni ecclesiastici rappresentavano una ricchezza enorme e, nel loro insieme, superavano i beni della stessa natura posseduti dagli altri Stati;
3°) il debito pubblico, tenuissimo, era quattro volte inferiore a quello dei Piemonte e di molto inferiore a quello della Toscana;
4°) il numero degli impiegati, calcolando sulla base delle pensioni nel 1860, era di metà che in Toscana e (di quasi metà che nel Regno di Sardegna;
5°) la quantità di moneta metallica circolante, ritirata più tardi dalla circolazione dello Stato, era in cifra assoluta due volte superiore a quella di tutti gli altri Stati della penisola uniti assieme.
Il Mezzogiorno era dunque, nel 1860, un paese povero; ma avea accumulato molti risparmi, avea grandi beni collettivi, possedeva, tranne la educazione pubblica, tutti gli elementi per una trasformazione".
"Dieci anni or sono il professore Pantaleoni, in un suo notevole studio, ragguagliando a 100 la ricchezza dell'Italia, attribuiva a ciascuna regione la seguente proporzione: Piemonte e Liguria 16%, Lombardia 14, Lazio 10, Veneto 9, Italia meridionale 7 e mezzo, Marche e Umbria 7, Sicilia 6 e mezzo, Sardegna 5. Un meridionale, secondo Pantaleoni, ha mediamente la metà della ricchezza di un settentrionale".
"Da dieci anni la ricchezza dell'Italia settentrionale è grandemente cresciuta; nel Mezzogiorno vi è invece arresto e in qualche provincia vi sono anzi tutti i sintomi della depressione. La Lombardia, il Piemonte e la Liguria, godendo tutti i benefizi di un regime doganale fatto quasi ad esclusivo loro benefizio, dopo aver goduto i frutti di una politica finanziaria, che per quaranta anni riservava ad essi i maggiori benefizi e al Sud i maggiori danni, sono in trasformazione profonda; sicché il distacco fra il Nord e il Sud si accentua".
"Quando nel 1860 il regno delle Due Sicilie fu unito all'Italia, possedeva in sé tutti gli elementi della trasformazione. L'Italia meridionale aveva infatti un immenso demanio pubblico. Le imposte dei Borboni erano mitissime e Ferdinando II aveva cercato piuttosto di mitigarle che di accrescerle. Le accuse che si muovevano alla finanza borbonica, esaminate ora onestamente, sulla base delle pubblicazioni ufficiali, non resistono alla critica [ ... ]. Dal 1820 al 1860 il regime economico e finanziario del Borboni determinò una grande capitalizzazione. E' vero che le province erano in uno stato quasi medioevale, senza strade, senza scuole; ma è vero pure che vi era uno stato di grossolana prosperità, che rendeva la vita del popolo meno tormentosa di ora [ ... ]". "In Italia noi abbiamo visto che lo Stato prende più che in tutti gli altri grandi Paesi di Europa, relativamente alla produzione annuale della nazione. Ebbene: dal 1860 a oggi i 56 miliardi che lo Stato ha preso ai contribuenti sono stati spesi in grandissima parte nell'Italia settentrionale. Le grandi spese per l'esercito e per la marina; le spese per i lavori pubblici; le spese per i debiti pubblici; le spese per tutti gli scopi di civiltà e di benessere, sono state fatte in grandissima parte nel Nord.
Per quaranta anni è stato un drenaggio continuo: un trasporto di ricchezza dal Sud al Nord. Così il Nord ha potuto più facilmente compiere la sua educazione industriale; e quando l'ha compiuta ha mutato il regime doganale. E il Mezzogiorno che non ha, soprattutto che non aveva nulla da proteggere, ha funzionato dopo il 1887 come una colonia, come un mercato per le industrie del Nord: che poi, raggiunto un certo grado di sviluppo, han Potuto esportare e sfidare anche l'area libera della concorrenza.
Perfino le spese fatte nel Mezzogiorno furono in gran parte erogate per mezzo di ditte settentrionali. Ho un elenco quasi completo dei grandi appaltatori dello Stato dopo il 1862; non figurano che pochissimi meridionali. Spesso questi ultimi sono stati poco intraprendenti, ma tante volte, quando hanno voluto essere, si sono urtati, soprattutto nei primi anni, contro una burocrazia interamente avversa e diffidente. Le grandi fortune dell'Italia settentrionale sono state compiute mediante lavori pubblici o forniture militari; la storia del regime ferroviario da venti anni a questa parte [ ... ] spiega non pochi spostamenti di ricchezza".
"La Destra fu avversa al Mezzogiorno; o, per dir meglio, essa che non avea alcun grande programma economico, ebbe politica interamente opposta agli interessi meridionali. Era inoltre un partito chiuso, spesso una vera consorteria, con capi eminenti, con gregari insignificanti; e credea politica conveniente creare grossi interessi privati su cui assidere il suo potere.
Ond'è che l'Italia meridionale fu il campo delle agitazioni della Sinistra. La Sinistra meridionale, di cui non sarà mai detto male abbastanza, non fu un partito, fu l'insieme di tutti gli appetiti, lo sfogo di tutti i malcontenti: fu la negazione di ciò ch'era stata la Destra. Si personificò spesso in uomini privi d'ogni morale, che confondevano interesse pubblico e privato e il primo sottomettevano quasi sempre al secondo".
"Dopo il 1876 soprattutto il Mezzogiorno èstata assai più di prima dato in preda ai peggiori avventurieri. Da ogni Governo, più o meno, si è speculato sulla sua ignoranza, sulla sua povertà, sui suoi dolori. Anche adesso province intere sono sotto la dominazione di avventurieri parlamentari, che vi esercitano il loro potere mantenendolo su organizzazioni locali pessime [ ... ]. L'Italia meridionale non deve chieder nulla: deve solo formare la sua coscienza, perché reagisca alla continuazione di uno stato di cose che impoverisce e degrada. Continuerà ancora l'equivoco presente? Continuerà fino a quando noi non vorremo vedere la verità così com'è; fino a quando noi attenderemo la nostra salvezza dagli altri e non da noi stessi".


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