§ Parlando del Sud

Non solo economia




Napoleone Colajanni



Per redazioni di giornali, seminari, comitati scientifici, e anche qualche consiglio di amministrazione, circola un argomento su cui vale la pena di soffermarsi, in quanto tenta di dare rigore scientifico e realismo politico ad una posizione che in realtà è assai pericolosa, oltre che infondata. Secondo i sostenitori di questo argomento, i trasferimenti della pubblica amministrazione verso il Mezzogiorno hanno raggiunto un livello tale per cui l'economia meridionale si riduce a consumi finanziati da questi trasferimenti; con consumi eccessivi rispetto alla capacità di produzione il trasferimento è stato finanziato finora con una differenza tra entrate fiscali e spesa pubblica nel Mezzogiorno; ma anche questo non è bastato e ormai il disavanzo dello Stato si formerebbe integralmente nel Mezzogiorno. Tutto ciò è diventato insopportabile per due ragioni: la crisi fiscale dello Stato e l'impraticabilità politica dei trasferimenti.
Ciò merita una riflessione puntuale. E' perfettamente vero che i trasferimenti correnti dello Stato rappresentano il 42% del Pil del Centro-Nord, di cui il 10% per interessi, mentre sono il 65% del Pil del Sud (25% per spese di personale, 24% per spesa sociale). Il reddito disponibile al Sud è quindi superiore a quello ivi prodotto per via dei trasferimenti, come si sa da gran tempo. Ma le cifre sono alte perché il reddito è basso, le cifre per abitante indicano ben altra situazione. I trasferimenti correggono solo in parte il divario. Senza di questi, il reddito per abitante è il 64% del Centro-Nord; compresi i trasferimenti, diventa il 78%. La spesa sociale procapite nel Mezzogiorno è il 77% di quella al Centro-Nord; la spesa pro-capite per infrastrutture economiche è il 44% di quella al Centro-Nord; per infrastrutture sociali, il 53%. Con questi dati non c'è da meravigliarsi se il prodotto lordo pro-capite del Sud era nella media '70-'73 il 58,9% di quello del Centro-Nord, ed è diventato nell'85-'87 il 58,3%.
Quanto ai consumi, è altrettanto vero che la struttura dei consumi del Sud è di livello più elevato rispetto a un sistema di ridotte capacità produttive. Ma ciò è inevitabile in un mercato unico, per l'effetto di imitazione. Cosa si dovrebbe fare? Alzare un muro alle porte di Roma? Oscurare tutte le televisioni? Certi argomenti ricordano le manie di Franco Rodano sul buon consumo e le sciocchezze del Pci sul controllo della domanda. I modelli di consumo si diffondono in tutto il mondo, sono stati la causa scatenante della crisi sovietica, figuriamoci se si può impedire che si estendano dal Nord al Sud! E poi, ogni abitante del Mezzogiorno consuma il 30% in meno di uno del Centro-Nord, 9 milioni 117.000 lire contro 13 milioni 117.000.
Per quanto riguarda il finanziamento, è vero che la mano pubblica spende al Centro-Nord il 90% di quanto incassa, mentre al Sud spende il 150%. Ma se il reddito è basso, anche le entrate fiscali sono basse, e le entrate previdenziali sono concentrate al Nord perché l'occupazione si trova lì. il divario della pressione tributaria delle imposte dirette aumenta perché redditi più elevati pagano aliquote più elevate, e al Sud la pressione delle imposte indirette è superiore a quella del Centro-Nord, il 12% del reddito, contro il 10%. C'è dietro l'argomento una concezione curiosa, quella che si spende lì dove ci sono le entrate, negando ogni funzione redistributiva della finanza pubblica. In questo modo, si tornerà a sostenere che gli investimenti vanno fatti lì dove c'è risparmio, e a negare dunque anche la funzione delle banche.
Praticamente, si vorrebbe l'economia curtense. Quanto al fatto che il disavanzo dello Stato si formerebbe nel Mezzogiorno, questa è pura e semplice scemenza. L'unicità della finanza esiste: se vogliamo fare polemica, siamo tutti buoni a dire che il disavanzo si forma a causa della spesa per la pubblica istruzione o per i trasferimenti ai comuni del Nord. Basta giustapporre i dati. Il punto da discutere è se lo Stato deve oppure no avere tra i suoi obiettivi una redistribuzione delle risorse finanziarie e se questo deve servire a sviluppare il Mezzogiorno. Dopo di che possiamo convenire tutti che il sistema attuale, con la pletora di pubblico impiego e con tutti gli sprechi, va abolito, come tutti i meridionalisti seri, a differenza di quelli straccioni, hanno sempre sostenuto.
Si deve sapere, però, che se non si affrontano i nodi veri, la formazione di una borghesia produttiva e il ripristino dello Stato di diritto, abolire gli sprechi non servirebbe a nulla. E questi sono obiettivi politici. Discutiamo di questo e delle tecniche di intervento, identifichiamo i punti su cui operare immediatamente per cambiare le tecniche, aumentiamo la progettualità dell'intervento.
Cerchiamo però sempre di tenere presente quali sono le condizioni necessarie per il successo. Per questo ci si deve sbarazzare di altre sciocchezze. Qualcuno sostiene che "Mezzogiorno" è un'espressione solo letteraria, e che le differenziazioni interne sono diventate dominanti. Il Mezzogiorno esiste, e come! Ha costituito per mezzo secolo il mercato captivo per la nascente industria del Nord; ha assicurato la stabilità parlamentare ai governi giolittiani, democratici al Nord, massacratori e malavitosi al Sud; ha fornito l'esercito di riserva al miracolo economico. Se non si ha una dimensione storico-politica non si capisce niente.
La conclusione è quella che con ostinazione ripeto da tempo. Il Mezzogiorno è questione nazionale, come hanno detto i maestri del meridionalismo di tutte le estrazioni. E' problema politico, che coincide con la riforma dello Stato. Fare pura economia significa restare prigionieri dei numeri, senza capire nemmeno quelli.

Parlando del Sud

Labirinto con sorpresa

"Quanto lo Stato italiano ha speso per l'Italia meridionale lo ha speso più per mantenere il parassitismo che per combatterlo". Così Francesco Saverio Nitti, presidente del Consiglio nell'Italia d'inizio secolo, bocciava la qualità degli interventi statali nel Mezzogiorno.
Oggi, a più di otto decenni di distanza, l'assistenzialismo vince ancora sugli investimenti produttivi? Ed è vero che le regioni del Sud continuano a prendere come finanziamenti una fetta più grossa di quanto dato a titolo di imposte? E il Nord è davvero penalizzato nella ripartizione dei fondi pubblici?
Domande che costellano da sempre il nostro dibattito politico (tanto che già nel '900 furono pubblicati numerosi studi per calcolare col "bilancino" vincitori e vinti nella redistribuzione della ricchezza).
Interrogativi ritornati d'attualità con la sfida lanciata dalle Leghe e con la crescente rivendicazione di un'autonomia regionale che è anche e soprattutto autonomia finanziaria.
I conti pubblici, un labirinto di cifre e di assurdità contabili, riservano più di qualche sorpresa a chi cerca una risposta a simili interrogativi.
Il primo dato sorprendente è che sono le aree forti a trarre i maggiori vantaggi dalla spesa assistenziale (si veda lo studio di Nicola Parmentola: "Una spesa per tutte le regioni"). In pratica, i soldi di Roma fanno da volano per la produttività delle aziende del Nord e per le loro esportazioni verso il Mezzogiorno: solo in piccola parte servono a lanciare i territori meno sviluppati. Facciamo un esempio. Se il valore aggiunto creato dagli investimenti pubblici è pari a 100 lire, soltanto 68 vanno a beneficio di Calabria e Basilicata. Il che vuol dire che il Nord si mangia anche le 32 lire che teoricamente spetterebbero al Sud.
Un meccanismo che scatena effetti perversi anche sull'occupazione. Un miliardo di spesa pubblica crea 33 posti di lavoro in Calabria. Ma sono solo 20 le unità occupazionali che vengono attivate all'interno della stessa regione.
Decenni di trasferimenti e di interventi straordinari si sono rivelati un fallimento. Invece che colmare il fossato tra aree forti e deboli, hanno contribuito ad allargarlo. Per cambiare direzione di rotta è quindi necessario collegare aiuti e sviluppo economico.
L'analisi dettagliata dei flussi finanziari smentisce un altro luogo comune. La spesa per abitante non varia tanto a seconda delle aree geografiche (povere-ricche, meridionalisettentrionali), ma in base ad altri fattori: dimensioni geografiche e caratteristiche istituzionali. I trasferimenti pro-capite sono più alti nelle regioni più piccole e in quelle a statuto speciale. Sono soprattutto queste ultime a incassare le somme più cospicue. Un esempio? Per ogni cittadino italiano lo Stato spende, mediamente, tre milioni. Ma si arriva a 9,6 milioni circa per chi vive in Valle d'Aosta e si sfonda il muro dei quattro milioni per chi risiede a Trento, a Bolzano, in Friuli o in Sicilia. Nel complesso delle regioni speciali si concentra così una maggiore spesa di oltre seimila miliardi. Mettendo a confronto aree omogenee non sembra esserci, quindi, grande discriminazione fra Nord e Sud.
Sul fronte delle entrate statali, sono le regioni più ricche a pagare le imposte più elevate, dando quindi il maggiore contributo al bilancio pubblico. E non potrebbe essere altrimenti, se si considera che il nostro sistema fiscale è fortemente basato sulla progressività. In ultima battuta, quindi, le aree meridionali pagano meno imposte delle altre. Mettendo sull'altro piatto della bilancia i soldi incamerati dallo Stato si ottiene uno spaccato interessante che, da un certo punto di vista, giustifica certe rivendicazioni localistiche.
Sono solo quattro le regioni in cui le imposte pro-capite superano i finanziamenti, sempre pro-capite, ottenuti da Roma. In testa la Lombardia, in cui ogni abitante riceve oltre due milioni in meno di quelli dati come imposte e tasse, Seguono il Veneto (665 mila lire), l'Emilia Romagna (596 mila) e il Piemonte (375 mila lire). Un'isola felice di ricchezza che consente al resto del Paese di ottenere dal bilancio pubblico più di quello che ha dato.
Da notare che a trarre vantaggio dal fenomeno sono, sì, le regioni meridionali, ma anche regioni che si trovano ai vertici della classifica dei redditi pro-capite (Valle d'Aosta, Trentino, Friuli). Tra i maggiori beneficiati ci sono gli abitanti di Molise, Basilicata, Calabria e Lazio (grazie all'elevato peso del settore pubblico).


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