§ La storia rivisitata

L'idea federalista




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta
Collab Alfio Carini, Maria G. Sava



Nel 1851, edito a Londra, ma allestito in Svizzera, Giuseppe Ferrari pubblicò un saggio in dodici capitoli, La federazione repubblicana, sintesi del suo programma rivoluzionario-laico e federalista. Nell'ultimo capitolo ("Organizzazione del partito sociale") testualmente scriveva:
"Le premesse sono precise, e non rimane che a dedurne le conseguenze; queste sono semplicissime.
a) Guerra al pontefice, guerra alla Chiesa catolica, apostolica, romana, regnante in Roma, dominante per tutta l'Italia. Geme Rosmini su le piaghe della Chiesa; ed è la Chiesa che è la piaga, il cancro che rode la Penisola. Non equivoci, adunque, non incerte e confuse dottrine, semi-catoliche, semi-cristiane, semi-pontificali. Adori ciascuno in casa propria i suoi idoli, i suoi penati; la religione della rivoluzione è quella che divinizza l'uomo, la sua ragione, i suoi diritti disconosciuti, insultati dalla Chiesa.
b) Guerra ai re! Il clero, per se stesso, non ha forze ed è nullo; egli è tutto col favore dei principi e dei re. Suo officio è di dar forza ai potenti, di consacrare, di consolidare, di eternare dittature militari, per frenare, reprimere le rivolte ch'egli suppone instintive nelle masse. Ogni principe, ogni re, è fatalmente condotto a prendere al suo soldo l'errore. Napoleone s'inalza col rialzare li altari; Luigi Filippo finisce per riconciliarsi con la Chiesa. Chi patteggia pei re, lavora alla ristaurazione della Chiesa, alla schiavitù dell'Italia.
c) Tutti possono dirsi repubblicani, bisogna esserlo; e lo si è col concepire la repubblica, non già sul terreno dell'astrazione, ma sibbene su quello del diritto. Ci poniamo sul terreno delle astrazioni, quando la repubblica è il governo di una patria che non esiste, di un'Italia una, che il popolo non vede, in cui non vi sono né leggi giuste a sviluppare, né leggi inique a distruggere, appunto per questo che lo Stato non esiste.
La repubblica adunque non può essere che quella emergente dalla tradizione, dalla legge, dalle lotte, dal progresso di ciascun Stato italiano; essa non può essere che le repubbliche di Lombardia, di Venezia, di Toscana, di Roma, di Napoli, di Piemonte, di Parma, di Modena. Come mai il popolo piemontese potrebbe giudicare li uomini di Roma? Come mai il popolo romano potrebbe accordare la sua confidenza alli uomini di Lombardia, che operano secondo leggi, tradizioni, abitudini e costumi che da mille anni sono ivi sconosciuti? Le repubbliche adunque e non la repubblica, che sarebbe il primo principio di un immenso errore, di un intrigo senza esempio.
d) Non toccare ai confini, non anticipare le questioni territoriali sulle questioni della rivoluzione; eccovi la parola d'ordine, la regola; e il violarla sarebbe un dar mano alla reazione, all'anarchia; è un differire il diritto, per iscatenare le rivalità, le ambizioni; è un tornare al 1848.
e) La rivoluzione conduce necessariamente le repubbliche a una federazione repubblicana. Esse hanno tutte li stessi nemici: il papa, l'imperatore, i re, i principi; e se non si collegano significa ch'esse rinunciano alla loro propria rivoluzione. Qual sarà adunque la federazione repubblicana? Essa rappresenta la rivoluzione italiana; rappresenta adunque la guerra contro il papa, contro l'imperatore, contro i re e i principi; rappresenta adunque l'Italia insurta contro l'Europa cristiana, contro il sistema della cristianità.
Ha scritto Ettore A. Albertoni che è in corso nel Paese da almeno tre anni un ampio - e anche piuttosto confuso - dibattito che collega strettamente la "crisi" storica dello Stato unitario quale venne fuori dal Risorgimento con l'attuale gravissima "crisi" del sistema partitocratico che ha retto finora la repubblica e le sue istituzioni.
In questa doppia crisi si sommano tutte le difficoltà del processo di liberazione e di unificazione dell'Italia nel secolo scorso e le più recenti e drammatiche vicende che nascono dall'agonia di un sistema politico - come quello vigente - che appare ormai totalmente delegittimato. E ciò non già perché sia in atto l'oscura aspirazione a una "democrazia senza partiti", come sostengono taluni fanatici e sprovveduti adoratori dello status quo, ma perché i partiti da strumenti di partecipazione dei cittadini alla vita della res publica, da libere associazioni fondate e dirette per "concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale" (art. 49 della Costituzione), si sono nel tempo trasformati in gruppi ristretti (oligarchie) con proprie logiche particolaristiche e corporativistiche non rivolte a perseguire e realizzare il bene comune, ma precipuamente l'interesse proprio e delle proprie clientele.
In un'epoca simile, nella quale l'intero Paese vive nella morsa di una tale, drammatica situazione, e mentre si fanno sempre più strada le ipotesi di una riorganizzazione dell'Italia in senso federalistico -avanzata da forze appena emerse e non compromesse dal consociativismo partitocratico -merita considerazione la rilettura dell'opera del Ferrari, che del federalismo fu uno dei più risoluti sostenitori nel secolo scorso.
Va chiarito subito che nel mondo degli studi non è dubbio che sia oggi in corso una riscoperta critica di Giuseppe Ferrari (1811-1876), del quale Silvia Rota Ghibaudi ha già tracciato in passato un interessante e completo profilo (L'evoluzione del suo pensiero, 1830-1860), così come ha curato anche una significativa antologia di scritti da una produzione che fu enorme (Scritti politici). In questa ottica è segno di nota che nel 1992 sia ricomparsa a Parigi, con una prefazione dello storico Robert Bonnaud, l'Histoire de la raison d'Etat, un'opera che venne pubblicata per la prima volta nella capitale francese nel 1860 e che costituisce la premessa per quel celeberrimo "Corso sugli scrittori politici italiani" (1862) che Ferrari tenne nell'Università di Torino all'indomani dell'Unità nazionale, e che costituisce un corpo molto organico di ricerche su novecento scrittori, nell'intento di ricostruire lo sviluppo del pensiero politico italiano dalle origini. Sempre allo stesso editore e allo storico dobbiamo la quasi contemporanea pubblicazione di un altro libro che sotto il titolo Y a-t-il tournants historiques mondiaux? presenta un'analisi critica del rapporto tra Ferrari, la Cina e l'Europa e una scelta antologica di scritti ferrariani del 1867 sulla Cina e sul vecchio continente.
Ma chi fu questo autore, il cui pensiero storico-politico suscita ancora un così ampio e diversificato interesse tra gli studiosi del pensiero politico?
Innanzitutto, egli va collocato accanto a Carlo Cattaneo (1801~1869) come allievo e continuatore di Gian Domenico Romagnosi (1761-1835), che fu il maestro di uno e dell'altro. Infatti lo scrittore, di famiglia borghese, laureato in diritto a Pavia, a partire dal 1833 fu discepolo diretto e frequentatore del Romagnosi. Fu sempre amico di Cattaneo, collaborò agli Annali Universali di Statistica e dal 1838 si trasferì a Parigi dove ebbe sodalizi intellettuali con Victor Cousin e soprattutto con Pierre-Joseph Proudhon. Studioso di Vico (il cui pensiero contribuì efficacemente a far conoscere in Francia), e di Campanella, Machiavelli, Vanini, si dedicò con continuità agli studi sul pensiero politico nello sviluppo delle storie patrie e fu fervido sostenitore di una concezione federalista, repubblicana e socialista della politica. Nel 1852 cercò anche, ma senza successo, di organizzare col Cattanco un partito su questi presupposti.
Scrive Albertoni: "Figura interessante dotata di una grande versatilità nel campo della ricostruzione e teorizzazione dei ritmi e delle scansioni della storia, Ferrari fu anche uomo più colorito - anche se meno convincente - dell'amico Cattaneo. Nei suoi scritti politici che comparvero, per lo più, in Francia, egli sapeva congiungere la sua solidità culturale d'impianto romagnosiano ad una personale elaborazione dottrinaria del federalismo che aveva approfondito e precisato sotto l'influenza dell'ambiente democratico e socialista francese. Sul piano strettamente dottrinario, l'Histoire del révolutions d'Italie e la già citata Histoire de la raison d'Etat rappresentano un contributo assai importante per una conoscenza parziale, talora piuttosto schematica, ma sempre intelligente, del complesso sviluppo della storia italiana e delle sue implicazioni di tipo dottrinario".
L'Histoire de la raison d'Etat fu anche una delle primissime storie delle dottrine politiche in senso generale. In essa Ferrari dichiarò di ricercare esplicitamente "l'origine della scienza che rendesse conto di ogni meccanismo politico", e mediante il suo lavoro dimostrò che si trattava di una ricerca non meramente concettuale e filosofica, ma profondamente storica e anche filologica. "Egli risaliva, infatti, come inizio per questa conoscenza proprio a quella brochure mutilée, intitolata 'Oculus Pastoralis' - da inserire nella comunale letteratura del podestà - e che rappresentava per lui, simbolicamente, l'esordio del pensiero politico italiano. In questo modo lo scrittore intendeva rivendicare una secolare continuità nell'elaborazione politica italiana, confrontata e collegata in modo vario ai risultati dottrinari e istituzionali che erano maturati all'estero".
Questa ricerca e anche le lezioni che tenne all'Università torinese si inserirono programmaticamente nella tematica "universalistica" presente nel suo pensiero e segnarono la linea dialettica di connessione e di collegamento tra la scuola milanese del Romagnosi e la condizione "scientifica'' della storia che l'ambiente culturale francese alimentava e stimolava. D'altro canto, fu lo stesso Ferrari, nella successiva Teoria dei periodi politici (1874) ad affermare come egli aspirasse a liberare la sua elaborazione sul "meccanismo delle rivoluzioni" dal "peso della narrazione", per tendere "colla precisione dei numeri all'universalità della scienza".
Secondo Albertoni, illuminismo e cultura positiva, positivismo e storicismo, "furono presenti in lui in forma piuttosto eclettica, giacché Ferrari (che fu anche deputato, e, poi, senatore del Regno d'Italia) non espresse certo il rigore di Cattaneo, anche se il suo pensiero ebbe - nel suo tempo - notorietà e attenzione". Lo storico riferisce che Proudhon diceva di lui: "Restez un peu de ce monde, jetez-nous vos flamboyantes idées". E di idee fiammeggianti Ferrari ne aveva soprattutto due. Anzitutto, l'aspirazione socialista che egli attribuiva al suo pensiero e che inseriva in un universo dottrinario che egli esprimeva coniugando il suo spirito libero con un certo scettico disincanto sui fatti umani. "Si tratta, però, di una posizione che andrebbe approfondita, perché era anch'essa assai eclettica e meno precisa di quanto egli non ritenesse. Infatti il complesso gioco di influenze che operava in lui fu fonte di numerose contraddizioni in una ricerca politica che pretendeva la precisione addirittura meccanica e aritmetica nell'interpretazione della storia".
Ferrari formulò indubbiamente una posizione dottrinaria molto personale, in cui il "socialismo", nella sua versione francese, libertaria e pre-marxiana, era ben presente e che, come osservò il Salvatorelli, lo condusse anche ad essere acuto osservatore delle molteplici contraddizioni (che lui era solito definire "antinomie") che operavano nella storia e nella politica. Avendole quindi rilevate e discusse, riuscì a interpretare in modo originale non poche "reali tendenze della società". Tuttavia, da questo a considerarlo un socialista ci corre parecchio. Fu, sostanzialmente, uno spirito liberale.
La seconda idea era e resta, invece, più motivata e anche più attuale. Si tratta del "federalismo" che costituiva la sintesi dottrinaria e istituzionale ultima della sua "filosofia rivoluzionaria". A Gian Piero Vieusseux che gli chiedeva un poco preoccupato se fosse proudhoniano, cioè collocato sul versante più estremo del socialismo di quel tempo, Ferrari rispose: "Che Proudhon! lo vado molto più in là".
In effetti, "il suo federalismo era la traduzione istituzionale e pratica della democrazia, una dottrina di libertà, di concordia e di civiltà. Era perciò la proposta tipica di un radicale-democratico formatosi in Francia che aveva meditato sulla storia e sulla politica in Italia in senso risolutamente laico. In realtà, come Romagnosi prima e come Cattaneo e Pisacane poi, Ferrari fu un propugnatore troppo in anticipo sui tempi di un'alternativa politica e sociale per un'Italia diversa rispetto a quella che proprio allora si costituiva in Stato sovrano e indipendente, sotto il triplice segno della monarchia sabauda, del mito unitario di Mazzini e della fattiva e costruttrice politica di Cavour".
Questo federalismo ferrariano, dunque, offre una testimonianza e una elaborazione dottrinario-politica che tornano oggi a noi con un diverso sapore, pur in una ben mutata situazione storica e in una ben diversa maturazione civile del Paese. E in questo senso Ferrari è autore da leggere e da discutere. Il suo fu un apporto innovatore e ricco di sollecitazioni. Nel suo tempo ebbe scarsa incidenza. Oggi merita la dovuta attenzione nel contesto del dibattito politico aperto dalla nuova situazione politica del Paese.

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