§ La sindrome tedesca

Panzerdeutschemark




Aldo Bello



La Germania in questo momento non può, non deve far paura a nessuno. I nostri partners europei tendono ad addossarci colpe che non sono nostre. La Francia, l'Italia, anche la Svezia hanno gioco facile ad accusare noi di problemi che nascono dalle rispettive situazioni interne".
Parla Peter Schneider, scrittore tedesco. E nessuno, che sia dotato di un minimo di lealtà, può dargli torto. E' stato già notato che per non capire che la dissoluzione dell'Unione Sovietica avrebbe fatto uscire la Germania dai vincoli comunitari occorreva non guardare ciò che si vedeva in Ucraina e in Jugoslavia; ma bisognava non vedere ciò che si guardava nella Cee per non accorgersi che una Germania unita nell'antico alveo mitteleuropeo era destinata a divorziare con l'Italia; ed era necessario guardare Maastricht senza vedere Francoforte per ignorare l'ostilità della Bundesbank alla nascita di una Banca centrale europea, che era sentita come un ostacolo alla formazione di un'area del marco accanto a quella del dollaro e dello yen.
Nel giro di un paio di anni, quasi con naturalezza, la Germania ha aggregato una sua zona d'influenza economica, politica e culturale che va dall'Adriatico al Baltico e dal Reno al Dnieper. E nel giro di un paio di settimane, con il blitz monetario provocato dalla fragilità italiana, ha ottenuto che il resto dell'Europa graviti attorno a questo pacifico impero centrale. Uniche eccezioni, l'Inghilterra e la Francia: ma Berlino lascia la prima alla sua deriva atlantica, e la seconda la inchioda al suo orgoglio nazionale, ma tuttavia ferito dall'inferiorità economica.
L'Italia? L'Italia era stata fino all'ultimo il Paese europeo più favorevole alla Bundesrepublik, "il più convinto che dall'ammirazione debba discendere subordinazione e dalla subordinazione vantaggio". Poi ha reagito stupefatta e sconcertata, indicando tardivamente la minaccia agli equilibri europei.
In fatto e in diritto, la Germania non è né buona né cattiva. E' potente, e sarà tanto più pericolosa per tutti quanto più debole e più cieca sarà l'Italia. Ma come, oggettivamente, criticare i tedeschi e i Frankfurter Boys, i seguaci della scuola monetarista dei Chicago Boys di Milton Friedman, se hanno lavorato bene per il marco, una moneta che dal 1948, anno dell'ultima iperinflazione, non ha fatto altro che rivalutarsi, consentendo agli sconfitti di due guerre mondiali di sentirsi sempre più ricchi e potenti?
Attorno al sole teutonico orbitano a breve distanza alcuni pianeti, per lo più piccoli, che sono un poi meno caldi dell'astro, ma ugualmente ne sono attratti. Sono le monete del Benelux, dell'Austria, della Confederazione Elvetica, che in passato hanno sempre seguito in maniera pedissequa le decisioni di Francoforte in materia di tassi di interesse, di controllo della massa monetaria, di altre manovre. D'altro canto, non va scordato che l'Europa l'hanno fatta tre grandi europei, l'alsaziano Schuman, il tedesco Adenauer e l'italiano De Gasperi, che in comune avevano la lingua tedesca e la rigida fede cattolica.
E' vero, ci sono tre pianeti su orbite abbastanza decentrate. Italia, Regno Unito e Spagna dispongono di una discreta forza gravitazionale, messe insieme le loro strutture economiche coprono circa la metà del potenziale produttivo europeo. Ma, mal guidate, sono uscite dal sistema, e non si sa se in futuro le loro orbite si avvicineranno al nucleo centrale, o resteranno dove sono, in libera fluttuazione, oppure si allontaneranno sempre di più. Dracma, escudo e sterlina irlandese non hanno alternative: sono condannate a seguire lira, peseta e sterlina britannica per ragioni di contiguità economica.
Così, il rullo compressore del marco ha dimostrato alcuni princìpi fondamentali: lo Sme non è un sistema di cambi fissi, come credevano molti europei; non è l'anticamera della moneta unica europea che arriverà nel 1999; e, per noi, non è la panacea che ci salvi dall'aver vissuto negli ultimi anni (è del 1987 l'ultimo nostro riallineamento) al di sopra dei nostri mezzi, garantendo una sicurezza sociale e trattamenti pensionistici che non hanno riscontri in alcun Paese dell'Europa. Quel che dovevano dire con realistica brutalità i nostri uomini politici, lo ha detto il governatore della Bundesbank, Schlesinger: "Quando in Italia negli ultimi cinque anni si è avuto un tasso di inflazione del 35 per cento, contro il 15 per cento della Germania, è chiaro che il sistema dei cambi ne tiene conto. Se non si mutano i princìpi fondamentali dell'economia, il sistema si usura e il riallineamento diventa inevitabile, e purtroppo questo avviene nelle condizioni peggiori". Che è come dire: chi sbaglia, paga. Allora, che cosa si può rimproverare alla Germania? Questo: che la Bundesbank dimentica di dire che gli alti tassi tedeschi attirano nell'area del marco i mezzi che consentono al Paese di finanziare la ricostruzione dell'Est a spese degli altri Paesi europei.
Ma tutto questo non era forse prevedibile? E perché non è stato previsto? Oltre tutto, si possono immaginare gli scenari dell'immediato futuro: la Bundesbank vuole restare indipendente anche nell'Europa 1999, ed è decisa a controllare la stabilità del marco o dell'Ecu. "Se avremo una moneta unica europea - sostengono i tedeschi - si tratterà del marco, anche se avrà un nome diverso". E di riflesso, se avremo una Banca centrale europea, la Bundesbank vi avrà un ruolo di supremazia. Mai i tedeschi cederanno di fronte alle pressioni politiche, e gli ultimi eventi sono lì a dimostrarlo.
Se qualcuno ha sabotato scientificamente Maastricht, ebbene, la Bundesbank lo sa: è tra chi ha sostenuto il sabotatore, e lo ha fatto con teutonica determinazione. L'obiettivo? Dopo la caduta degli accordi di Bretton Woods, è la crisi del sistema dei cambi fissi europei e del processo di unificazione inter partes dei Paesi europei. Tutto è rimesso in discussione. Dice Schneider: "La verità è che in un'epoca di crisi, economica e sociale, in Europa tornano a galla vecchi clichés, vecchi pregiudizi nazionalisti. E così per noi l'Italia è un Paese del Terzo Mondo dominato dalla mafia". Allora, che fare? "E' questo il tempo di riunire le forze, di trovare soluzioni comuni, per dar vita con convinzione a una cultura multipolare. Per quanto imperfetti, gli accordi di Maastricht vanno difesi. Vedo con terrore lo sgretolarsi dell'Europa unita".
Aveva sostanzialmente ragione chi sosteneva che esiste realmente uno spaventoso, incontrollabile potere planetario dell'usura. Esiste la grande speculazione finanziaria, cioè qualcosa che va ben oltre i confini di un lecito, benefico mercato, ed ha effetti devastanti. Che contro l'Italia si stesse muovendo una speculazione dagli aspetti odiosi durante la battaglia per scardinare l'Europa monetaria colpendola nell'anello più debole, la lira, non lo hanno detto i patiti delle eresie economiche. Lo aveva raccontato ai primi del settembre '92 il più ortodosso e serio quotidiano economico-finanziario, il Sole-24 Ore; e lo aveva esplicitato il presidente dell'Assobancaria, Tancredi Bianchi, affermando testualmente: "Siamo in guerra contro gli speculatori, che sono nemici ostici, capaci di mettere in difficoltà anche i solidi meccanismi dello Sme, studiati apposta per neutralizzarli". Mondo Economico aveva anche fatto qualche nome dei grandi gruppi che da Londra sparavano alle spalle della lira. Piero Bassetti, presidente della Camera di Commercio di Milano, evocando i colpi di una speculazione micidiale sullo sfondo del conflitto di interessi tra Stati Uniti e Germania, aveva introdotto nello scenario la massa d'urto dei narcodollari, "vera e propria componente della finanza con il suo carico clandestino non stimato da nessuno", ma ormai forse più forte della finanza bianca. E Repubblica aveva indicato le dimensioni del casinò dei cambi sui cui tavoli verdi, secondo uno studio della Banca dei regolamenti internazionali, passano ogni giorno da una mano all'altra somme intorno agli 800 mila miliardi.
E' giustamente da escludere che ci possa esser dietro un solo grande manovratore, mentre si deve registrare che di questi giganteschi movimenti sui cambi solo il 5 o il 10 per cento serve effettivamente a pagare passaggi di beni e di servizi tra un Paese e l'altro, mentre il resto si sposta continuamente alla ricerca di impieghi speculativi.
Del resto, più di vent'anni fa Guido Carli, in un celebre saggio su "Eurodollaro: piramide di carta?", aveva segnalato i rischi di destabilizzazione su un mercato mondiale ove per ogni dollaro impiegato nell'acquisto di beni o servizi ne vagavano altri 15 in cerca d'avventura. Oggi il rapporto sembra sia da uno a venti e la truffa dell'eurodollaro, cui si sono aggiunti recentemente i narcodollari, non è fantaeconomia, ma dramma vero e serio, denunciato da alcuni coraggiosi economisti del calibro di Jacques Rueff, di Fritz Machlup, di Robert Triffin. E in più, Monde Diplomatique ha fatto una dettagliata descrizione del ruolo usurario svolto dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale a danno dei Paesi sottosviluppati, dove la gente muore di fame per pagare gli interessi alle banche americane.
Sono problemi nuovi nella loro attuale dimensione catastrofica, che la scienza economica non padroneggia ancora, perché mancano persino tutti i dati sui quali lavorare. Ma nel momento in cui l'Italia e l'Europa ne sono colpite, è bene che si indaghi e si riferisca sui fenomeni speculativi. Meno bene è indignarsi se il marco, ambasciatore della Germania nel mondo, si vuol sottrarre al colonialismo monetario d'oltre-Atlantico.
C'è una singolare dimensione nella storia europea e mondiale di quest'ultimo mezzo secolo. I due grandi vinti del 1945, Germania e Giappone, sono oggi le due maggiori potenze economiche del mondo, dopo gli Stati Uniti. La Germania, in particolare, sembra aver conseguito con la pace gli obiettivi di fondo che fortunatamente non poté raggiungere con la guerra: ridimensionamento della dimensione imperiale britannica, spazio di espansione all'Est, netto primato continentale verso la Francia e l'Italia. Non che la Germania ne abbia tutto il merito, ma le cose del mondo sono andate così: i veri vincitori della seconda guerra mondiale appaiono oggi Stati Uniti, Germania e Giappone.
Quale Europa è possibile con uno sbilanciamento così rilevante dei Paesi che compongono la Comunità? E può la Francia bilanciare il peso germanico, se si muove da sola o se crede davvero alla possibilità di un direttorio egemonico franco-tedesco?
Non vogliamo agitare spettri della fantasia. La Germania di oggi non ha più la casta militare di una volta ed è profondamente impregnata di altri spiriti. L'europeismo, malgrado tutto, vi è ancora forte e diffuso. Tra essa e un Paese come gli Stati Uniti non appare probabile un riequilibrio di potenza tale da alterare gli attuali sistemi occidentali di alleanza, di cooperazione e di interdipendenza. Ma neppure si possono chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Una frantumazione di altri Paesi europei dopo la Cecoslovacchia e la Jugoslavia (del tipo di quella che gli scissionisti del Nord Italia auspicano allegramente) renderebbe le prospettive ancora più drammatiche.
Non è il caso di farsi eccessive illusioni: un'Europa delle regioni sarebbe un'Europa ad egemonia nettamente germanica. Allora è necessario rafforzare in Europa l'azione comunitaria e la consistenza e la forza degli attuali membri della Comunità. Se ciò accadrà, anche lo spettacolo suggestivo di un grande popolo, come quello tedesco, che torna a ruoli più congrui alla sua effettiva tradizione, rappresenterà un potente fattore di promozione per l'intero Continente e per le sue più antiche radici di civiltà. In caso contrario, ogni ipotesi pessimistica potrebbe essere confermata, e a breve termine, dai fatti.

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000