§ Nostoi

Nessuno scrive a Creusa




Antonio Errico



Da quella notte ogni notte vi scrivo, mio Ascanio, mio Enea, da quella notte per raccontarvi ogni notte l'identica storia, ogni notte le stesse parole confuse, ogni volta verità e menzogna, che non riesco a distinguere più.
Vi ho scritto ogni notte e in ogni stagione, affannata, con le dita gelate o col sudore negli occhi, vi ho scritto con penne d'oro o carboni, ho strappato e riscritto.
Ho aspettato tutti i treni per anni chiedendo di voi a chi scampava da guerre, abbandonava la casa, ai fuggiaschi d'ogni Troia assediata, violata chiedevo se vi avessero visti per caso a qualche frontiera.
Vi ho cercati nei libri di storia, negli elenchi infiniti dei caduti di tutte le guerre, dei fuoriusciti, degli esuli di ogni paese.
Vi cerco, vi scrivo. in un quaderno annoto i nomi che riconosco, senza distinguere i nemici dai miei: Abante: ucciso da Enea sotto le mura di Troia; Antiloco: ucciso da Nemnone a Troia; Epito: morto nell'ultima notte di Troia; e poi Priamo, Polite e tanti altri, molti altri.
Ho trovato anche il mio nome, Creusa: dopo l'incendio della città, della sposa di Enea non si ha nessuna notizia, si legge.
Dispersa. Da quella notte non si sa più niente di me.
Mi piace questa incertezza intorno al mio nome, la polvere che lo ha coperto giorno per giorno nascondendolo ad ogni gloria, ad ogni pietà.
Anch'io, devo dire, talvolta mi sento dispersa, come se fossi passata per tutte le età, come se ora per ora, anno per anno avessi perduto qualcosa, mi fossi sfibrata, sottratta a me stessa, privata di occhi, di voce, pensiero.
Però mi ci sono abituata. Vivo quasi bene così, lontana da tutti, protetta dalla mia estraneità, sradicata, scordata, figura di un dramma, nome d'antico racconto.
Ma solo così posso vivere se scrivo di voi, se vi scrivo, se invento ogni notte una storia, una vita da darvi; se vi creo ogni notte è dalla mia vita che posso crearvi.
Anche oggi il postino è passato senza fermarsi. Mi ha fatto cenno di no, anche oggi. Domani, forse domani, signora. Ogni giorno mi dice così: forse domani.
Ogni giorno io aspetto domani. Non so più da quanti anni. Non so più se valga la pena aspettare domani.
Ma so che non mi hanno scordata, lo so. Come potrebbero avermi scordata? Loro sanno che io vivo qui, che da qui non mi sono mai mossa, anche se non ho mai capito, non mi sono mai chiesta, perché mi nascosi, che cosa mi impedì di seguirli.
Sono rimasta in questa città che non riconosco, che non mi riconosce, forestiera confusa coi forestieri che arrivarono appena finita la guerra.
Perché son rimasta? per memoria? Oh no, no. Non c'è nulla in questa città che ricordi Troia com'era. Nulla. Soltanto un giardino con la statua di Priamo; quella di Ecuba è caduta anni fa.
Dimante racconta la storia ai turisti. Lui si salvò quella notte, si finse morto tra i morti. Adesso racconta l'assedio, del cavallo di legno, di Enea, di Laocoonte. A volte confonde.
Ma è passato tanto tempo, tanto tempo. Vive così adesso Dimante.
Ogni tanto anch'io vado ad ascoltare il racconto insieme ai turisti.
Alla fine Dimante mi guarda triste, in silenzio, quasi volesse chiedermi scusa. Io lo guardo, in silenzio.
La morte di Priamo però non l'ha mai raccontata: per quella morte così umiliante, così impietosa, sfrontata, non ha mai trovato parole, forse.
Mio padre. L'assedio lo aveva sfiancato. Negli ultimi tempi girava per il palazzo come un ospite indesiderato - così si sentiva, mi disse una volta - come se fosse lui la causa della maledizione che si era abbattuta su Troia e sulla sua gente, quasi che solo da lui dipendesse il destino di tutti.
Certi giorni restava per ore e ore davanti al ritratto di Ettore; sembrava che non vedesse nessuno, non ascoltasse nessuno.
Non era re per quei tempi Priamo, non era uomo di guerra; era ingenuo, si stupiva di tutto; perdonava.
Una sera mi disse: Creusa, io ho perdonato, Achille io l'ho perdonato.
Mi sentii offesa. Per me quel perdono offendeva Ettore, gli dei, offendeva la memoria e l'onore di ogni guerriero.
Avrei voluto domandargli perché perdonava. Invece non riuscii a dire niente. Avevo negli occhi il volto di Ettore, il volto di mia madre, Ecuba: lei forse è stata la vittima più oltraggiata.
Solo adesso riesco a capire il perdono di Priamo, adesso che anch'io ho perdonato, molto, quanto non avrei mai immaginato di poter perdonare.
Il tempo, forse, il tempo cuce ogni strappo, passa unguento sopra le ferite, ci consola smemorandoci. Penso, a volte, che non sia mai accaduto nulla, che sia stato tutto soltanto fantasia di un racconto, che anch'io non sia altro che il nome di un racconto.
Ma so che non è così. lo so che accadde. Ricordo una notte di rovina, di scompiglio. Mi ricordo il tumulto della fuga, mi ricordo, anche se adesso la memoria si è sfuocata. Troia quella notte era bestia stremata, fanciulla atterrita, fortezza sventrata, era morto paesaggio, un tempio violato.
Non è rimasto niente di Troia. Dov'era il palazzo di Priamo adesso hanno messo un luna park.
Si era addormentato tardi Ascanio quella sera.
Prima di addormentarsi mi aveva detto: madre, domani posso andare fuori le mura a lanciare l'aquilone?
Gli risposi di sì.
Non può avermi scordata, Ascanio. Un giorno mi scriverà, lo so, o tornerà per portarmi con sé; conoscerò la sua sposa, i suoi figli, mi parlerà del padre; ritroverò anche lui, forse, anche Enea, vecchio, sereno, senza più furori; forse anche lui avrà perdonato.
Non può avermi scordata, Ascanio.
Quando si addormentò io uscii sul balcone. Nel palazzo di mio padre ardevano ancora le fiaccole. Vedevo ombre muoversi dietro le tende, forse le mie sorelle, forse le ancelle.
La città mi parve piccola, fragile, mi parve boccia di vetro, tremante, esitante come lume che un vento lieve - un soffio - insidia, una città che mai più sarebbe riuscita a cancellare dalle sue strade, dai suoi templi, dalle porte la vergogna dell'assedio.
Pensai a Cassandra. Aveva urlato, imprecato, implorato che non portassero il cavallo in città.
Povera Cassandra. Anche lei è rimasta qui. Vive sola in una casa umida e scura, tra ragnatele e ritratti. Dorme poco, ha paura.
Ha coperto gli specchi con i panni neri, per non vedersi.
Ha bauli pieni di vestiti, di giornali, di oggetti.
Ricorda tutto lei.
Ogni tanto vado a trovarla. Dice: non doveva finire così.
Se mi avessero ascoltata. Se per una volta mi avessero ascoltata.
Non doveva finire così, Creusa, mi dice. lo la lascio parlare, non dico niente, non voglio ricordarmi di niente.
Ogni volta mi racconta di Otrioneo di Cabeso e di Corebo, figlio del re Migdone, che vennero a combattere a Troia perché volevano sposarla, e morirono per amore di lei.
Per amore di me, dice. E ride, ride forte, disperata.
Ero bella, sussurra poi. Eravamo belle.
Ogni volta mi fa vedere i giornali che parlarono di lei il giorno dopo l'invasione. Dissero che l'aveva presa Agamennone come concubina.
Non è vero, dice, non è vero. Devono sapere tutti che non è vero, che Cassandra non fu schiava mai, di nessuno.
Ho scritto a tutti i giornali, dice, ho spiegato che io son rimasta sempre qui a Troia, che avrei potuto raccontare ogni cosa di quella notte.
Non mi hanno creduta.
Ormai vado a trovarla di rado. Non sopporto la puzza di chiuso, di vecchio della sua casa. O forse non sopporto la sua memoria.
Bisogna anche scordare, certe volte, far scendere la nebbia sul passato, su quello che importa meno, su quello che non ha senso ricordare. Bisogna sapersi liberare dei dolori, curarsi le ferite, non voltarsi indietro, non guardare in fondo.
Ho vissuto non so quanti anni cancellando il giorno ogni notte, la notte ad ogni alba, lasciandomi sempre dietro qualcosa, qualcuno.
Ho costruito il mio vuoto, il mio silenzio, la mia vita di vuoto e di silenzio, di vuoto caldo, di silenzio chiaro, questa mia vita che non ha passioni, che ha solo l'ansia di sapere se vivono - oh sì che vivono - dove vivono il mio Ascanio, il mio Enea.
Ma anche quest'ansia adesso è cambiata; non è smaniosa più, si è acquietata.
La notte adesso dormo, a volte sogno, anche se non ricordo mai cosa ho sognato.
Quanto tempo è passato.
Non possono avermi scordata.
Lui tornò quella notte, lo vidi, Enea, ritornare, ripercorrere i passi, sfidare ancora l'armi nemiche, mi cercò per le strade più scure, nei luoghi segreti, tornò nella casa violata, incendiata, frugò la città tutta quanta urlando il mio nome.
Non risposi.
Mio Ascanio, mio Enea, il mare stanotte ècalmo, non c'è nebbia, mi giungono sirene di navi dal porto, un rumore di carri armati dalla piazza.
Non so quanto tempo è passato: cento anni, mille anni. Non so.
Ma da quella notte ogni notte vi scrivo, mio Ascanio, mio Enea, da quella notte ogni notte per dirvi che sono tornati, che l'assedio èripreso, per dirvi che vi ho cercati.
Vi ho cercati negli ospedali, tra le macerie, tra i morti di ogni battaglia, nelle corriere di bambini che cercano scampo lontano lontano.
Vi ho scritto quella notte da Troia e ora da Sarajevo, vi ho scritto per dirvi che da allora nulla è cambiato, che le storie s'intrecciano, si confondono i tempi e i destini.
Al tramonto hanno portato un cavallo di legno in città.
Un voto, hanno detto, dei greci per il ritorno.
Sinone ha rinnovato l'inganno. Cassandra ha urlato imprecato implorato di nuovo.
Non l'hanno ascoltata.
Io so come continua la storia.
Mio Ascanio, mio Enea, è l'ultima notte che vi cerco, vi scrivo.

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