§ I bambini e la medicina

L'infanzia della Repubblica




Vincenzo Menichella



Fare una revisione delle condizioni dell'infanzia in Italia esige innanzitutto di stabilire i termini temporali dello studio. il 1946 rappresenta il primo anno di pace dopo il secondo conflitto mondiale e, anche se l'influenza negativa della guerra è ancora apprezzabile, dal punto di vista statistico (particolarmente per quello che riguarda la mortalità) si ha in quell'anno più o meno un ritorno alle condizioni del 1939; in pratica, un ritorno alla mortalità infantile intorno al 90 per mille, mentre negli anni di guerra aveva toccato anche punte del 120 per mille.
Il 1946 è perciò un buon punto di partenza per studiare i fenomeni medici, sociali, statistici riguardanti l'infanzia nel dopoguerra.
Il 1946 è anche l'anno della mia laurea in Medicina; da quella data posso raccontare quello che ho visto e vissuto, e non solo quello che ho letto, e non vi è dubbio che una testimonianza è molto più viva di uno studio da biblioteca o da archivio; essendo poi il 1946 l'anno di inizio della carriera politica dell'onorevole Andreotti e l'anno di nascita della Repubblica, non può essere ritenuta come una data che sottintenda un arco di tempo troppo limitato. Un po' ambiziosamente potremmo dire comunque che questo studio può essere chiamato condizioni dell'infanzia nella Repubblica italiana.
La mortalità infantile nel 1946 era dunque del 90 per mille; nell'89 (ultimo dato disponibile) è stata del 9 per mille: una rivoluzione copernicana. Un morto contro i 10 di allora, il tutto nell'arco della vita professionale di un medico; se poi si considera che i nati erano circa il doppio di ora e i medici che si occupavano dell'infanzia non più della quinta parte di adesso, abbiamo che, se un medico allora assisteva a cento decessi dei suoi pazienti, ora ne assiste ad uno solo. Era certamente una condizione che ora definiremmo da Terzo Mondo.
In quegli anni la mortalità infantile italiana era meno elevata solo di quella del Portogallo e della Jugoslavia. Ancora nel 1960 il grande pediatra di Zurigo, Fanconi, poteva dire che in tutti i Paesi del mondo il tasso di mortalità infantile era correlato con il numero dei pediatri in senso inverso: più alto quello più basso questo, mentre in Italia paradossalmente, ad un ormai alto numero di pediatri, corrispondeva un'altissima mortalità infantile. Aggiungeva malignamente che ciò avveniva perché in Italia le specializzazioni in Pediatria si davano per corrispondenza e le cattedre per diritto ereditario...
A parte le malignità, certamente erano ben altre le cause della elevata mortalità infantile; non avevano certo giovato al progresso né l'autarchia né la guerra perduta.
Un dato statistico nazionale è la risultante di vari dati regionali e, nel caso, molto diversi tra loro. In situazione peggiore si trovava al riguardo la Jugoslavia, che ad una Slovenia mitteleuropea (la Clinica ostetrica dell'Università di Lubiana era una delle più accreditate in Europa) contrapponeva un Kossovo ed una Macedonia ove il 50% dei bambini moriva senza aver subìto una visita medica ed il 50% delle donne partoriva senza l'assistenza della levatrice (sembra sia tuttora così).
L'Italia meridionale ed insulare godeva di una fecondità non molto dissimile da quella di fine secolo; i molti bambini in una famiglia aggravavano le difficoltà del trasporto dei malati ai centri attrezzati e vi era una diffusa sfiducia verso le istituzioni ospedaliere. Ancora nel 1981-'82 (da miei studi pubblicati), vi era nel Sud Italia una altissima mortalità dei lattanti a domicilio (780 morti nel Mezzogiorno, contro 120 nel Centro-Nord), espressione di due fenomeni: il mancato arrivo in ospedale, anche di malati gravi, ed il ritorno a casa in fase preagonica (e forse, a volte, del morto), per risparmiare le spese di funerali da centri lontani e perché era ritenuto più dignitoso che il malato morisse a casa.
La sfiducia nelle istituzioni ospedaliere locali ha dato origine anche ad una notevole migrazione di malati da Sud a Nord (vedi Medico e Bambino, 1988), molto spesso del tutto ingiustificata per l'esistenza al Sud di centri validissimi anche se non diffusi su tutto il territorio; sarebbe stata cioè giustificata semmai, non una migrazione Sud-Nord, ma una migrazione nell'ambito dello stesso Sud.
L'alta mortalità del Sud (meno quella delle Isole) innalzava perciò il tasso complessivo della mortalità italiana; il gap del Sud però si attenuava notevolmente in questi ultimi decenni. Confrontando la mortalità del Mezzogiorno con le regioni a minore mortalità (quelle del Nord Ovest e cioè Veneto, Trentino Alto Adige e Venezia Giulia, quest'ultima sempre in testa nel successo contro la mortalità infantile) si nota ancora che nei primi anni Settanta il gap è di 15 anni, mentre negli anni Ottanta si riduce a circa 5 anni. Incidentalmente val qui la pena di ricordare che l'influenza della buona amministrazione asburgica si sente a distanza di oltre un secolo, anche se bisogna ricordare che le regioni del Nord Ovest hanno dovuto affrontare molti problemi in campo sanitario perché sedi negli anni Cinquanta e Sessanta di una immigrazione notevolissima di meridionali e degli stessi veneti.
Complessivamente oggi la mortalità infantile italiana può essere considerata con una certa soddisfazione; ci superano ancora, nell'ordine, Giappone (con il tasso record 4,8) Svezia, Svizzera, Olanda, Francia, Germania, Spagna; siamo alla pari con l'Inghilterra, ma abbiamo superato, tra gli altri, Belgio, Usa, Israele, CSI, Cecoslovacchia.
Particolarmente interessante il comportamento del Giappone e della Comunità degli Stati Indipendenti.
Il Giappone negli anni Cinquanta ha una mortalità infantile altissima, pari a quella che avevamo noi ed oggi per i risultati supera anche la Svezia, che era stata sempre in testa a tutte le nazioni, nonostante i problemi che ha dovuto affrontare il Giappone, per l'entità della popolazione, la ristrettezza del territorio, l'inquinamento ambientale siano stati veramente rilevanti; il Giappone, si ripete, passa da una mortalità del 60 ad una del 4,8 per mille.
Al contrario, l'ex URSS nello stesso periodo di tempo mantiene pressoché inalterata la propria mortalità infantile, intorno al 25 per mille. Il dubbio èse vi sia stato un grave peggioramento della condizione igienico sanitaria, almeno per ciò che riguarda la popolazione infantile, o se i dati che ci venivano forniti dalla Russia di Stalin erano quelli che voleva diffondere il regime e non quelli veritieri! Non vi era ancora la glasnost.
Se dalla mortalità infantile (morti nel primo anno di vita) si passa alla mortalità perinatale (nati morti più morti nella prima settimana di vita) si riproduce lo stesso fenomeno; un gap delle regioni meridionali che tende ad annullarsi negli anni. Il gap è meno accentuato che nella mortalità infantile, forse per il minor numero di immaturi nelle regioni meridionali, dovuto al clima, alle condizioni di lavoro delle gravide nell'industria, ed anche al minor numero di fumatrici tra le gravide (tale dato è però solo presunto e non dimostrato).
La caduta della mortalità infantile ad un decimo di quella che era quarantacinque anni fa è dovuta a molteplici fattori. Tre sono i settori in cui si è avuta la massima riduzione. Innanzitutto le malattie acute dell'apparato digerente (si passa da 32.617 morti a 84, da un tasso di mortalità - per 100.000 - di 257 a 0,8: quasi la trecentesima parte). A questo riguardo non posso non citare un episodio personale. Nel luglio 1947 ero stato assunto presso il brefotrofio provinciale di Roma; tra luglio ed agosto firmai 75 denunce di morte per gastroenterite: quanti ne muoiono in tutta Italia adesso in un intero anno! Tra una popolazione di 700 lattanti che allora affollava il brefotrofio di Roma, trecentocinquanta erano allattati al seno ed altrettanti al biberon: i morti furono 3 tra i primi e 72 tra i secondi.
Il semplicismo con cui si ritiene di non considerare indispensabile l'allattamento materno deriva senz'altro dalle condizioni di relativa sicurezza di questi ultimi anni; ma una evenienza epidemiologica improvvisa (come fu il mai chiarito male oscuro di Napoli, diffuso tra bambini in larga maggioranza allattati artificialmente) può riportare di attualità il problema.
Nelle morti per malattie dell'apparato digerente, oltre all'iniziale diminuzione del periodo '46-55 vi è una rapidissima caduta tra il 1961 ed il 1971; in dieci anni il tasso per 100.000 passa da 50 a 5,5 e cioè alla decima parte. Più che a speciali nuovi farmaci, il miglioramento sembra dovuto alle diverse condizioni igienico-ambientali, alla nuova rete di reparti pediatrici negli ospedali, alla più diffusa pratica di interventi specialistici.
Altra diffusissima causa di morte erano le malattie respiratorie acute. Si passa nel periodo considerato da 25.484 a 101 decessi; il tasso di mortalità passa da 201 a 1; oltre la diminuzione iniziale tra gli anni 40 e 50, forse dovuta agli antibiotici, vi è una caduta verticale tra il '75 e l'85; in quegli anni si passa da un tasso di oltre 12 ad un tasso di 2.
La tubercolosi passa da 4.614 morti nel 1946, di cui 2.572 per meningite tubercolare, a 23 (di cui 12 per meningite) nel 1975. Successivamente i casi divengono così scarsi che non possono essere indicatori di una media annuale. Ricordo che i primi trattamenti seguiti da successo nella meningite tubercolare sono proprio italiani (Cocchi, Omodei-Zorini, Germano Ricci); essendo stato con Ricci all'isolamento del Policlinico di Roma durante il trattamento dei primi casi, ricordo l'entusiasmo di quando vedemmo che la prima paziente trattata non mori alla fatidica scadenza di tre-quattro settimane, come avveniva sempre.
Ricordo purtroppo anche che la paziente morì dopo 3 mesi per carenza di streptomicina; dopo cominciarono i successi.
Oggi il tasso di mortalità per tubercolosi e per meningite tubercolare è circa la duecentesima parte di allora, anche se si rivedono alcuni casi di tubercolosi, non mortali specie tra immigrati.
La sifilide congenita da un tasso di 6,8 è passata ad un tasso 0. Nel 1955, in un congresso a Sorrento, in una relazione nazionale sulla sifilide congenita annunciavo che la malattia andava verso la sparizione.
La difterite, che era stata negli ultimi anni del secolo la causa maggiore di mortalità al di là del periodo neonatale (3 fratelli di mio padre morirono di difterite), aveva già un tasso di letalità del 18,7% nel 1946 e del 9,8% nel 1951, ma il numero di casi denunciati era ancora rilevante (circa 10.000 fino al 1955); la malattia veniva già curata adeguatamente, ma la profilassi non funzionava, come invece già avveniva altrove; la vaccinazione veniva da noi eseguita tardivamente (entro i due anni di vita), molto spesso in maniera incompleta; negli Stati Uniti, ad esempio, la frequenza della malattia era circa la centesima parte che da noi; ricordo di aver sostituito un maggiore medico americano nell'immedito dopoguerra: veniva curata adeguatamente anche la profilassi dell'adulto.
Il tetano infantile è praticamente scomparso: esistono ancora casi di tetano delle donne (negli uomini si pratica la rivaccinazione al servizio militare). Vi sarebbe così un vantaggio dal servizio militare anche per le donne!
La malaria scomparve nel quarantasette; nel 1945 ho visto intere corsie di malarici all'Ospedale S. Giovanni di Roma; la rabbia è scomparsa tra il 1967 ed il 1971.
I morti per febbre reumatica sono ridotti a poche decine l'anno; quelli per pertosse sono poche unità nonostante che non si pratichi la vaccinazione obbligatoria e che facoltativamente non si stia vaccinando più del 20% della popolazione; il tasso di mortalità per pertosse era mille volte maggiore dell'attuale nel 1946, per morbillo morivano nel 1946 quasi duemila bambini, ora sono poche unità, nonostante che anche la vaccinazione antimorbillo sia praticata da circa il 20% della popolazione.
Per tifo e paratifi, si ha una enorme diminuzione di mortalità tra il 1946 ed il 1951, una diminuzione di letalità tra il 1960 ed il 1970, ed una marcata diminuzione di casi denunciati tra il 1975 ed il 1985.
Dalla situazione epidemiologica, si potrebbe poter arguire che l'inquinamento batteriologico delle acque, così temuto oggi, sia stato in realtà molto maggiore in passato, ma che per mancanza di sensibilità e di accertamenti non era considerato come ora.
Una malattia che non ha subìto un crollo di mortalità come le altre è la meningite cerebrospinale epidemica: dal 1946 ad oggi il tasso si è ridotto alla decima parte di allora. Tale dato è senz'altro positivo, ma non paragonabile a quello delle altre malattie infettive. Si tratta comunque di 15 morti l'anno in tutta Italia.
Passiamo ora ad esaminare quelle che sono rimaste le due maggiori cause di morte in età da 1 a 14 anni: i tumori e leucemie (449 morti complessivamente nel 1988) e gli incidenti (695 morti tra incidenti del traffico, incidenti domestici ed annegamenti, nel 1988).
Complessivamente la mortalità per tumori (comprese le leucemie dal 1946 al 1988) passa da un tasso di 10,3 per centomila ad uno di 5,6; si riduce cioè alla metà; in particolare le leucemie passano tra il 1975 ed il 1988, in tredici anni di massima diffusione delle terapie antiblastiche, dal tasso di 3,5 a quello di 1,4 per centomila, dimostrando come assolutamente veritiere le cifre dei centri specializzati di trattamento, che denunciano guarigioni superiori al 50% dei trattati.
Per gli incidenti stradali si ha un innalzamento del tasso dal 1951 al 1975, quando, in corrispondenza con l'aumento tumultuoso e selvaggio dell'automobile, si superano mille morti sotto i 14 anni (con tasso 7,6 su centomila) ed una caduta nel 1988 a 348 morti (con tasso di 3,5, inferiore alla metà di quanto era 13 anni prima); si tenga conto che i dati del 1988 non risentono ancora di benefici connessi ai nuovi limiti di velocità ed ai provvedimenti (caschi, cinture, seggiolini per bambini). Comunque, la discesa della mortalità era già marcatissima nell'85. Anzi, nel valutare l'impatto di queste norme bisognerà ricordarsi che eravamo già di fronte ad un "trend" in decisa discesa.
Gli annegamenti come causa di morte al di sotto del 14° anno di età sono in diminuzione verticale; dal 1951 al 1988 si passa da 518 morti tra 0 e 14 anni a 74 morti e dal tasso di 4,2 per centomila a 0,7. La diminuzione è progressiva; purtroppo non siamo in grado di distinguere, dai dati ISTAT, gli annegamenti in mare da quelli in fiumi o laghi o da quelli nello stagno o nella vasca da bagno, che sono tutt'altro che infrequenti tra i due ed i 4 anni. il precoce insegnamento del nuoto deve aver inciso notevolmente sulla diminuzione dei morti.
Le morti per incidenti domestici che erano state 1.673 tra 1 e 14 anni, e cioè a tasso molto elevato (14,7, nel 1951) si erano attestate ad un tasso di 7-9 per centomila; una rapida diminuzione hanno subìto in questi ultimi anni, fino ad un tasso di 2,8 nel 1988, con 273 morti. La situazione attuale colma in larga misura il gap che avevamo in confronto di paesi come l'Inghilterra, la Svezia, l'Olanda, la Danimarca. La diminuzione va attribuita in parte alla notevole attività di informazione fatta in questi ultimi dieci anni, per iniziativa dell'I.S.S., di molte Regioni ed in questi ultimi tre anni dalla Commissione per la prevenzione degli incidenti domestici, presieduta dal sottoscritto presso il ministero Affari Sociali; ha influito anche una certa affinità legislativa, sia italiana sia comunitaria, ma, probabilmente, il maggior beneficio si è avuto per la diminuzione di figli per le singole coppie (attualmente 1,3), che rende più agevole la sorveglianza dei bambini.
Nonostante tali notizie incoraggianti, bisogna però dire che gli incidenti rimangono con i tumori la più elevata causa di morte da 1 a 14 anni, e meritano la massima attenzione da parte di medici, genitori, educatori, dirigenti politici ed operatori dell'informazione.
Si tenga anche conto che gli incidenti per ogni decesso provocano circa 3 invalidi permanenti, il che moltiplica ancora l'impatto sociale di questi eventi.
Ho tenuto da parte il caso della poliomielite, proprio perché, pur essendo stata anche causa di morte, si distingueva nel produrre esiti paralitici ed invalidità.
In Italia si avevano, prima dell'epoca vaccinica, da 2.000 a 4.000 casi l'anno. li vaccino Salk era disponibile dal 1955-'56, fu invece introdotto quando ci fu la terribile epidemia del 1957-'58. Non dette da noi i risultati sperati in base alle esperienze americane; ancora nel 1963 si ebbero 2.737 casi. Già dal 1960 (ricordo un Convegno dei 5 alla RAI, cui partecipai con Petragnani e Cramarossa) si insisteva tutti concordi, per un rapido passaggio alla vaccinazione Sabin, ma questa fu introdotta solo nel 1964; i risultati furono eccezionali: l'anno successivo si ebbe la decima parte dei casi del 1963 (248) e dieci anni dopo la poliomielite era praticamente sparita.
Parlare di responsabilità per il ritardo nel passaggio alla nuova vaccinazione può essere azzardato, se non si conoscono tutti i particolari che lo hanno determinato, ma il sospetto che non tutto sia andato come doveva andare èlecito.
Per ciò che riguarda le invalidità, scomparsa la poliomielite, dopo aver citato gli incidenti ed, in particolare, i traumi cranici e vertebrali, bisogna ricordare l'ancora alto numero di lesioni dovute alla nascita, alla immaturità ed alle malformazioni.
Nel complesso, l'assistenza ostetrica neonatologica può essere considerata buona nel nostro Paese, anche se sono tuttora presenti alcuni gravi inconvenienti, e cioè la diffusa abitudine di trasferire il neonato immaturo, dopo la nascita, nei centri di cure intensive neonatali e non trasferire la madre, come dovrebbe essere, prima del parto prematuro e la persistenza di centri ospedalieri e di cliniche private troppo piccoli per consentire una valida assistenza neonatologica.
Una causa di morte molto frequente in alcuni Paesi per i lattanti non è stata elencata in questo scritto: si tratta della morte improvvisa del lattante o morte in culla, la SIDS degli anglosassoni. Quest'evento, che colpisce l'1-2 per mille nati vivi nelle popolazioni dell'Inghilterra e degli Stati Uniti e che tocca anche il 5 per mille tra i negri americani, non può da noi essere superiore allo 0,3 per mille come risulta da nostri studi personali.
Si tratta però sempre di un evento di rilievo, pari a circa il 10-15% della mortalità del primo anno di vita dopo la prima settimana.
Non si è parlato in questa revisione delle due nuove affezioni: l'epatite, particolarmente la B, e l'AIDS. Per l'interesse dell'argomento lo faremo in un apposito articolo.
Sempre in un successivo articolo parleremo dell'evoluzione delle istituzioni per l'infanzia negli stessi anni presi in considerazione dall'attuale studio; si tratta di vedere quale sia stato l'adeguamento della nuova situazione degli ospedali infantili, dei reparti pediatrici degli ospedali generali, delle cliniche pediatriche, dei brefotrofi, degli orfanotrofi, dei nidi pubblici e privati per l'assistenza diurna dei bambini.

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