§ Rapporto Nomisma

L'Italia dello sviluppo mancato




A. R.



Negli anni Ottanta l'industria italiana ha espresso capacità di aggiustamento, di ammodernamento e di ristrutturazione in modo certamente superiore alle previsioni che si erano diffuse all'inizio del periodo; questa capacità non ha tuttavia consentito, malgrado il ciclo economico espansivo di durata inconsueta e difficilmente riproducibile, di superare i nodi strutturali del nostro sistema, che risultano anzi aggravati all'inizio di questo decennio.
In questo senso si deve parlare degli anni appena trascorsi come di una fase delle occasioni perdute, o di accumulazione dispersa. Negli anni Ottanta la prolungata flessione dell'occupazione, in presenza di una sostenuta dinamica della domanda, ha permesso recuperi di produttività superiori a quelli sperimentati da Francia e Germania, nonché significativi aumenti di redditività aziendale. Questi incrementi di produttività si sono concentrati principalmente nei settori in cui prevale la grande industria, ad essi si è accompagnato un miglioramento nella competitività di prezzo sui principali mercati di sbocco. I settori più penalizzati in termini di competitività di prezzo risultano invece quelli a prevalenza di attività tradizionali, in cui più forte è la presenza del fattore lavoro e dove meno intensi sono risultati i processi di ristrutturazione degli anni Ottanta.


La nostra industria, dopo un decennio di condizioni favorevoli per il proprio sviluppo, arriva quindi agli anni Novanta mantenendo antiche debolezze strutturali e tradizionali punti di forza.
Nella nuova divisione internazionale del lavoro che si sta consolidando in questi anni, il sistema italiano tende così a collocarsi in specializzazioni produttive estremamente sensibili alla competizione internazionale e in contemporaneo rallentamento della domanda, e in produzioni di "sub-fornitura" internazionale, certamente avanzata, ma che rischia di escludere le imprese dalle grandi opzioni strategiche di evoluzione del sistema industriale europeo. Si individuano allora due problemi di ordine strutturale:
- la specializzazione produttiva e l'innovazione dei prodotti;
- le carenze del sistema-Paese nelle attività strategiche, quali finanza, ricerca e sviluppo, ed in generale servizi per un moderno sistema industriale.

Sviluppo industriale ed investimenti.
La cultura dell'emergenza è resa oltremodo evidente dall'analisi degli investimenti effettuati dalle imprese, da cui emerge l'incapacità di fare scelte legate a strategie di medio e lungo periodo.
Se gli investimenti, in termini quantitativi, vedono l'Italia in posizione simile a quella dei principali Paesi europei, essi assumono aspetti qualitativi diversi. Gli investimenti effettuati nella seconda metà degli anni Ottanta si connotano ancora fortemente in scelte di razionalizzazione e di ammodernamento del processo, anche nel caso di investimenti di tipo espansivo. Inoltre, essi risultano estremamente influenzati da variazioni della domanda e dunque collegati ad ottiche di breve periodo. Questa evidenza è tanto più rilevante perché divergente rispetto ai principali Paesi industrializzati, più orientati ad obiettivi di innovazione e di competitività di lungo periodo.
E' certo che molti degli investimenti effettuati dalle singole imprese sono stati necessari a mantenere il proprio posizionamento di fronte a un sistema competitivo sempre più aggressivo. Queste scelte sono state però sostenute da una particolare fase del ciclo economico, mentre è mancato il completamento di investimenti nuovi, sia in funzioni importanti come la ricerca, l'organizzazione e il capitale umano, sia per avviare iniziative imprenditoriali in settori innovativi, carenza che si nota maggiormente se si considera che vi è stata una fase di elevata redditività, almeno per una parte del sistema produttivo.

Grandi e piccole imprese: i problemi dello sviluppo.
Il quadro degli investimenti converge con l'esame delle condotte delle grandi imprese, le quali sembrano aver seguito la strada del progressivo riaggiustamento con obiettivi di profitto a breve. Negli anni '84-188, che hanno registrato una elevata redditività per una parte rilevante delle imprese, non sono stati accompagnati da significative scelte di investimento in nuove attività.
Sono state invece perseguite strategie che hanno mirato alla minimizzazione sia del rischio d'impresa sia delle risorse investite, puntando principalmente ad una difesa della propria quota interna nei mercati tradizionali, e a scelte di diversificazione in attività ad alto rendimento finanziario. Basta ricordare lo sviluppo di imprese leasing, factoring, di società finanziarie-immobiliari. Al contempo, le imprese di proprietà o di controllo dello Stato hanno confermato una frammentazione strategica che ben si spiega con lo stretto legame, o persino dipendenza, con un sistema pubblico governato da esigenze di quotidianità politica ed in cui si ritrovano tutti gli elementi della cultura dell'emergenza e dell'incapacità di esprimere, e pertanto di seguire, linee di indirizzo strategico e programmatico.
L'occasione per effettuare un ampio riposizionamento delle imprese a partecipazione statale, offerta dalla congiuntura eccezionalmente favorevole degli anni trascorsi, è stata sfruttata solo in misura marginale. Anzi, il caso Enimont ha rappresentato l'esempio più macroscopico di una pericolosa inversione di tendenza in questo senso. Il sistema delle imprese pubbliche si rivela oggi un blocco protetto e fortemente resistente alla prospettiva di cambiamenti nelle modalità di controllo e gestione a seguito di nuove configurazioni proprietarie. Le recenti scelte delle Partecipazioni Statali puntano infatti a consolidare la propria presenza anche in settori non strategici per il Paese, dando concreti segnali di aver lasciato cadere opzioni strategiche di ridefinizione dell'impresa a controllo pubblico e scelte di privatizzazione. Questa situazione fa comprendere come oggi i maggiori gruppi italiani possano manifestare rapidi ed evidenti segnali di difficoltà di fronte al mutare del quadro macroeconomico. Del resto, l'oligopolio internazionale vede pochi grandi gruppi italiani collocati in posizioni di leadership, con confronti certamente preoccupanti rispetto alle posizioni di altri gruppi europei ed extra-europei.
Va infine riconosciuto che alcuni gruppi di media dimensione hanno avviato reali strategie di sviluppo industriale. Questa fascia di imprese risulta peraltro poco popolata e di peso limitato rispetto alla struttura produttiva polverizzata dalle piccole-medie imprese da una parte, e ai grandi gruppi privati e pubblici dall'altra.
Le preoccupazioni sollevate per le imprese di maggiori dimensioni sono rafforzate dalla riflessione sulle problematiche di sviluppo delle imprese minori.
Il quadro che emerge vede piccole e medie imprese deboli sul piano della struttura finanziaria e di funzioni più strettamente strategiche, oscillanti fra due comportamenti-limite: flessibilità e nicchia. Queste scelte, vincenti nella fase del riaggiustamento, possono tradursi in una "trappola strategica" che rischia di relegare le imprese minori in posizioni marginali e di dipendenza.
Certamente, la politica industriale italiana non ha favorito la crescita di questo sistema di imprese, in una fase in cui sono emersi con forza vantaggi di agglomerazione che, in questi anni, si sono manifestati a livello nazionale ed internazionale mediante forme di crescita esterna (da accordi ad acquisizioni), che hanno portato a importanti processi di concentrazione.
Al determinarsi di questa situazione ha contribuito certamente il sistema di proprietà e di controllo che caratterizza le imprese italiane; se si esclude la presenza dei gruppi pubblici, il nostro sistema industriale è fondato sul modello d'impresa familiare. Questa tipologia d'impresa, che ha garantito continuità e volontà d'azione imprenditoriale, ha rappresentato nei decenni trascorsi un punto di forza del sistema produttivo, ma presenta oggi problemi da non sottovalutare.
I grandi gruppi familiari italiani in questa fase sembrano eccessivamente impegnati in delicati equilibri di proprietà e di controllo, che tengano conto delle problematiche parentali, sia dal punto di vista della gestione, sia da quello degli aspetti finanziari. In questo si potrebbe anche vedere un limite all'azione del management, più orientato a tener conto dei controllanti che delle potenzialità di sviluppo delle imprese. Queste ultime sarebbero dirette secondo un'ottica manageriale con obiettivi vincolati a orizzonti temporali, spesso non diversi dall'impresa manageriale americana, anche se diversi per il funzionamento del mercato finanziario; il caso italiano, va ricordato, è caratterizzato dalla presenza di un azionariato statico e stabile che "governa" gran parte dei mercati della Borsa.

Lo stretto sentiero della politica pubblica.
Al quadro analitico si possono aggiungere alcune indicazioni di politica industriale.
Una prima evidenza da ricordare è quella fornita proprio dai dati di spesa pubblica in attività di ricerca e sviluppo; l'incremento della spesa pubblica avrebbe prodotto un effetto di sostituzione più che di moltiplicazione della ricerca effettuata dalle imprese.
Si può allora avanzare l'ipotesi, del resto chiaramente sostenuta dalla Commissione del Contenzioso tra governo italiano e Cee, che gli aiuti erogati dallo Stato italiano alle imprese manifatturiere non hanno contribuito ad orientare la qualità dello sviluppo, ma possono anzi aver alimentato circuiti viziosi, creatisi là dove l'aiuto si è trasformato in assistenza, piuttosto che in stimolo per sostanziali innovazioni e ristrutturazioni.
Ancora, un importante nodo che contribuisce a esplicitare il circuito negativo è reso evidente dal debito pubblico. Oltre al problema centrale dell'entità del debito, esiste infatti un impatto valutabile in termini strettamente industriali che si può facilmente spiegare nello sterile circolo attraverso cui le imprese, destinando una parte delle proprie risorse all'acquisto di titoli di Stato - che, per gli alti tassi, hanno costituito un'alternativa vantaggiosa di investimento - hanno alimentato un fenomeno di schiacciamento delle risorse, che esemplifica in modo chiaro il senso di una "accumulazione dispersa" perché destinata a finanziare debito e non nuove attività produttive.

Politiche industriali

Regole chiare e trasparenti

Le azioni di politica industriale in Italia non potranno, seppur in grave ritardo, non tener conto delle prese di posizione comunitarie. Il documento Bangemann, in sintonia con le dure posizioni assunte dal Commissario per la Concorrenza, Brittan, ha fortemente rilanciato la tesi che la politica industriale non è erogazione di sussidi, ma creazione di opportunità di crescita in contesti istituzionali chiari e trasparenti.
In questo l'esistenza di un forte vincolo da parte della Commissione in materia di aiuti (artt. 92-93 del Trattato di Roma) e di ripianamento delle perdite delle imprese pubbliche, non solo delle Partecipazioni Statali, ma anche delle diverse e variegate forme di imprese pubbliche locali (art. 90, regolamento 723/80), deve essere assunto come una opportunità per affrontare i bisogni di riorganizzazione industriale e amministrativa connessi con l'esercizio dei servizi pubblici. Per quanto riguarda poi le Partecipazioni Statali risulta sicuramente necessario procedere a privatizzazioni, ma bisogna anche che ogni altra impresa, sia che produca beni di mercato, sia che offra servizi in monopolio, agisca in un contesto di trasparenza, e quindi sia sottoposta alla vigilanza delle autorità anti-trust nazionali e comunitarie. Questo è l'altro fatto nuovo. Il controllo sui risultati non è più solo materia di pertinenza della Corte dei Conti, per verificarne la correttezza formale, ma è materia primaria di intervento dell'Autorità per la Concorrenza e il Mercato, alfine di verificare se e come il comportamento di un'impresa su cui il potere politico ha un'influenza determinante sia distorsivo del funzionamento del mercato.
Il problema della diversità italiana non si risolve allora vendendo a un privato pezzetti delle Partecipazioni Statali, ma introducendo regole di trasparenza che obblighino coloro che hanno responsabilità amministrative nelle imprese pubbliche - dalle Partecipazioni Statali alle banche, dalle municipalizzate alle Usl - così come i privati che a ogni titolo ricevono finanziamenti dallo Stato, in forma di aiuti o di appalti, a renderne effettivamente conto.
Il ritardo con cui in materia di piccole e medie imprese, di politiche territoriali, di scelte strategiche per opzioni di sviluppo, il nostro Paese si prepara ad affrontare gli anni a venire, renderà ancor più difficili le scelte da adottare proprio perché partono dal presupposto che devono cambiare le regole del gioco, mettendo così in discussione la cultura di emergenza, di continuità, di scambio, che hanno permeato lo sviluppo del sistema industriale.
In questa direzione si devono allora seguire alcune tappe fondamentali:
1) identificare e riformare le istituzioni preposte alla politica industriale (basta ricordare il vecchio problema della frammentazione dei ministeri e delle decisioni);
2) identificare gli obiettivi a medio periodo dell'intervento pubblico in materia di industria che devono essere sostenuti al di là delle brevi congiunture economiche;
3) individuare gli strumenti adeguati agli obiettivi dell'intervento che tengano conto del sistema economico e produttivo su cui agiscono e delle regole fissate a livello comunitario;
4) prevedere meccanismi di verifica e di aggiustamento delle scelte adottate in relazione agli obiettivi posti.
Sembrano punti generici, si tratta in realtà di condizioni imprescindibili per invertire la spirale negativa dell'emergenza e la mancanza di prospettati orizzonti per lo sviluppo industriale nel nostro Paese.


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