§ Edoardo / 3

Solitudine di maratoneti




Aldo Bello



- Ce l'hai una stanza? E una minestra? Allora, portami a Roma. -. A Roma avrebbe ricominciato a dipingere, sarebbe uscito col cavalletto, e con i colori e i pennelli. - Ci sono sempre i pini grandi? -, i pini d'Aleppo ci sono ancora, malgrado l'accanimento edilizio non sono riusciti ad abbatterli tutti, cielo e ruderi sono un po' malconci, ma anch'essi sono al loro posto, il Tevere è più cloaca del solito, il mare però è tornato limpido, si pesca sempre con le bilance. - Mi porti a Roma? -. Voleva proprio venire a Roma, alla stracittà di trent'anni addietro, a Via Veneto della dolce vita, alle trattorie delle baldorie trasteverine, alle passeggiate sotto i platani barocchi, ai musei foderati di travertino. Voleva restituirsi alla vita che fu.
- Non dipingo più -. Era immenso come un campo di grano, dentro un letto piccolo e stretto. Una sedia per comodino, un armadietto con ritagli di carta, forse nient'altro. La finestra aperta. L'aria agonizzava come in un orinatoio, al di là di una porta a vetri un cane latrava odiosamente, lui si era proprio risvegliato, Verri gli dava corda: - Che cos'hai da dirci? -. Usava il fazzoletto come un sudario: - Non ho più idee, voglio andare a Roma -. Ricordava le domeniche ai Castelli, pecorino e bianco di Frascati, frugava in una memoria enfisematica, non riusciva a rattoppare i vuoti, allora cuciva segmenti di frasi e brandelli di pensieri. Verri interpretava, era la sua memoria storica, lui i racconti e le confidenze li aveva raccolti per intero, quando erano vivi e animavano i vicoli e le piazze e le botteghe della carne di cavallo di Lecce.
(Sembrava impossibile che quel mastodontico tumulo di carne custodisse un'anima. E invece c'era, o c'era stata, e a lungo, anche se si era dissipata così tanto e con tale eschilea determinazione; se aveva ostinatamente perseguito la metamorfosi della larga pennellata da Matisse salentino nella larga scia di creatura kafkiana; se aveva poi capito l'inganno, e chiedeva alla macchina del tempo di riportarla indietro, in un impossibile replay da modificare lungo il nuovo itinerario in un mondo che non esiste più. Come il lutto ad Elettra, la fagogitazione si addice alle vittime dei nostoi. Lecce non ha tradito il principio, la legge. Nessuna esecuzione sommaria, ma morte lenta, e inesorabile, del trasgressore. Secoli di scirocco hanno reso la "salentinità" un terreno infido e velenoso).
Allora era morto da tempo, Edoardo De Candia. E quello che mi parlava, agitando mani come mannaie, era un fantasma invendicato, un'anima - appunto - non placata in un paradiso delle Urì, nel giusto riposo del ribelle creatore, nell'appagamento dell'uomo e dell'artista compiuto.
Gli aveva sottratto qualcosa d'importante, questa nera provincia di intellettuali garantiti e di raccoglitori-affaristi a buon mercato. Un poco alla volta l'aveva svuotato, lasciando solo una specie di gigantesca crisalide, un immenso involucro, con gli ultimi bagliori per rare amicizie, per stupefatte parole, per fulminei incontri.
E me lo porto a Roma, per quel che resta di lui, l'ultima stretta di mano, l'ultima immagine della sua stanza-cella catacombale. Qui sopravvive la sua ultima beffa, le marine rapinategli a diecimila lire, gli olii e le tempere sciolte con l'acqua dell'Adriatico, paesaggi ghignanti mentre segretamente si auto-ossidano, disgregandosi giorno dopo giorno, come nelle dissolvenze narrative borgesiane.
Splendido e saturnino De Candia, postumo terrorizzatore di farisei, amico manicomiale, gran campo di grano bruciato: ti inebrino le stelle e i mondi remoti nei quali vai, finalmente libero con un'altra pelle, anima negro-amara, buco nero in fuga dal micro-cosmo salentino.

Luigi Gabrieli

Se ne è andato anche Luigi Gabrieli, in punta di piedi e, quasi a dispetto, senza preavvertire. Tanto fu estroverso De Candia, quanto fu appartato nell'esilio matinese Gabrieli. Nella sua terra la provincia fu vicolo, corte, basso. Spazio ridotto, nel quale l'intelligenza stentava a trovare un varco, una liberazione, senza un'interna violenza centrifuga. Gabrieli si condannò all'isolamento per essere e restare spirito libero, artista originale e maestro sicuro. Disprezzando le insidie del mercato, amò la solitudine. Raramente affidò le sue opere ad altri, ancora più raramente si aprì con gli altri. Ma quando lo fece, con i pochi con i quali era in sintonia, fu antologista eccellente e narratore di grande intelligenza.


Svelava le tele nel suo studio di cataste come preziose miniere, scandiva i suoi periodi, descriveva le ricerche sperimentali, commentava gli obiettivi raggiunti. Aveva un modo folgorante di comunicare, allora svaniva persino il suo pessimismo, si ricolmavano mesi di silenzi, era infranta la barriera dei giorni solitari.
La sua era una zona franca in una piccola patria tutta mercantile e affaristica. Un'area di rigenerazione, un rifugio per eletti, un'oasi nel cuore del deserto. Ora è regione inesplorata, terra vergine, luogo di decantazione di belle memorie. Ci si dovrà accostare con rispetto e quasi con tenerezza, perché il filtro dell'artista non c'è piú e il rischio della profanazione è concreto. Ci vorranno una particolare sensibilità e la vocazione alla più rigorosa filologia pittorica per leggere in chiaro i complessi rapporti tra vita e arte, semplice l'una, raffinatissima l'altra, eppure perfettamente compenetrate, di Gabrieli. Senza rituali accademici, e senza ipocrisie paesane. Anche se Matino ha perso un uomo illustre, colto, di respiro italiano. E ancora non se ne rende conto. O, più tragicamente, non lo sa.


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