L'occupazione
nel Centro-Nord.
Nel corso degli anni Ottanta, l'offerta di lavoro ha subìto
notevoli trasformazioni. Prima fra tutte la costante crescita della
componente femminile (nel decennio è passata da 7 milioni e
mezzo a più di 9 milioni), a fronte di un'offerta maschile
pressoché stabile (15 milioni).
L'altra novità riguarda l'innalzamento dei livelli di istruzione
e quindi l'espansione qualitativa dell'offerta. Negli ultimi 15 anni
infatti la percentuale di laureati e di diplomati nel Centro-Nord
è raddoppiata, mentre si è ridotta di due terzi la percentuale
di coloro che sono in possesso della sola licenza elementare o di
nessun titolo. All'allargamento qualitativo corrisponde inoltre un
allargamento quantitativo dell'offerta che deriva da un accertato
maggiore tasso di attività della popolazione in possesso di
titoli di studio superiori o universitari. Un fenomeno questo che
si ricollega da un lato alle maggiori aspirazioni che sorgono in corrispondenza
di più elevati livelli di istruzione, dall'altro ad una differenza
puramente generazionale fra le unità meno istruite e quelle
più colte. Le prime sono pure le unità più anziane,
di per sé, e quindi indipendentemente dal titolo di studio
acquisito, caratterizzate da tassi di attività più bassi.
Le seconde concernono in prevalenza le categorie più giovani
e più attive.
Terzo aspetto significativo delle trasformazioni che hanno investito
il mercato del lavoro nell'ultimo decennio è la variazione
dei pesi occupazionali nei vari settori di attività, che conferma
il rafforzamento della tendenza verso la terziarizzazione del lavoro
italiano. Attualmente, infatti, il settore terziario assorbe quasi
i due terzi dei posti di lavoro esistenti.
Almeno per il prossimo quinquennio, la tendenza verso l'espansione
qualitativa e quantitativa dell'offerta di lavoro è destinata
a produrre i suoi effetti anche nel Centro-Nord, nonostante l'elevata
ed opposta spinta derivante dalla contrazione della crescita demografica.
Quest'ultimo fenomeno con tutta probabilità farà sentire
le prime importanti conseguenze solo verso la fine degli anni Novanta,
quando si affacceranno sul mercato del lavoro, in numero decisamente
ridotto, le giovani leve degli anni Settanta.
Fino al 1995, invece, la popolazione attiva delle regioni centro-settentrionali
continuerà a crescere, giungendo per quell'anno a 16.470.000
unità, con un aumento di oltre mezzo milione rispetto al 1989.
A questo incremento quantitativo si affiancherà una ben più
profonda trasformazione qualitativa dell'offerta, derivante dalla
graduale sostituzione delle generazioni più anziane e meno
istruite con le giovani leve a più alto grado di scolarità.
D'altro canto, sul fronte della domanda, il ricambio qualitativo della
forza lavoro occupata nelle regioni centro-settentrionali appare ormai
un passo obbligato, un'esigenza strutturale del sistema produttivo
del Paese, che continuerà ad essere soddisfatta anche in costanza
di un rallentamento della crescita economica.
Ma se l'innalzamento qualitativo dell'offerta è un segnale
positivo dell'evolversi della stessa verso le esigenze sempre più
selettive della domanda, l'entità del fenomeno risulta ancora
insufficiente a compensare gli squilibri esistenti.
Dall'analisi previsiva della media delle dinamiche regionali emergono,
infatti, risultati non entusiasmanti. Fino al 1995, nelle regioni
centro-settentrionali, la crescita media annua dell'occupazione sarà
molto debole, non superiore allo 0,5%. Per quell'anno, il numero totale
di occupati nell'area sarà di circa 15.100.000 unità,
contro i 14.681.000 occupati del 1989. Disaggregando questi dati possiamo
osservare dinamiche regionali alquanto differenziate.
Regioni come Toscana, Umbria e Marche registrano situazioni di stasi
occupazionale. In crisi la Liguria, con un regresso occupazionale
pari a -0,7% all'anno. Una posizione intermedia occupano Piemonte,
Valle d'Aosta, Triveneto ed Emilia Romagna, con tassi di crescita
annua oscillanti tra lo 0,4 e lo 0,5%. Regioni forti dal punto di
vista occupazionale restano solo Lombardia e Lazio, con un ritmo di
crescita annuo pari allo 0,8%.
Per il 1995, oltre ai posti già esistenti per i quali si prevede
il ricambio generazionale, circa 180.000 nuovi posti di lavoro dovrebbero
essere assegnati alla popolazione laureata. Di questi, oltre 80.000
saranno concentrati in Lombardia, in particolare nell'area milanese.
Altri 27.000 dovrebbero essere creati nel Lazio, che comunque conserva
un tasso di crescita della popolazione laureata inferiore alla media.
Emilia Romagna e Triveneto, aree a diffuso tessuto industriale, potrebbero
non avere ancora necessità di ricorrere in maniera massiccia
a personale altamente qualificato. La domanda più contenuta
di personale laureato dovrebbe comunque essere bilanciata da un più
diffuso ricorso a personale munito di diploma. infine, fatta eccezione
per la Liguria, il cui tasso di crescita della popolazione laureata
non raggiunge il 2%, nelle altre regioni, quali il Piemonte, la Toscana,
l'Umbria e le Marche, la percentuale oscilla tra il 2,5 e il 3%.
La popolazione diplomata continua ad essere la classe più dinamica.
Il tasso di crescita annuo dell'occupazione in possesso di diploma
risulta infatti del 4,7%. Ad un ritmo superiore alla media marciano
il Triveneto, la Lombardia, l'Umbria e le Marche. Solo la Liguria,
anche in questo caso, evidenzia le minori capacità di assorbimento.
Ritmi di crescita più lenti rispetto al passato avrà
la creazione di posti di lavoro per personale munito di licenza di
scuola media inferiore (+2,1% all'anno). Sopra la media si colloca
decisamente la Toscana, con un tasso annuo di crescita pari al 3,1%.
Seguono il Piemonte, l'Emilia e il Lazio. Fanalino di coda resta ancora
una volta la Liguria, dove l'andamento occupazionale in corrispondenza
a questo grado di istruzione sarà addirittura di segno negativo
(contrazione occupazionale di circa 8.000 unità).

Veramente drammatica appare la situazione di chi è in possesso
della sola licenza elementare o è addirittura sprovvisto di
titoli di studio. Le occasioni di lavoro per questi soggetti vanno
riducendosi drasticamente. Le previsioni, infatti, quantificano per
il 1995 una perdita di circa 1.600.000 posti di lavoro per le categorie
a bassa qualificazione. Anche se, rassicurano gli esperti, questa
cifra non si tradurrà in altrettanti disoccupati in più.
Innanzitutto, chi accede oggi al mercato del lavoro è provvisto
almeno della licenza media, mentre molti dei lavoratori a bassa qualificazione
su cui dovrebbe abbattersi la scure occupazionale saranno in età
pensionabile. Il naturale processo di turn over porterà pertanto
a limitare l'offerta di lavoro a bassa qualificazione, attuando una
graduale sostituzione dello stesso con personale più qualificato.
Nonostante ciò, i lavoratori che rischiano di essere espulsi
definitivamente dal mercato, andando ad ingrossare la già enorme
schiera di disoccupati esistente, sono numerosi, almeno 900.000 secondo
le stime. Il fenomeno pare non risparmiare alcuna regione.
Se guardiamo alla dinamica occupazionale per singoli settori economici,
possiamo osservare che le maggiori perdite si avranno nel settore
agricolo, che nel quinquennio dovrebbe subire una contrazione pari
a 800.000 unità. L'industria dovrebbe mantenere invariata l'entità
numerica dei propri occupati, circa 5.300.000 addetti, anche se, ripetiamo,
notevole sarà il ricambio qualitativo del personale. E' nel
terziario, pertanto, che si concentrerà la maggior parte dei
nuovi posti di lavoro. E' destinato, quindi, a consolidarsi il processo
di terziarizzazione del lavoro italiano, che nel 1995 porterà
ad assorbire una percentuale pari al 60% dei lavoratori esistenti
nelle regioni centro-settentrionali.
L'occupazione
nel Sud.
Se al Nord le previsioni relative ai prossimi assetti occupazionali
non sono entusiasmanti, nel Mezzogiorno esse appaiono drammatiche,
tristemente in linea con il trend negativo che ha già duramente
colpito quest'area nell'ultimo decennio. Tra il 1980 e il 1990, il
numero dei disoccupati èpassato da 800.000 a 1.600.000 unità,
un raddoppio inquietante. Il decennio trascorso ha segnato, infatti,
un grave peggioramento della situazione occupazionale del Mezzogiorno.
Soprattutto a partire dal 1984, i tassi di disoccupazione del Sud
e del Centro-Nord hanno viaggiato in direzioni completamente opposte.
Mentre nelle regioni centro-settentrionali tendevano a stabilizzarsi
e spesso a decrescere, nelle aree meridionali registravano un'impennata
in controtendenza, giungendo a superare il 20% alla fine del decennio.
Attualmente, il 60% dei disoccupati italiani è costituito da
persone meridionali in cerca di prima occupazione.
Le cause sono molteplici. L'aumento demografico, unitamente al declino
dei flussi migratori, e la crescita del tasso di attività,
soprattutto a causa del maggior peso assunto dalla componente femminile,
sono tutti fattori che hanno determinato un'offerta di lavoro nettamente
superiore sia a quella esistente nel Centro-Nord sia alla corrispondente
domanda, la cui crescita si è rivelata lieve e comunque inferiore
a quella relativa al resto del Paese.
Ma non è soltanto una questione quantitativa a rendere peculiare
il fenomeno della disoccupazione meridionale. Anche dal punto di vista
qualitativo, infatti, l'eccesso di forza lavoro assume nel Sud caratteri
particolari. Mentre nelle regioni centro-settentrionali il fenomeno
colpisce soprattutto la popolazione più anziana meno qualificata,
nel Mezzogiorno esso investe in particolar modo i giovani compresi
fra i 20 e i 24 anni. Dal 1984 al 1989, il numero di giovani meridionali
in cerca di prima occupazione è cresciuto del 66% per gli uomini
e del 70% delle donne, un trend opposto a quello registratosi nel
resto del Paese, dove il tasso di attività giovanile è
in netto calo a conferma di un progressivo invecchiamento della forza
lavoro di queste aree.
Anche per quanto riguarda la composizione dei disoccupati per livelli
di istruzione, esistono significative divergenze rispetto al Centro-Nord.
Nel Mezzogiorno, infatti, le eccedenze di forza lavoro a bassissima
qualificazione coesistono con la cosiddetta disoccupazione intellettuale.
Nel primo caso, si ha una situazione analoga, anche se di dimensioni
maggiori, a quella esistente nelle regioni centro-settentrionali e
che si potrebbe ritenere in linea con il processo di ricambio qualitativo
di forza lavoro in atto nel Paese. Ma proprio sulla base di questa
considerazione sembrerebbe quasi incomprensibile il secondo fenomeno,
quanto meno per l'entità che esso ha assunto nel corso degli
anni. Tra il 1980 e il 1990, il numero di disoccupati meridionali
muniti di laurea o di diploma è cresciuto in valore assoluto
più che nel Centro-Nord. Nel 1990 erano 509.000, contro i 408.000
delle regioni centro-settentrionali. La disoccupazione intellettuale
è particolarmente diffusa tra le donne ed investe in maniera
analoga tutto il Mezzogiorno.
Essa va ricondotta innanzitutto alla drammatica situazione in cui
versa l'apparato produttivo meridionale, costretto ad espellere più
che a sostituire il personale addetto. Il che spiega pure l'insufficiente
operare di quel processo di turn over che al Nord mitiga notevolmente
la continua espulsione di forza lavoro a bassa qualificazione. Un'altra
causa va ravvisata nella mancata rispondenza degli indirizzi professionali
prescelti con quelli effettivamente richiesti dal mercato. Lo spreco
di risorse umane che ne deriva non fa che aggravare le anomalie già
esistenti, alimentando il circolo vizioso della corruzione e dei clientelismi
politici.
E' noto infatti che in queste aree l'unica soluzione che si dà
e che ci si aspetta di avere a livello occupazionale da parte della
popolazione a più alta qualificazione è l'accesso ad
impieghi pubblici. Una soluzione che implica gravi situazioni di compromesso
e di dipendenza personale dal potere politico, con enorme pregiudizio
dell'economia del Sud.
Cerchiamo ora di comprendere fino in fondo la situazione del disoccupato
meridionale. Cerchiamo di capire come si muove, come si adatta, quali
sono le sue aspettative. Una rilevante differenza comportamentale
rispetto al Centro-Nord è connessa ai metodi di ricerca del
lavoro. Il disoccupato meridionale, infatti, a differenza di quello
centro-settentrionale, pare confidare più nell'iscrizione alle
liste di collocamento, nella partecipazione a pubblici concorsi, nella
segnalazione da parte di amici, meno invece nelle visite a possibili
datori di lavoro, o nelle inserzioni, cioè nei canali impersonali
del mercato.
D'altro canto, il numero di disoccupati meridionali iscritti al collocamento
che comunque svolgono una qualche attività lavorativa è
elevato, soprattutto nelle città economicamente più
dinamiche. Si tratta comunque di lavori precari e poco remunerativi
che solo raramente si traducono in una fonte di reddito stabile e
adeguata ad assicurare al singolo l'indipendenza economica, mentre
più spesso tali attività servono solo ad integrare i
già poveri bilanci familiari. La notevole propensione verso
occasioni di lavoro precarie ha ripercussioni molto negative sulla
mobilità territoriale dei soggetti interessati, che si dichiarano
molto restii a trasferire la propria residenza in altre regioni per
scopi lavorativi.
E' possibile ancora osservare che il fenomeno della sottoccupazione
investe essenzialmente individui provenienti da famiglie in condizioni
economiche precarie e a più bassi livelli di istruzione e si
concentra nel settore terziario più che in quello manifatturiero.
In sintesi, per gli individui provenienti da contesti familiari svantaggiati
è molto più lungo il tempo di ricerca di un'occupazione
e maggiore la propensione ad accettare lavori scarsamente gratificanti.
Si tratta, ripetiamo, di situazioni a cui corrispondono gradi di qualificazione
molto bassi. Circa il 50% dei lavoratori con titoli di istruzione
inferiore rifiuta la mobilità territoriale. Mentre quasi l'80%
dei laureati è disposto a prendere in considerazione l'ipotesi
di trasferimento.
Si parla di disoccupazione
immobile proprio per indicare l'assenza di mobilità territoriale
fra i soggetti di dati segmenti sociali: giovani privi di titoli di
studio elevati (20-27%) o che hanno dato vita a nuovi nuclei familiari,
donne in cerca di una fonte integrativa di reddito, le componenti
più anziane della disoccupazione e, ripetiamo, disoccupati
provenienti dalle famiglie più povere. Questo segmento di disoccupazione
rappresenta una quota rilevante della disoccupazione totale: un terzo
o un quarto a seconda delle varie situazioni locali.
A parte una quota variabile ma non molto elevata (si passa dal 3,8%
di province poco dinamiche, come Catania, al 19,5% di province molto
articolate, come Bari) di soggetti che si dichiarano disponibili al
trasferimento in ogni caso e per. qualsiasi lavoro, vi è poi
una fascia rilevante di disoccupati (60-70%) che accetterebbero di
trasferirsi solo a determinate condizioni. Una mobilità condizionata
dunque all'esistenza di determinati fattori qualificanti, non ultima
la possibilità di una gratificazione personale, di redditi
elevati, di rapidi rientri.
Tuttavia, il fatto che questa annunciata disponibilità al trasferimento
in altre sedi stenti a realizzarsi in concreto induce a credere che
esistano ostacoli di altra natura alla mobilità. Non può
sfuggire, innanzitutto, una notevole carenza di informazioni in merito
alle occasioni di lavoro esistenti nelle aree centro-settentrionali.
A ciò si aggiunga la mancata coincidenza fra le caratteristiche
dell'offerta di lavoro meridionale e quelle della domanda centro-settentrionale,
unitamente alla consapevolezza degli alti costi che un trasferimento
comporta sia in termini economici che affettivi.
Le prospettive non sono entusiasmanti. In assenza di una mobilità
delle imprese centro-settentrionali verso il Sud e di un'adeguata
politica che incentivi la mobilità dell'offerta, riducendo
i sacrifici ad essa connessi, ci troveremo nel 1995 in una situazione
alquanto paradossale, caratterizzata dalla carenza nel Centro-Nord
di circa 250.000 lavoratori diplomati e da un esubero degli stessi
nel Sud di circa 440.000. Se guardiamo poi alla cosiddetta disoccupazione
immobile, il problema è destinato ad assumere i caratteri dell'emergenza,
trattandosi per lo più di soggetti che il mercato non richiede
più e che andranno ad alimentare un altro mercato, quello nascosto
dei favori e delle promesse politiche veramente difficili ormai da
mantenere.