§ L'aggressione americana

Ma l'Europa si guardi dal dollaro




Raul Gardini



Le tensioni e gli sconquassi valutari ed economici sono diretta conseguenza della volontà politica degli Stati Uniti di mettere in difficoltà noi europei. Il venir meno di una parità monetaria centrale, per effetto del deprezzamento artificioso del dollaro, ha rotto gli equilibri internazionali e disastrato il "world trade", come dimostra l'impossibilità di concludere in maniera equa e accettabile il negoziato Gatt in corso da oltre sette anni.
In altra epoca, la soluzione del gigantesco contenzioso apertosi tra Bruxelles e Washington sarebbe già stata affidata alle armi. Per nostra fortuna questo non è più possibile, almeno nel mondo civile e sviluppato, ma non è detto che una guerra economica produca effetti meno dirompenti. Perché di guerra si tratta, anche se gli americani hanno deciso di combatterla con le monete anziché con i missili a testata nucleare. L'Europa si trova da mesi sotto il fuoco di un dollaro al ribasso che ne riduce gli spazi di manovra e i mercati di sbocco, mettendo a repentaglio quella costruzione sociale faticosamente realizzata negli ultimi quarant'anni e la stessa prospettiva di unificazione.
Il nostro nemico non è il marco, ma il dollaro. O, meglio, la politica aggressiva americana che trae origine dalla più deteriore interpretazione del capitalismo, quello di stampo colonialista. Bisogna diffidare quando esponenti dell'amministrazione americana dichiarano di volere un'Europa forte. In realtà, gli Stati Uniti, che fortunatamente hanno già sconfitto il comunismo con gli embarghi e l'arma monetaria, adesso pensano di ripetersi ai nostri danni.
La caduta dell'impero sovietico è iniziata nei primi anni Settanta, con la fine della convertibilità del dollaro in oro, ed è proseguita con la corsa al rialzo della divisa americana, che ha trovato il suo culmine alla metà degli anni Ottanta. Una manovra ben orchestrata, che insieme alla strategia degli armamenti e alle guerre stellari di reaganiana memoria ha strangolato l'economia di Mosca fino al collasso e alla resa. Certo, questa guerra economica ha prodotto altre vittime, a cominciare dai Paesi del Sudamerica, il cui debito in dollari è esploso oltre ogni limite di guardia. La stessa società americana è uscita a pezzi dal conflitto, con un apparato industriale impoverito, una pesante perdita di competitività delle proprie merci sui mercati internazionali e forti tensioni sociali interne.
Poco importa, gli uomini del presidente Bush avevano già individuato il nuovo obiettivo: smantellamento degli arsenali grazie alla fine della guerra fredda con l'Unione Sovietica (operazione in buona parte spesata dal conflitto del Golfo), e attacco economico all'Europa e al Giappone per recuperare la leadership dei mercati. Ancora una volta l'arma scelta è stata quella monetaria. Il deprezzamento del dollaro, la valuta degli scambi internazionali, sulla cui parità valutarla erano stati fissati gli accordi del "Kennedy Round", ha progressivamente messo a repentaglio gli equilibri mondiali.
L'Europa ha le sue colpe. La prima: essersi presentata allo scontro in ordine sparso, con le economie e i conti di alcuni Paesi fondamentali ancora in disordine (Italia e Gran Bretagna in testa, anche se per ragioni diverse).
La seconda: aver consentito l'annessione della Germania dell'Est senza prevedere un regime di transizione, a un prezzo che i fatti hanno dimostrato essere di gran lunga sottostimato. La terza: non aver capito la reale portata della posta in gioco ed essersi fatti trascinare in una trattativa dissennata in sede Gatt, a causa anche della latitanza di Stati-membri come Francia e Germania.
Quel 49 per cento di voti contrari al referendum francese rappresenta un brusco richiamo alla realtà. Significa che una fetta consistente dei cittadini europei, quasi la metà, non è disposta a sacrificare nulla dell'esistente sull'altare dell'ideale unitario. Ed è giusto che sia così. Solo dei governanti sconsiderati potrebbero pensare di smantellare quei meccanismi di salvaguardia sociale faticosamente costruiti, oltre i quali non resterebbe altro che una colonizzazione selvaggia della nostra economia.
L'Europa è già una realtà sufficientemente attrezzata e sofisticata per andare avanti verso l'unificazione monetaria e politica. A patto che individui con chiarezza quale è il nemico in questo momento di grande incertezza e confusione. Non ho dubbi che uomini come Mitterrand e Kohl sappiano muoversi con coerenza e decisione, supportando a dovere le azioni della Commissione di Bruxelles.
La stabilità di cui l'Europa ha bisogno potrà essere raggiunta solo in presenza di una parità monetaria mondiale omogenea, che crei una nuova solidarietà e quindi un argine all'inflazione dilagante. Non a caso le monete europee (non solo la lira), con la sola esclusione del marco per i motivi che abbiamo detto, rincorrono il dollaro al ribasso, in cerca di nuovi punti di equilibrio. Si individui dunque una unità di conto internazionale, sulla cui base potremo affrontare finalmente un negoziato Gatt serio e non arrendevole alle pretese americane di destrutturare il nostro ambiente e la nostra società. Pretese americane che, peraltro, non sono supportate dalla loro capacità di previsione.
Infatti, è dal febbraio scorso che garantiscono al mondo un'uscita dalla recessione, che invece è ben lungi da venire. Anche perché può venire solo in un clima di ragionevolezza sociale, che sappia tener conto anche delle regole elementari della matematica.
Gli europei devono ricordarsi che le basi della loro società sono costate quarant'anni di onesto e duro lavoro, si sono rafforzate nella democrazia, meritano di essere difese contro ogni tipo di aggressione.

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