§ Politiche fiscali

Processo alla spesa pubblica




James Tobin
Premio Nobel per l'Economia



Su entrambe le sponde dell'Atlantico sussiste il rischio effettivo che restrizioni del bilancio pubblico apparentemente attraenti finiscano col distruggere la politica fiscale come valido strumento di stabilizzazione economica.
Negli Stati Uniti, in quest'anno elettorale, democratici e repubblicani sono frustrati dall'incapacità di fare qualcosa per affrontare il problema del disavanzo federale o di soddisfare, proprio a causa del deficit, le istanze degli elettori. Presidente Congresso si sono reciprocamente costretti all'inazione, mentre i disavanzi si accumulavano. Basti dire che, in rapporto al Prodotto interno lordo, il debito federale è passato dal 27 per cento del 1979 all'attuale 54 per cento e che si prevede un aumento ulteriore.
Il prestito federale assorbe risparmi che potrebbero essere altrimenti destinati agli investimenti in capitali di esercizio, con conseguente aumento della produttività e dei livelli di vita futuri. Questi, i motivi razionali per ridurre o eliminare i disavanzi. E' bene tuttavia non confondere i mezzi, pareggio di bilancio, con il fine, vale a dire una crescita più rapida. Se i governi ricorressero al prestito per finanziare investimenti pubblici invece di consumi, potrebbero contribuire ad elevare i futuri livelli di vita. Le spese in disavanzo che servono per dare lavoro alla manodopera e alla capacità produttiva inutilizzata non possono certo essere accusate di non essere innovative rispetto al futuro che viceversa contribuiscono a migliorare.
In Europa, i criteri concordati a Maastricht per poter aderire a pieno titolo all'Unione monetaria, in calendario per il 1999, stabiliscono che ciascun Paese membro abbia un debito pubblico lordo non superiore al 60 per cento del Pil (cfr, Tabella pag. 3 1, N.d.R.) e un prestito annuale netto non superiore al 3 per cento. Criteri che per il 1991 sono stati soddisfatti solo da tre dei dodici Paesi membri, vale a dire Francia, Regno Unito e Lussemburgo. Per il 1992 sembra che solo quest'ultimo riuscirà a soddisfare i due requisiti di cui sopra. E' presumibile, comunque, che gli altri Paesi membri potranno godere di un periodo di dilazione durante il quale saranno membri di "serie B", soggetti ad una serie di penalità. Quanto all'Italia, con un rapporto debito/Pil superiore al 100 per cento e un rapporto di disavanzo del 10 per cento circa, è molto probabile che non "converga" nei tempi dovuti; la convergenza entro il 2012 presuppone una politica fiscale di rigoroso contenimento di qui a vent'anni. Una volta entrata nell'Unione monetaria, con la lira sostituita dall'Ecu, l'Italia non disporrebbe più di strumenti macroeconomici per combattere disoccupazione e depressione. Anzi, non è escluso che l'intera Comunità, come conseguenza di politiche di bilancio rigorose e di un monetarismo dottrinario, debba far fronte ad anni in cui la disoccupazione registrerà tassi elevati.
I criteri stabiliti a Maastricht denunciano molti di quei difetti presenti nella disposizione di legge americana sul pareggio di bilancio. Quali le definizioni di debito e disavanzo? Come vengono conteggiati le attività e gli investimenti pubblici? E che dire dei bilanci dei governi subordinati? Non esistono abbuoni per i contraccolpi che shock petroliferi inevitabili hanno sui risultati di bilancio? E ancora, i rapporti tollerabili in termini di debito e di disavanzo di un'economia non dovrebbero essere stabiliti sulla base di quelli relativi alla ricchezza e al risparmio di quel Paese?
E' dal 1980 che l'Europa evita di ricorrere a politiche monetarie e fiscali effettivamente volte alla piena occupazione. E il decennio che ci sta alle spalle, contrassegnato da un alto tasso di disoccupazione, non è certo beneaugurante per quanto riguarda l'austerità inflessibile contemplata nel Trattato di Maastricht.

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