§ Il mercato globale dopo il crollo del comunismo

I punti deboli del capitalismo




John Kenneth Galbraith
Premio Nobel per l'Economia



Alla sconfitta del comunismo, come viene definita, si è accompagnata una visione nuova ed esaltante del capitalismo. E' al capitalismo che si rivolgono con entusiasmo e speranza i cittadini dell'ex mondo socialista.
Premi Nobel come Friedrich Hayek e Milton Friedman, illustri e rigorosi esponenti del sistema capitalistico, godono oggi in quelli che erano un tempo i Paesi dell'Est di una stima e di un consenso che non avevano mai riscosso in patria.
Insomma, è convinzione generale - che sconfessa tutte le previsioni di oltre un secolo - che il capitalismo sia il solo sistema vincente.
Attenzione, però: l'autocompiacimento nasconde inevitabilmente la realtà dei fatti. Prudenza vorrebbe che ci si domandasse se il capitalismo occidentale non celi per caso una serie di debolezze e di pericoli che potrebbero rivelarsi fatali. Con questo non voglio dire che il sistema operante negli Stati Uniti, in Europa occidentale e in Giappone corra rischi mortali. Ma i problemi ci sono, ed esistono inoltre prospettive sfavorevoli delle quali sarebbe necessario avere maggiore consapevolezza. Così, non deve stupire che gli Stati Uniti siano al centro della mia attenzione, in quanto ancora oggi rappresentano in larga misura il polo magnetico del sistema occidentale.
Il capitalismo, nella sua realizzazione attuale, ha punti di forza che centocinquant'anni fa Marx non poteva individuare. E in questo scorcio di secolo, il capitalismo negli Stati Uniti, nell'Europa occidentale e in Giappone ha ottenuto consensi vasti, se non addirittura unanimi. Il suo connotato più negativo, la disoccupazione, è rimasto contenuto, anche se non minimo, fino a pochissimo tempo fa.
L'inflazione è stata ristretta entro limiti tollerabili. L'attività produttiva ha registrato un aumento generale. Dati positivi che non possono essere però attribuiti, anche usando una buona dose d'immaginazione, alla corretta guida economica delle autorità competenti. Si può anzi affermare che la caratteristica più rilevante dell'economia moderna è la sua capacità di sopravvivere tanto ad una strategia corretta quanto ad una strategia sbagliata.
La forza dell'economia capitalistica in questi ultimi cinquant'anni è attribuibile a sostanziali modifiche del sistema, intervenute come reazione sia agli effetti perversi e alle contraddizioni del capitalismo originale sia alle devastazioni provocate dalla depressione negli anni Trenta. Va ricordato che la maggior parte delle riforme furono estrenuamente osteggiate proprio da coloro ai quali dovevano venire in aiuto, gli industriali e i finanzieri.
L'affermazione dei sindacati ha tutelato il potere di acquisto dei lavoratori e contribuito a una distribuzione più equa del reddito.
Pensioni, assistenza sanitaria e sociale, sussidi all'agricoltura, edilizia popolare: si deve a questa serie di provvedimenti se le contraddizioni tipiche del capitalismo sono state in parte superate. E la conseguente stabilità del flusso di reddito ha contribuito a rendere il sistema più solido ed elastico.
Con le misure citate, ha inizio l'era keynesiana e nasce lo Stato assistenziale che si assume la piena responsabilità della gestione macroeconomica. Recessione, stagnazione, disoccupazione e inflazione non sono più frutto della volontà divina o conseguenze inevitabili del ciclo economico. Lo Stato moderno (e la sua Banca centrale) hanno il compito di correggere questi squilibri.
E ora mi riallaccio alle osservazioni iniziali, proprio per sottolineare che i popoli dell'Europa centrale e dell'ex Unione Sovietica non guardano al capitalismo classico quando parlano di alternativa al socialismo reale. Se così fosse, non se lo augurerebbero né lo subirebbero di buon grado. Quella a cui puntano è un'economia mista, che non risponda tanto - o più -all'ideologia, quanto alle necessità pratiche.
Il primo punto debole del capitalismo moderno continua ad essere la sua ricorrente propensione agli eccessi speculativi, e di conseguenza alla recessione. Basta vedere quanto è accaduto di recente e continua ad accadere anche ora negli Stati Uniti. Il mercato dei titoli, quello immobiliare e persino quello dell'arte sono stati, nell'ultimo decennio, teatro di speculazioni dissennate che passeranno alla storia come "la frenesia delle fusioni e delle acquisizioni". Per un lungo periodo di tempo, la Borsa e il settore immobiliare hanno registrato andamenti al rialzo dovuti alla sola convinzione che il processo non si sarebbe arrestato: la conseguente corsa agli acquisti ha provocato un aumento dei prezzi che sembrava giustificare le aspettative degli operatori. Giunto il giorno della resa dei conti, abbiamo invece dovuto assistere a disperati tentativi di salvataggio. Da quattro secoli, se non di più, questa è l'essenza del fenomeno speculativo ma, per quanto riguarda gli Stati Uniti, essi stanno sperimentando ed esportando nel resto del mondo il più complesso dei modelli di comportamento del capitalismo, vale a dire la tendenza al boom speculativo e al fallimento.
Quanto alla gravità delle conseguenze, in Usa come nel resto del mondo, non è possibile fare previsioni. A Washington, il presidente americano e i suoi portavoce sostengono che la recessione sarà modesta e di breve durata, con conseguente lieve ripresa. Anche questa è una tendenza consolidata del capitalismo: il ricorso alle parole e alla retorica con funzione di terapia, come strumento per diffondere ottimismo e innescare una qualche ripresa. Non ci sono tuttavia motivi per ritenere che questa strategia abbia oggi effetti maggiori che in passato. E l'alternarsi dell'euforia speculativa alla recessione continua ad essere il punto più debole del capitalismo moderno.
Il secondo punto debole del sistema è la politica fiscale, che in epoca keynesiana aveva un ruolo centrale per regolare l'attività economica attraverso il bilancio pubblico. Quando l'economia tira, spesa e investimenti vengono finanziati con il gettito fiscale e con una diminuzione della spesa pubblica. In presenza di una recessione, la linea di condotta si inverte. Ma oggi, negli Stati Uniti e negli altri Paesi industrializzati, la strategia pubblica ha abbandonato, se non addirittura ribaltato, questa linea di condotta.
Negli Anni Ottanta, il governo americano ha aumentato la spesa, in particolare gli stanziamenti alla difesa, ha diminuito le tasse, privilegiando la fascia di contribuenti ricchi, ed ha infine gestito disavanzi considerevoli dei conti pubblici. Il fatto è che la recessione in atto impedisce di aumentare la spesa o di ridurre le tasse, come per il passato. Governi statali e locali, uniti nella determinazione di rendere la recessione più acuta, tagliano bilanci, rimandano a casa i lavoratori e, quando possono, aumentano le tasse. La formula keynesiana legata alla pressione fiscale viene applicata esattamente al contrario.
Resta la politica monetaria, ovvero il ricorso ai tassi di interesse per domare gli eccessi speculativi e per dare nuovo impulso all'economia. Ma come tutti sappiamo, negli Anni Ottanta la politica monetaria non l'ha spuntata contro la speculazione. Si può anzi affermare che non ha avuto effetti di rilievo. E oggi, in presenza di una recessione, è lecito dubitare che marginali movimenti al ribasso dei tassi di interesse possano promuovere in modo determinante finanziamenti produttivi, spese di investimento o indebitamento dei consumatori.
Tuttavia, è proprio attraverso le spese destinate agli investimenti e ai consumi, e non in virtù di qualche sortilegio, che la politica monetaria produce risultati.
Il limitato ricorso alla leva monetaria è inoltre motivato da autorevoli considerazioni di ordine politico. Gli economisti, e non soltanto loro, sostengono la neutralità sociale della politica monetaria. Infatti, i tassi d'interesse elevati premiano notoriamente quanti hanno denaro da prestare. Costoro, ovviamente, desiderano essere ben remunerati e, guarda caso, costituiscono una solida forza politica in tutte le economie moderne, soprattutto negli Stati Uniti. La loro influenza sulla Banca centrale, e nel caso americano sulla Federal Reserve, è particolarmente forte. Ne consegue che è politicamente più facile alzare i tassi (o mantenerli elevati) che non ridurli. Contro la recessione, la politica monetaria si pone quindi come strumento inefficace e che crea politicamente molti problemi.
Può anche darsi che con l'esaurimento delle scorte, la liquidazione del debito immobiliare, il graduale ritorno delle banche a una maggiore fiducia e, quindi, a una ripresa delle attività di finanziamento, l'economia americana possa registrare una ripresa. E' possibile. Ma appare improbabile che il governo americano attuale si decida ad adottare misure in senso positivo: un bilancio più consistente, l'assunzione di operai perla realizzazione di opere pubbliche urgenti, interventi in aiuto dei governi locali in difficoltà, riduzione effettiva dei tassi d'interesse. Nel frattempo, la recessione americana, che oggi si ripercuote negativamente su alti! Paesi industrializzati, fa mostra di quella che è la maggiore delle contraddizioni irrisolte del capitalismo.
Altri seri problemi affliggono poi il nostro sistema: siamo in presenza di una struttura sociale gravemente deteriorata, un fenomeno i cui pericoli potenziali potrebbero colpire indiscriminatamente tutti i cittadini, persino i più privilegiati. L'aspetto più evidente di questo fenomeno, specie negli Stati Uniti, è che i ricchi sono diventati sempre più ricchi, i poveri sempre più Poveri e la fascia sociale intermedia ha perso terreno, anche se in modo meno spettacolare.
Negli ultimi anni, mentre una minoranza circoscritta ha accumulato enormi profitti, il reddito della grande maggioranza si è eroso. Oggi, un quinto delle famiglie americane gode di un reddito pari al reddito complessivo del resto della popolazione. Persino Kevin Philips, scrittore dalle discusse credenziali conservatrici, ha sottolineato che due milioni e mezzo di americani dispongono di un reddito pari a quello dei cento milioni di americani più poveri. Vilfredo Pareto ne rimarrebbe sconvolto.
Ai problemi di giustizia sociale si affianca un altro problema, altrettanto grave, di ordine politico, le cui radici affondano nello stesso sistema economico moderno. Infatti, si è sempre convenuto che l'economia moderna richiede un afflusso costante di manodopera volenterosa. Orbene, succede però che i figli di una determinata generazione di lavoratori tendano ad abbandonare le mansioni poco qualificate dei padri, noiose e ripetitive, per accedere ad attività più gratificanti anche socialmente. A questo punto, è necessario reclutare un nuovo proletariato che li sostituisca.
L'Europa occidentale ha sopperito a questa esigenza grazie all'emigrazione dai Paesi più poveri alle economie più sviluppate: croati, sloveni e turchi si sono trasferiti in Germania, i nordafricani sono emigrati in Francia, l'Inghilterra ha ricevuto flussi di lavoratori dal suo ex impero coloniale. Anche l'Italia, che a suo tempo forniva manodopera alla Svizzera e ad altri Paesi, oggi che le migrazioni dal Mezzogiorno sono insufficienti, si avvale di manodopera straniera. E' un fenomeno che mi guardo bene dal condannare. Chi viene da alti! Paesi ha tutto da guadagnare dal cambiamento. Qualcuno farà ritorno a casa, con la ricompensa della sua fatica. E se pure le frizioni etniche sono forse inevitabili, come in Francia e in Italia, ritengo che nel breve periodo il problema possa essere ridimensionato, grazie anche al riconoscimento dell'apporto dato da questi lavoratori.
Il pericolo sorge quando questo proletariato diventa permanente, resta inchiodato nella sua posizione e si nega alla generazione dei figli l'opportunità di ascendere nella scala sociale. Pericolo che si accresce quando esistono barriere etniche o razziali che impediscono il miglioramento sociale. Il problema è ormai una realtà scottante negli Stati Uniti. A parte i flussi del nostro Sud rurale verso le città industriali del Nord, la nostra manodopera proviene da Porlorico e da altri Paesi dell'America Latina. E oggi, che sono sostanzialmente scomparse le opportunità di uscire dalla propria condizione - di cui hanno invece goduto le generazioni precedenti - il risultato inevitabile è la concentrazione di immigrati e dei loro figli nei ghetti urbani. Il disordine sociale ora minaccia la tranquillità e il benessere dell'intera collettività.
Il capitalismo, come ho già sottolineato varie volte, deve la sua sopravvivenza alla correzione dei suoi stessi errori, non di rado portata avanti nonostante la strenua opposizione di quanti avrebbe poi in effetti salvato. Negli Stati Uniti si impone una chiara e tempestiva presa di coscienza dei problemi posti dalle masse di immigrati a cui le nostre metropoli negano qualsiasi opportunità di inserimento. Educazione, alloggi, servizi pubblici e soprattutto la possibilità di lavorare, sono i soli strumenti in grado di scongiurare disgregazione e disordine devastanti. In misura minore, il pericolo riguarda anche l'Inghilterra, ed è un monito per tutta l'Europa.
Completo l'elenco delle mie preoccupazioni riguardo al capitalismo, ricordando la questione fin troppo ovvia del Terzo Mondo. Qui, il socialismo ha fallito, e non si può, almeno per il momento, dire che abbia fatto di meglio la libera impresa. Stagnazione e arretramento economico sono la norma. Ma non voglio affrontare un problema così complesso in questa sede. Mi limiterò ad aggiungere le conclusioni. La sopravvivenza del capitalismo o del sistema di mercato è ciò che mi auguro, anche perché non ci sono altri sistemi alternativi. Ma il processo di eliminazione dei difetti del capitalismo non è completo e bisogna continuare nella ricerca dei correttivi. I veri nemici del capitalismo sono quelli che affermano "tutto è perfetto" e rifiutano di vedere questa esigenza imprescindibile di cercare nuovi correttivi.

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