§ Societą multietniche

Il virus del tribalismo




Arthur SchIesinger Jr.



L'umanità deve molto a Woodrow Wilson anche per la sua visione di un mondo governato dal consenso popolare, nel quale l'aggressione può essere impedita o punita da un intervento collettivo della comunità internazionale. E' un eterno
sogno, che George Bush ogni giorno ribattezzava "nuovo ordine mondiale".
La visione wilsoniana contemplava un codicillo: la dottrina dell'autodeterminazione. "Ogni popolo - affermava Wilson - ha il diritto di scegliere il potere sovrano sotto cui vuole vivere". Quale principio parrebbe più ineccepibile, e logico, di questo? L'autodeterminazione appare la deduzione inevitabile dell'idea di democrazia e di autogoverno.
Eppure, la dottrina presenta delle anomalie. In effetti, la tradizione americana è piuttosto ambigua sull'argomento dell'autodeterminazione: un'ambiguità incarnata nel contrasto tra due dei suoi massimi presidenti. Come ha fatto notare la storica Betty Miller Unterberger, gli americani celebrano George Washington per il suo successo nel condurre la lotta per l'autodeterminazione e celebrano Abramo Lincoln per il suo successo nel contrastare tale lotta.
L'autodeterminazione era una dottrina nobile quando ad essa si richiamavano gli americani contro la Gran Bretagna nel 1776; molto meno, quando gli Stati del Sud la opposero al governo nazionale nel 1861. Woodrow Wilson era nato in Virginia, e aveva otto anni quando il generale Lee si arrese ad Appomattox; eppure, come studioso, egli respinse le rivendicazioni di autodeterminazione del Sud e considerò la guerra civile come il "completamento della Unione".
I1 suo segretario di Stato, Robert Lanzing, lo ammonì nel 1918 che la dottrina dell'autodeterminazione, propugnata senza definizione né criteri precisi, poteva avere "effetti assai distruttivi sul tessuto politico della società, dando luogo a ribellioni e mutamenti continui". Come è possibile, si chiedeva Lanzing, trovare una definizione di popoli che hanno diritto di scegliere il potere sovrano? Come stabilire la debita procedura con cui un popolo può fare questa scelta? Dopo tutto, la guerra civile sancì la fedeltà degli Stati Uniti al "principio per cui uno Stato nazionale ha facoltà, anche con la forza, se necessario, di impedire la secessione di una frazione del suo territorio senza il suo consenso, soprattutto se ha esercitato a lungo la propria sovranità su tale territorio, o se la sicurezza nazionale o i suoi interessi vitali ne sono danneggiati".
Wilson constatò che aveva ragione. Egli era ben consapevole, e lo confidò all'ambasciatore inglese, che "spinto agli estremi, il principio di autodeterminazione sconvolgerebbe i governi esistenti fino ad un livello imprevedibile". All'inizio, per esempio, Wilson fu contrario allo smembramento dell'Impero austro-ungarico, non di meno, con le debite riserve, il principio riplasmò l'Europa dopo la prima guerra mondiale, e venne riaffermato da Roosevelt e da Churchill nella Carta Atlantica dei 1941.
L'autodeterminazione conobbe poi un periodo oscuro, quando la guerra fredda spaccò il mondo in due ideologie, una contro l'altra armata. Ora, la fine della guerra fredda ha concluso l'epoca dei conflitti ideologici. Tuttavia, non ha posto, come previsto, fine alla storia. Una catena di odii ha ceduto il posto a un'altra. L'ultimo numero di un magazine americano riporta l'affermazione di un politologo jugoslavo, Simon Petrovic: "Le minoranze si stanno rivelando una cartina di tornasole per tutte le società post-comuniste. Ora che il comunismo è quasi scomparso, gli istinti tribali stanno emergendo". L'epoca del conflitto ideologico sta cedendo il passo a una nuova, minacciosa era di conflitti etnici, razziali e religiosi. La Jugoslavia è il tragico esempio di questi tempi. Ma non resterà l'unico.
In retrospettiva, l'impero sovietico può essere visto come un equivalente di fatto del vecchio impero austro-ungarico. La dissoluzione del sistema sovietico dopo la guerra fredda, esattamente come quella del sistema absburgico dopo la prima guerra mondiale, ha liberato aspirazioni etniche e nazionali represse (con i relativi antagonismi) profondamente radicate nella storia e nella memoria. La disintegrazione dell'Unione Sovietica, e poi della Jugoslavia, rilancia i movimenti separatisti in tutta l'Europa, da entrambe le parti dell'ex cortina di ferro.
"La stampa nazionalista per l'indipendenza", recitava poco tempo fa un titolo sul New York Times. Se l'Armenia è indipendente, perché non la Catalogna? Se i lituani possono beneficiare dell'autodeterminazione, perché non i baschi? Perché non la Slovacchia, la Corsica, la Bretagna, il Brabante, il Jersey, la Scozia, il Québec? Ma ogni minoranza racchiude in sé altre minoranze: dove finisce l'autodeterminazione? Roger Thurow ha recentemente descritto le attività ginevrine del capo del gruppo di pressione della nazione sorba (no, non è un refuso per "serba") per la Lusazia indipendente: un movimento che sembra inventato da Evelyn Waugh.
In passato Andorra, Monaco, San Marino e il Liechtenstein erano innocue attrazioni turistiche. Sono forse oggi le avvisaglie di un futuro prossimo?
Ovviamente, le rinnovate ansie di autodeterminazione non sono circoscritte all'Europa. La proliferazione di micro-Stati con piccole popolazioni senza alcuna portata reale, ma con lo stesso diritto di voto degli Stati Uniti e della Cina all'Assemblea Generale, rischia di essere la rovina delle Nazioni Unite.
Ma i clamori dei micro-Stati all'Assemblea Generale sono innocui, in confronto alla crudele violenza suscitata nel Terzo Mondo dalla furia autodeterminista dei popoli che vivono sotto una stessa sovranità. L'autodeterminazione diventa troppo presto autodistruzione. La sorte di Beirut èstata per un po' la cupa anticipazione di un possibile futuro. Dal Sudafrica allo Sri Lanka, da Israele all'India, dall'Angola a Trinidad, il conflitto etnico sta lacerando le nazioni. "Il virus del tribalismo", come lo ha ben definito l'Economist, "rischia di diventare l'Aids della politica internazionale, restando quiescente per anni, per poi esplodere all'improvviso, distruggendo Paesi interi".
E' venuto il tempo di riconsiderare la dottrina dell'autodeterminazione e di includervi i limiti che Wilson stesso aveva ammesso, e che l'esperienza degli Stati Uniti conferma. Piccolo non vuol sempre dire bello. L'obiettivo non dovrebbe essere dare a ogni popolo il diritto di scegliere il potere sovrano sotto il quale vivere, ma piuttosto cercare modi in cui popoli diversi per origini etniche e religione possano convivere in armonia sotto uno stesso potere sovrano.

Questo è più necessario che mai in un'epoca che sarà segnata più di ogni altra nella storia dalla coammissione dei popoli. Mentre il XX secolo volge alla fine, numerosi fattori - la fine della guerra fredda, lo sviluppo di comunicazioni e di trasporti più veloci, l'accelerazione della crescita della popolazione, il crollo di strutture sociali tradizionali, la fuga dalla tirannia e dalla povertà, il sogno di una vita migliore -inducono più che mai la gente a massicce migrazioni attraverso le frontiere nazionali.
Per questi motivi a me pare che tutte le aspirazioni siano comprensibili. Tuttavia, le rivendicazioni all'autodeterminazione possono essere contagiose, e minare il tessuto politico della società.
L'autodeterminazione va bene, ma solo fino a un certo punto. Oltre questo punto, porta disunione e anarchia. Prendiamo il Canada, a lungo ritenuto la nazione più assennata e posata di tutte. Eppure, Michael Ignatieff, figlio nato in Canada ma residente in Inghilterra di un diplomatico canadese nato in Russia, ha recentemente affermato: "Ecco una delle cinque nazioni più ricche della terra, una terra a cui la sorte ha elargito tanto spazio e opportunità che i poveri del mondo non cessano di bussare alla sua porta per entrare, eppure si sta lacerando... Se una delle cinque nazioni più sviluppate del mondo non riesce a far funzionare uno Stato federale multietnico, quale altra potrà?".
La risposta a questo interrogativo sempre più cruciale è stata, almeno finora: gli Stati Uniti. Ma oggi, anche negli Usa, il fiorire di zeloti dall'identità culturale esasperata minaccia la diffusione del separatismo etnico e razziale, di un nuovo tribalismo. Se gli Stati Uniti non continueranno a fornire al mondo un esempio su come si possa far funzionare uno Stato federale multietnico, il XXI sarà un secolo alquanto fosco.

Diaspore e fughe

I boat people del Mediterraneo

L'immigrazione clandestina ha sostituito il rischio di conflitto militare al primo posto tra le minacce per la sicurezza dell'Europa. A "promuovere" i flussi migratori come pericolo pubblico numero uno - per la metà occidentale del vecchio Continente - è stata la Conferenza paneuropea dei ministri degli Interni e della Giustizia, riunita a Berlino per discutere i controlli sui movimenti di popolazione. La Conferenza, a cui hanno preso parte 28 Paesi della Cee, dell'Efta e dell'ex blocco comunista, si è misurata con un problema dalle dimensioni drammatiche: secondo l'ultimo studio presentato dall'Alto commissariato Onu per i rifugiati, la fuga dai Paesi dell'Est potrebbe coinvolgere nove milioni di persone nei prossimi anni.
Lo spettro di massicce migrazioni verso la benestante Europa occidentale è ormai ricorrente, da quando la fine dei regimi comunisti ha spalancato le frontiere (in uscita), e la decomposizione delle vecchie economie pianificate ha creato eserciti di disoccupati. Ma negli ultimi tempi sono emerse novità diverse sulla natura delle pressioni migratorie. Basta dare un'occhiata ai dati sugli ingressi di stranieri in Germania, il Paese-frontiera che accoglie le maggiori ondate dall'Est. Nel 1989, finché lo sgretolamento del blocco comunista era solo al suo inizio, la Polonia si classificava ancora al primo posto tra i Paesi d'origine degli immigrati. Nel 1990 il primato è passato alla Romania, ultima a liberarsi dalla dittatura.
Quest'anno, le statistiche disponibili indicano che è la Jugoslavia la prima terra di espatrio verso la Germania e l'Italia, mentre continua a crescere e a consolidarsi l'esodo dall'Albania. Questa variabilità della classifica sta a indicare quanto le turbolenze politiche e i conflitti di natura etnica possano influire a loro volta sui movimenti di popolazione. Rispetto ai primi timori affiorati in Occidente dopo la caduta del muro di Berlino, che vedevano soprattutto nella crisi economica la spinta alle migrazioni di massa, oggi la valutazione dei rischi è mutata. La guerra aperta in Jugoslavia, gli innumerevoli altri focolai di conflitto nell'ex Unione Sovietica, le contese territoriali che possono riaffiorare di colpo tra Ungheria e Romania, l'endemico separatismo cecoslovacco, sono tutti potenziali fattori di tensione e quindi di emigrazione forzata o volontaria. Se l'instabilità e la violenza dilagano, l'Europa occidentale sarà meta di una quota crescente di rifugiati politici.
E' già così in Germania, dove il numero di rifugiati politici supererà quest'anno la soglia dei 250 mila. La Germania ha intrapreso una revisione delle sue leggi sul diritto di asilo, considerate ormai troppo permissive. Ma è certo più facile controllare l'immigrazione di natura "economica". Più delicato è arginare i flussi imprevedibili di coloro che abbandonano i propri Paesi sotto la spinta di avvenimenti spesso tragici.


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