§ Pellegrini delle Puglie

I noti monti che scirocco avvampa




Lucia Marzo



Dove incomincia, la Puglia, e dove finisce? I confini geografici, si sa, non sempre corrispondono al buon senso suggerito umilmente dalla natura: i fiumi e i monti (dove ci sono), il paesaggio comunque, anche umano, i colori della terra, la lingua o le lingue degli abitanti. La storia, da parte sua, è capricciosa: aggrega e disgrega senza fine, si lascia risalire fino alla notte dei tempi, risucchiando la mente in un vortice in cui la chiave che si cerca è smarrita senza rimedio. La Puglia o "le" Puglie, come talvolta, con felice imprecisione, ci succedeva di dire a scuola recitando le regioni d'Italia. L'astrazione di una linea tormentata su una cartina finisce con l'avere il suo peso sulla vita reale, ma in fondo i confini sono uno stato mentale, che trascolora a seconda di ciò che si cerca e di ciò che si è. E' vero che per una grandissima parte del suo perimetro la Puglia, almeno, ha la certezza di quel mare in cui si trova incastonata: ma il mare racchiude il mistero, proprio mentre lo dilata all'infinito nello spazio, con le sue onde e le sue correnti. Santa Maria di Finibusterrae, per esempio, ha un nome così categorico: dalla terrazza di fronte al santuario sopra Leuca (e non si può pensare a un luogo più giustamente, anche paganamente "sacro") dovremmo, obbedienti, sentirci sospesi sul nulla, o almeno su una lunga pausa di vuoto oltre la quale siamo liberi di immaginarci un altro pieno, ma totalmente altro e diverso, non nostro e ignoto, l'Africa dei sogni. Invece lo sguardo si tuffa ansioso nell'azzurro, alla ricerca un po' infantile di un altro confine leggendario, un confine fra cose o nomi familiari, che possa allargare fino all'orizzonte il raggio della nostra appartenenza al mondo: è quella striscia fantastica eppure così reale, in certe giornate particolarmente limpide e ventose, dove l'acqua dell'Adriatico diventa l'acqua dello Ionio. Ma forse non è merito del vento, della trasparenza dell'aria: vederla o non vederla, quella striscia, un po' come il "raggio verde" del film di Rohmer, dipende dal nostro momento interiore; sono gli occhi dell'anima che possono coglierla o lasciarsela sfuggire.
E se invece volta le spalle al mare, il pellegrino di Puglia, ovunque si trovi, fa la stessa esperienza incomprensibile di sentirsi nel cuore di un mondo e nello stesso tempo ai suoi margini, come di aver sempre appena superato, senza essersene accorto, quella striscia inesistente dove, per esempio, la terra bruna e generosa finisce e inizia quell'altra rossa e dura, pullulante di pietre da non poterle contare, bianche e calcinanti come le ossa di contadini preistorici che l'hanno intrisa del loro sangue e sudore. Ed è già nel Salento, proiettato come per magia dentro un oliveto diverso da quello appena scoperto e lasciato indietro, parte di un Sud che adesso si rivela come un Nord relativo e già remoto: gli alberi non hanno la stessa compostezza ampia e maestosa, la fitta sicurezza di un bosco visitato dagli dèi, come intorno a Rodi Garganico; qui al contrario sono come vecchietti decrepiti di una razza fortissima, resi scarni, con le giunture ingrossate e tutte in evidenza, perennemente curvi e concentrati sulle loro stesse radici che li rendono eterni, almeno di quella povera eternità che è umanamente pensabile.
Sono già un altro mondo le ondulature impercettibili della Capitanata, prologo del mare quando è calmo e appena increspato da un brivido: il mare in cui il Tavoliere digrada senza traumi, con i suoi cromatismi squillanti e diversi secondo le stagioni, ma sempre prosciugati di umori, tanto da rendere quella Padana minuscola e incastrata nel deserto più simile a un quadro di Van Gogh, un grande quadro dimenticato lì a sfavillare nel sole, che alla sorella maggiore, la grande e vera pianura continentale, sprofondata nelle sue nebbie come un'anima nordica: torbida, densa e imprevedibile.
Da Otranto in giù, altri fantasmi abitano le coste improvvisamente aguzze e scoscese, le case intinte nei colori del gelataio, i monumenti di pietra tenera, fioriti di fantasia mediterranea molto più che gli austeri castelli svevi e normanni.
Non arriva fin qui la grande ombra di Federico II, che invece percorre ancora la Puglia dàunia: è lì che aleggia il suo sogno unitario, le leggende di santità e lascivia, la spazio-tempo organizzato della corte e del regno, scolpito come il cristallo di Castel del Monte coi suoi ottagoni generati uno dall'altro, ripetizione infinita di un simbolo di perfezione. E' come se il pio Medio Evo, a queste latitudini, avesse accettato di dover assorbire precedenti culti pagani, preso atto del dominio assoluto del Sole su queste terre; per l'Imperatore e i suoi segni terreni, si trattava di essere simile al sole, o non essere affatto. Marcatamente sessuato e fecondo, praticamente ubiquo, anche barbaro all'occasione, ma di solito animatore di giardini floreali e intellettuali: l'ombra di Federico, attraverso i secoli e le memorie sia colte sia popolari, è sempre rimasta, in realtà, un'immagine di luce e di calore.
Altrove i segni del tempo, invece di fondersi come avviene nella Puglia federiciana, per dar luogo ai sincretismi di una civiltà originale, diversa da tutto quanto era prima e sarà dopo, sembrano invece depositarsi uno accanto all'altro, come gli anelli sparsi di una catena rotta: separati e riconoscibili, fanno intuire il fluire dei secoli soltanto per salti, attraverso silenzi inquietanti che solo il lavoro quotidiano degli uomini può riempire di voci. E' come se qui e là, nel suolo, si aprissero spaccature, bocche d'inferno da cui continuino ad affacciarsi le sagome ardenti di Ulisse e degli antichi coloni greci, degli asceti bizantini abitatori di grotte, la cupola preistorica di un trullo nella campagna, spuntata apparentemente con la naturalezza di un fungo, in realtà memoria di un istinto architettonico da api o formiche; la lingua di un menhir eretto fra terra e cielo, simbolo di una facoltà di pensare appena svegliata nell'uomo.
E' dunque una terra d'incontri, con gli uomini e con le cose, per il viaggiatore che la percorra nella sua lunghezza con spirito di scoperta. E' necessaria la dimensione del viaggio per sentirsi, almeno un poco, "dentro" questo scorrere di chilometri e di secoli: lo sguardo concentrato ma sempre disposto a lasciarsi distrarre, per fissarsi di nuovo su un altro punto un po' più lontano, capace di cogliere sotto le differenze e le contraddizioni una possibile, profonda unità dell'esperienza. Cesare Brandi, che pugliese non era, ma aveva istinto di viaggiatore, raccontò nel 1960 il suo cauto addomesticarsi con la regione: come se la terra, con arcaica pazienza, avesse atteso al varco e senza fretta la fantasia dello studioso, il momento di imporglisi dolcemente alla prima occasione di contatto, per catturarlo e poi tirarlo sempre più in fondo al suo cuore segreto, dai molti palpiti pronti a rivelarsi in una successione dagli effetti ipnotici. Non è forse insignificante che una delle prime immagini che si siano registrate, nella mente dello storico dell'arte, e che egli ci restituisce in tutta la sua magia, nelle pagine d'apertura di Pellegrino di Puglia (un fiore all'occhiello degli Editori Laterza, purtroppo ormai introvabile in libreria), non riguardi la severità di un monumento, l'interesse archeologico di un reperto, l'impianto urbanistico di un nucleo cittadino: anche se c'è tutto questo nel libro, e il viaggio contempla e riflette gli interessi del ricercatore raffinato e competente. Ma la Puglia si rivela attraverso lo spettacolo pirotecnico della festa di San Nicola a Bari, il bagno di folla che sembra trascinare l'erudito straniero verso le radici di un mito, le gallerie fatte di luci, prospettive fittizie che risucchiano l'anima, in fondo alle quali non c'è che lo stupore dell'infanzia.
"La scoperta non finirà mai, perché è un paese, la Puglia, come il mattino, un mattino limpido, un mattino di sole liquido: e, il mattino, sarà sempre lo stesso, ma non viene mai a noia. Ed ha sempre qualcosa di nuovo, nel suo spettacolo sempiterno". In grazia di questo mattino pugliese, diverso ogni giorno eppure immobile e sempre ritrovato, il diario del viaggio (o dei molti viaggi, come sembra di capire) di Brandi è potuto diventare, forse senza pretenderlo, un classico, un libro senza tempo. Leggendolo ora, a distanza di più di trent'anni dalla prima edizione, non si prova nostalgia per un paradiso perduto, come perduti sono tanti luoghi e modi di vivere in Italia e altrove, stravolti da un'accelerazione che avviene nel segno di un benessere presunto e televisivo. Si ritrovano invece le emozioni che ognuno, pellegrino anche solo per un giorno, ha provato nel confrontarsi con certe realtà dotate di uno spessore che resiste, e che nella sua resistenza rassicura intimamente, in modo forse paradossale, rispetto alle brusche deviazioni dalla naturalezza del vivere, e anche dalla cultura che aiuta a vivere, che sono responsabili della fragilità sempre più palpabile dei moderni.
Certo, la Puglia è cambiata e trent'anni non sono passati senza lasciar segni. Nessuno può veramente dolersene, se non in nome della retorica di un mondo sparito che, se aveva un fascino, presentava pure sacche di povertà, degrado, analfabetismo, sfruttamento. Sono le facce oscure della civiltà contadina, comuni ancora a tanta parte dei Meridione, sebbene non a quell'immagine patinata che gli opuscoli pubblicitari dei villaggi turistici si sforzano di promuovere presso la fantasia degli europei, affamati di natura come di un ennesimo bene di lusso.
E' vero che i pugliesi hanno elaborato sistemi di lotta che sembrano confermare una qualità dello spirito che ha poco in comune con le caratteristiche dell'anima meridionale, con il fatalismo, l'atavico torpore, la tendenza a resistere passivamente ai cataclismi naturali e storici. Ogni zona, ogni città della Puglia è cresciuta restando fedele, anche attraverso errori e contraddizioni, a un suo sogno originale e consapevole: fedele a una vocazione antica, se già alla fine del '700 Giuseppe Maria Galanti, incaricato dai Borboni di un'ampia ricerca sullo stato delle province del Regno, riconosceva i baresi come i più abili nel commercio interno, Lecce come la città più raffinata e "la più pregevole per farvi soggiorno", Gallipoli al centro delle terre produttrici di olio, gli abitanti di Molfetta, Trani, Bisceglie, Monopoli come bravi marinai, votati alla pesca e al traffico marittimo.
Cesare Brandi si incontra con tutte queste realtà in tensione tra permanenza e cambiamento, le coglie nella loro presenza, radicate e proiettate come un attimo della vita: un attimo qualsiasi eppure unico e prezioso, impastato di solennità e d'ironia. E' un'epifania ammiccante quella che gli si rivela alle porte di Bari, proprio al margine della strada asfaltata: un menhir e, accanto, un cartellone pubblicitario.
Ma il precursore ideale di questo viaggio, più che il meticoloso Galanti, sembra meglio essere Orazio, il primo e più famoso fra i pellegrini e testimoni di Puglia. Poeta caro ai prosatori, spirito fine ed esigente, stizzito per le scomodità del percorso alla volta di Brindisi, intrapreso insieme a Mecenate e Virgilio lungo la via Appia; ma sempre aperto alla suggestione di un paesaggio bruciato dal vento, di un sapore, di un profumo o di un volto fugacemente incrociato in un vicolo di paese: intermittenze del cuore di un cittadino romano, nato peraltro a Venosa, in quella Lucania che alla Puglia si avvicina e si fonde. Con il poeta latino Brandi condivide l'amore del bello e del buono, che vuol dire anche il gusto per quelle terrene piacevolezze che semplificano la vita, e che i viandanti di ogni epoca apprezzano e custodiscono con gratitudine nella memoria: il vino sincero, i sapori rustici di un pasto lungamente sospirato, la frescura di una pergola e di un grappolo d'uva. Gli accade naturalmente di irritarsi se il pregustato ristoro e piacere non è pari alle aspettative, per esempi in seguito a un'esperienza poco felice con il vino del Vulture, in quel di Melfi, proprio nelle terre di Orazio. Ma in realtà le unghiate della sua vena satirica sono volte a più alti argomenti, provocate da una preoccupazione profonda e partecipe le cui ragioni, lungi dall'essersi dissolte con gli anni trascorsi, sono invece più attuali che mai, com'era prevedibile: anche se non sono ragioni drammatiche, poiché nulla in Puglia sembra avvenire o potersi percepire drammaticamente. Neanche la metamorfosi di Taranto, la perdita del suo equilibrio marino in favore di un miraggio di efficienza e di produttività, peraltro mai veramente conquistate. Nel 1960 l'Italsider non strozzava ancora Taranto nella sua morsa sulfurea; eppure l'intuito fine dello storico sembra già prevedere un disastro, presagio accennato e subito rimosso come un fugace pensiero di malaugurio: un disastro annunciato dalla retorica del porto militare, dalle architetture presuntuose sul lungomare, dalle velleità di modernismo mal meditato, espresse da certi nuovi monumenti. Tutte cose che infastidiscono il visitatore, che sembra pensare e respirare all'unisono con l'armonia delle costruzioni umane. Egli non spiega perché la città "posta in un sito singolarissimo, potrebbe essere stupenda, e invece è squallida". Semplicemente respira la pace greve della città "ben servita dai militari, dai preti, dagli architetti"; è l'aria a sembrargli pastosa e malsana, anche se ancora non sono spuntati i funghi velenosi delle ciminiere, anche se ai potentati di sempre non si sono ancora sovrapposti quelli dell'industria e della politica: il fumo negli occhi, alla lettera in questo caso, di un malinteso sviluppo, difficilmente riconoscibile come vero progresso.
Taranto è allontanata dallo spirito come un'inquietudine; il passo, preceduto dal pensiero, è già volto verso Manduria, dove spira rasserenante un vento classico anche più antico di Orazio tra le rovine della doppia cinta di mura, dove si annuncia "la bellezza composta e paesana del Salento": un nuovo mattino di Puglia, che consola dalle funeste premonizioni.
A Trani, è la vicenda bizzarra del campanile a suscitare lo sgomento dell'autore: smontato e ridotto in cubetti, in attesa di essere ricostruito, si assicura, con assoluta fedeltà all'originale. Ma è ripetibile l'atto creativo che genera l'opera d'arte? Non lo è. La controfigura di un monumento non è che un falso, inutile quanto arrogante, con la pretesa di consegnare al futuro qualcosa che invece ha annientato poiché la storia, ogni gesto dell'uomo, non è reversibile.
Occorre almeno domandarsi onestamente se sia questo l'unico modo di preservare l'Italia dai danni del tempo, distruggendola per poi rifarne un simulacro con le sue stesse ossa. Molto spesso non è affatto l'unico modo: nel caso del campanile di Trani, solo l'ostinazione e la boria di qualche autorità, contro il parere dei competenti, peraltro intervenuti in ritardo, hanno deciso che era indispensabile lo smembramento, costosissimo, contro ogni altra ipotesi di restauro e di consolidamento. Alberobello è un altro esempio di stordimento della ragione moderna, coi suoi palazzoni l'in vetrina", ben visibili alla sommità del paese: monumento all'idiozia non solo e non tanto per la sconvenienza estetica, ma soprattutto per il disprezzo della logica elementare dei luoghi e del clima, di contro alla civile saggezza dei trulli. "Mentre nel casermone di ferro-cemento le persone, nell'estate pugliese, cuoceranno al gran fuoco, come porcellana, dentro i trulli, i trogloditi godranno d'un fresco quieto e senile di mille anni addietro", Brandi prevede e sogghigna come un folletto vendicatore. Ma più che il sarcasmo, si sente l'amarezza di essere "contemporaneo" di una razza che sta perdendo ogni riferimento, esterno o interiore.
In effetti, vien da pensare che Cesare Brandi si senta in genere più a suo agio con i fantasmi che con gli uomini del suo tempo; che abbia anzi una meravigliosa agilità nel seguirli fin dentro le loro impervie dimore, che essi stessi gli vengano incontro incarnati in apparizioni, nascosti nei volti o nei gesti di bambini o ragazzine alla svolta di un vicolo di paese, nei crocevia di campagna; sempre un po' distanti e diffidenti, com'è giusto che siano i fantasmi. E' un modo di percepire il mondo che ben si addice allo storico e all'archeologo, lungamente abituato a dialogare col passato, con le pietre, con le leggende. Gli sfugge forse in parte la vitalità di quel "popolo di formiche", per dirla con Tommaso Fiore, che ha continuato a costruire il proprio mondo su questi sassi: che oggi gira in automobile, rinnova con criteri moderni l'azienda di famiglia, che va a sciare d'inverno ma d'estate si gode il suo mare, all'insegna di un saper vivere che non ha bisogno di frenesie (meglio abitare a qualche chilometro dalla costa, nella casa estiva fra i vigneti, lussuosa o minuscola che sia, lontano dall'afa, dalla babele di accenti, dal brulicare di carni troppo bianche e bruciaticce abbarbicate ormai anche alle scogliere più inospitali); un popolo i cui giovani, figli o nipoti d'emigranti, partono a loro volta per curiosità del mondo, e se ritornano è per fondare compagnie teatrali d'avanguardia o gruppi musicali, per lavorare e impegnarsi nel nuovo, mantenendo saldo l'amore per l'antico. Naturalmente è proprio l'accelerazione impressa alla Puglia dalle ultime generazioni, quella che Brandi non ha fatto in tempo a conoscere: mentre d'altra parte, al suo occhio limpido di straniero, si sono manifestate certe sopravvivenze che per gli stessi trentenni meridionali, nati dopo il suo viaggio e il suo libro, non sono che vaghi ricordi di estati infantili, o materia di racconti mille volte ascoltati.
Ecco, l'esperienza che non è stata di Brandi, e che egli certamente avrebbe amato, è stata quella di un "itinerario di amici", parallelo o coincidente con quello dei luoghi. Amici pugliesi, facce antiche e cortesia di Magna Grecia, ma indubbiamente uomini vivi e reali, capaci di riempire, soltanto con il loro esserci, lo iato fra la dolcezza evocatrice dei monumenti e le incertezze di un destino affidato all'umanità presente e futura.
Volentieri, se è lecito fantasticare, Raffaele Nigro avrebbe accompagnato Cesare Brandi in quest'altra scoperta, e il vino di Melfi, patria del giornalista e scrittore più giovane, avrebbe avuto anche per l'anziano un altro e più ricco sapore: un sapore di gioia conviviale, di caldo umanesimo, consumato insieme durante qualche lunga conversazione notturna. Mi piace immaginarli così, alla vigilia di una partenza, mentre pianificano l'itinerario dell'indomani. Mi piace che Nigro riveli al vecchio maestro, sottovoce, il suo bel segreto, che trovo nel preludio al suo Viaggio in Puglia: "Un paese sconfinato, mi accorgo, non mi possiede, sono io che lo posseggo in un palmo se ho amici: sono le mie coordinate, i miei punti di riferimento".
Non è che un gioco della fantasia, quello di far incontrare due pellegrini così diversi, di scambiare e fondere le loro esperienze e riflessioni; sovrapporre le pagine di due libri e veder emergere in controluce la trama di un dialogo, tutto nuovo, tra due autori sul filo impossibile del tempo. Un dialogo a cui si può partecipare, creandolo: è un gioco di specchi che ogni lettore conosce, la sua amorosa violenza nei confronti dei testi.
E' dunque, Viaggio in Puglia, un altro libro prezioso pubblicato da Laterza; l'ultimo scorcio del '91 ne ha visto la prima e la seconda edizione. Non spiacerà all'autore questa lettura incrociata con l'opera del precursore, anche perché il libro di Raffaele Nigro sembra in qualche modo invitare o presentire il confronto. Ma la sua forza e il suo senso sono proprio nell'aver popolato i luoghi di voci e di sorrisi, nell'aver aggiunto più di un fremito di vita e d'intelligenza attiva alla frequentazione di un itinerario monumentale, senza nulla togliere all'arcano e alla forza primordiale della terra, lasciandola comunque protagonista in quanto generatrice di uomini.
La Puglia ci si presenta così vitalizzata da una fitta trama di relazioni, popolata di uomini e donne in ricerca, ciascuno a suo modo e nel suo campo. Archeologi e folkloristi, poeti e commercianti, collezionisti e agricoltori sono còlti nelle pause del lavoro di ciascuno, nel gesto antico e squisito di aprire la casa all'ospite, di renderlo partecipe di un mondo piccolo oppure imponente, messo su con amore, pazienza, attenzione: come gli artigiani di un tempo sceglievano con cura le pietre per gli incastri dei loro prodigiosi ''parieti'' a secco. Per Brandi, estraneo e curioso, quei muretti e quelle casupole non erano che il segno misterioso di un'abilità preistorica, persistente nell'aria come un incantesimo. Nel mondo degli amici di Nigro, invece, nulla è veramente prodigio: tutti i regali della terra sono passati al setaccio dell'umana energia, nella sue forme placide o frenetiche.
E Bari, dove Raffaele Nigro vive e lavora, che è il luogo del suo tempo quotidiano, è una città conosciuta per lunga frequentazione, ma ancora gelosa custode di segreti, protetta dalle sue stesse contraddizioni: appare come un posto unico al mondo, ma anche come un punto qualsiasi del cosmo, un ideale punto di sempre nuove partenze e ritorni. Lo spirito è sempre in viaggio, anche nei giorni scanditi dai ritmi semplici del lavoro e del riposo, e la sua ricerca non può essere che verso la comprensione, sempre più larga e profonda, della complessità. E' uno spirito pellegrino che s'immerge fino al ventre della città vecchia, per poi risalire e circondarsi del ritmo tambureggiante di una Wall Street mediterranea; si ferma ad ascoltare i pensieri del mare nelle ore morte del primo pomeriggio, la notte si confonde fra un'eco di jazz e il risuonare di eterne ninnenanne dialettali.
Visitando la cattedrale di Otranto, accade di percorrere passo dopo passo il grande Albero della Vita che prende forma sul pavimento: il suo grande tronco unitario, il diramarsi delle radici e dei tralci in una miriade di scene, un fermento di attività che coinvolge uomini, animali e dèi in un unico misterioso progetto. E' la visione sintetica e grandiosa di un monaco oscuro, di un uomo non diverso dalla folla di ombre il cui ricordo si è perso o si perderà. C'è una pluralità, un formicolìo, una differenza fra scena e scena, ma l'albero è uno solo, vi circola una stessa linfa vitale. E il mosaico era l'unica tecnica che potesse dar forma a questa intuizione. Mosaico di gente, di lavori, d'interessi, di sogni diversi, la Puglia di Raffaele Nigro custodisce lo stesso segreto che ispirava il cuore e la mano del monaco Pantaleone di Otranto.
Le molte Puglie che ci è dato di conoscere, geografiche, geologiche, storiche, rurali o urbane, aristocratiche, borghesi o popolari, formano anch'esse un caleidoscopio, un disegno che disorienta e travolge, un continente che è anche la sintesi di tutto il mondo e dell'esistenza: sfuggente alla comprensione, irritante nel suo moltiplicarsi, ma anche magnifico, anche semplice in modo disarmante se ci si ferma a riconoscere le sue singole manifestazioni, come le singole scene che costituiscono i ridotti frutti dell'Albero musivo.
E se ogni frutto porta dentro di sé, in potenza, la struttura della pianta, allora l'esperienza del viaggio in Puglia, anche del viaggio attraverso la lettura, diventa un penetrare all'interno di un gioco di scatole cinesi, una riflessione le cui implicazioni possono comprendere e contenere tutto l'esterno e tutta l'interiorità, come dovrebbe accadere per ogni viaggio che sia degno di questo nome.

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000