§ Opinioni

Quel vento contro il Sud




Giuseppe Galasso



Da decenni lamentiamo che la politica straordinaria si è risolta fin troppo spesso nella sostituzione della spesa straordinaria a quella ordinaria per realizzare opere e lavori finanziati per le altre regioni italiane con la spesa ordinaria dello Stato. Con ciò si è perduta (e si perde) la ragione stessa dell'intervento straordinario, che è quella di aggiungere grandi risorse alla spesa ordinaria per determinare uno slancio decisivo di attività e di strutture, non quella di chiamare straordinaria una spesa che altrove si chiama (giustamente) ordinaria. Né si capisce perché alle ferrovie, all'elettricità, alle strade, ai telefoni, ecc., lo Stato debba sentirsi obbligato a titolo ordinario - mettiamo - in Lombardia e a titolo straordinario in Calabria. In tal modo il Mezzogiorno riporta solo il danno e la beffa.
Del resto, le più ingenti risorse straordinarie il Mezzogiorno le ha ricevute negli ultimi anni non dalla legge generale sul Mezzogiorno (la 64, e prima la 183), bensì da altre leggi speciali (come quella sul terremoto e la ricostruzione) o da provvedimenti - come suol dirsi -"mirati".
D'altra parte, proprio le opere e i lavori finora finanziati con le leggi 64 e precedenti hanno tradizionalmente offerto il fianco alle maggiori recriminazioni e denunce su scandali, affarismo, corruzione, ecc. Ma se questo è vero (fondate o meno che siano le accuse), allora di questa zavorra così negativa per l'immagine del Mezzogiorno bisogna assolutamente liberarsi. E ciò senza contare che in effetti è stata ed è questa la parte dell'intervento straordinario che tradizionalmente ha costituito e costituisce lo "sportello" (come già trent'anni fa fu definito) attraverso il quale la classe politica e amministrativa distribuisce i propri favori, opera i suoi "miracoli" e tiene, con ciò, legata a sé una classe imprenditoriale avvilita dall'operare su un mercato sul quale il finanziamento pubblico è assolutamente tutto.
E' perciò profondamente contraddittorio l'atteggiamento degli imprenditori e della classe economica, che da un lato protestano e strepitano contro il condizionamento, la lottizzazione e le interferenze dei "politici", e dall'altra parte vogliono mantenere in piedi un intervento straordinario, che è anche lo strumento di potere attraverso cui si esercita la deplorevole e deteriore pressione lamentata dagli imprenditori.
In tal modo, lo Stato sarà obbligato a contemplare la spesa per opere e lavori pubblici nel Mezzogiorno totalmente nel suo bilancio ordinario, e concentreremo tutti i residui mezzi di cui l'intervento straordinario potrà disporre nell'impulso da dare al sistema economico meridionale nella sua parte veramente produttiva, senza più incrementare il pauroso campionario di opere spesso addirittura inutilizzate, con le loro durate lunghissime e i conseguenti aumenti di prezzo, che per istrada accrescono in maniera impressionante i costi inizialmente previsti.
Non è ancora il superamento generale della politica dell'intervento straordinario, al quale personalmente penso come al grande compito del meridionalismo del nostro tempo. E' già, però, lo spostamento deciso di questa politica sul terreno dell'"economia reale". Almeno fino a quando la Comunità Europea ci permetterà l'incentivazione, che oggi possiamo ancora potenziare e qualificare. Perché - non dimentichiamolo - le politiche "speciali" la Comunità non le consente e la politica italiana per il Mezzogiorno, così come è stata finora concepita, dovrà cambiare radicalmente strada anche per questo.

Gli squilibri del Sud?

Pilotati dall'industria del Nord

Sono anni che la, politica meridionalista oscilla tra la denigrazione e l'esaltazione, in una spirale di luoghi comuni di segno opposto. Senza poi che nessuno si domandi veramente a chi debba farsi risalire in ultima analisi la responsabilità dei traguardi mancati, al di là della consueta denuncia degli sprechi che, per quanto fondata, spiega ben poco proprio per la pretesa di spiegare tutto.
Può non essere comodo per molti, ad esempio, constatare come le tappe della politica per il Sud abbiano seguito, da circa mezzo secolo a questa parte, una scansione modellata sugli interessi dell'industria settentrionale: ed è proprio quanto documentano gli studi della Svimez sul Sud. Come non è certo piacevole accertare come, dietro la denuncia dell'incapacità del Sud di utilizzare gli aiuti Cee, vi siano responsabilità amministrative troppo ampie e complesse per poterle sbrigativamente addossare ai soli meridionali, come nel caso dei Programmi Integrati Mediterranei. E anche questo la Svimez lo chiarisce abbastanza bene. Con la stessa chiarezza con la quale a suo tempo ha denunciato la superficialità di certi calcoli che includono nella ricchezza prodotta nelle singole zone anche le risorse trasferite da altre parti del Paese, dando come consolidato un benessere che, sia pure in parte, è ancora provvisorio.
Sotto le critiche dell'Associazione fondata da Saraceno crollano numerose opinioni universalmente condivise (anche per ignoranza, anche per tornaconto), mentre vengono alla luce i rischi che corre in questo momento il Sud per la concorrenza delle aree mediterranee più dinamiche, come quella spagnola, che si cumula a quella dell'Est europeo.
Ma il rischio maggiore è d'origine interna e risale, da un lato, a coloro che vorrebbero smantellare l'idea stessa di una politica meridionalista, ritenendo fallimentari tutte quelle finora perseguite, e dall'altro all'opposto giudizio di chi vorrebbe mantenere tutto immutato. Quando, invece, tutto va cambiato, perché niente resti com'è, di un sistema che nel migliore dei casi è in gran parte superato e nel peggiore non ha mai funzionato in direzione degli autentici ed esclusivi interessi del Mezzogiorno.
Il rischio è che, posta di fronte all'alternativa di cambiare tutto o tutto conservare, la classe dirigente scelga una terza soluzione, mantenendo in piedi quel tanto di intervento nel Sud a favore del quale "si saranno mobilitati - ha scritto la Svimez - gli interessi forti del Nord, che avranno ritenuto di poter trarne ancora vantaggi". Non sarebbe la prima volta, come s'è detto, e probabilmente nemmeno l'ultima.

Localismi e dintorni

Voglia di cortile

La chiave ricorrente nelle interpretazioni del successo elettorale della Lega Lombarda è la protesta politica: il successo di Bossi e del suo movimento sarebbe così il frutto dell'insofferenza verso la cattiva amministrazione e il circolo perverso fatto di clientelismo, di corruzione e di sperpero delle risorse. Ma per poter discutere sulle prospettive del localismo, a prescindere dal futuro elettorale della compagnia del Carroccio, occorre richiamare anche la chiave delle identità collettive, oltre a quella della reazione protestataria. Anzi, se è vero che il localismo è una forma di identità collettiva alternativa a quella nazionale, è da qui che occorre partire.
La società italiana è stata storicamente carente di quell'integrazione cementata dal senso di identità nazionale, e con questo deficit è arrivata alla democrazia. In particolare, alle istituzioni politiche democratiche spettava costruire e alimentare questo senso di identità nazionale, apprestando quei meccanismi integrativi necessari per contenere e ammortizzare gli effetti disgregativi dello sviluppo economico.
A questo compito le istituzioni statuali sono sostanzialmente venute meno, soprattutto per la loro inefficienza. Come ha scritto Roberto Cartocci in un'indagine per il "Mulino", un tribunale e una panchina sono entrambi strumenti di integrazione sociale, sia per la loro funzione pratica, sia per la loro funzione simbolica: entrambi implicano una decisione presa da una qualche autorità in nome e negli interessi di una collettività. Se il tribunale non funziona, o la panchina è rotta, la loro funzione pratica è compromessa, ma la loro funzione simbolica non cessa: cambia di segno. Cioè: essi passano da simboli di integrazione a simboli di disintegrazione; testimoniano di una promessa fatta e poi non mantenuta, di una carenza nel processo di rappresentanza.
Un'istituzione che non funziona è lo specchio delle inefficienze e dei limiti di una comunità, della quale i singoli hanno difficoltà a "sentirsi parte": è insieme effetto, segno e causa di disintegrazione sociale. Per inciso, proprio nell'ineludibilità di questa carica simbolica gli amministratori pubblici dovrebbero trarre la lezione che una panchina rotta e non sostituita fa più danno di una panchina inesistente.
Nella latitanza delle istituzioni statuali, questo bisogno di Sentirsi parte", di riconoscersi in una comunità fatta di "gente come no?, può trarre soddisfazione per tre vie diverse, che - beninteso - non si escludono a vicenda.
La prima è costituita dall'estendersi del particolarismo egoistico e "disincantato", che fissa i confini della socialità in quelli della famiglia, e che viene alimentato dalla cattiva amministrazione e dai meccanismi della società dei consumi.
La seconda via prevede un processo attraverso cui il bisogno di appartenenza e di identità viene assicurato dall'istituzione non statuale più forte e più presente: la Chiesa cattolica. E' in questo senso, ad esempio, che possono essere interpretati i rinnovati fermenti che accompagnano il pontificato di Karol Woytjla, la persistente, silenziosa e massiccia presenza dell'organizzazione cattolica, il vasto seguito che le prese di posizione del Papa sulla guerra del Golfo hanno avuto in settori insospettabili dell'opinione pubblica del nostro Paese.
La terza direttrice, su cui vale la pena di soffermarsi un poco più a lungo, prevede che il bisogno di identità e di appartenenza venga assicurato dal riaffiorare nelle regioni centro-settentrionali di quella componente localistica e regionalistica che contraddistingue la storia della cultura politica "rossa" e di quella "bianca". Entrambe hanno attinto a piene mani alle riserve di identità locali delle rispettive zone di insediamento, e d'altra parte hanno ulteriormente alimentato tali identità mediante il loro radicamento a livello municipale, avvenuto all'inizio del secolo.
Questa valorizzazione delle identità locali, quest'alimentazione dei valori comunitari, costituisce quindi uno dei tratti iscritti nel codice genetico del nostro Paese; tratto rimasto peraltro in ombra, in quanto la contrapposizione localistica rispetto al governo centrale non si è espressa politicamente in termini espliciti. Lo impediva la dimensione utopica che nell'uno e nell'altro assetto ideologico faceva riferimento a un livello sovranazionale, nelle forme dell'internazionalismo proletario, oppure in quelle della missione universale della Chiesa.
Gli assetti emersi nel dopoguerra, che hanno fatto della DC e del PCI le maggiori forze nazionali, hanno ulteriormente contribuito a rimuovere il tema del localismo nel novero delle opzioni politicamente praticabili. Tuttavia, proprio la tradizione di buongoverno che contraddistingueva vaste aree del Centro-Nord aveva alimentato sotterraneamente - almeno fino alla scoperta del marciume tangentista - anche il senso delle identità locali.
Con questi presupposti la secolarizzazione politica, cioè la riduzione del peso delle ideologie, può far tornare alla luce il fiume carsico del localismo e del regionalismo, una risposta che surroghi quel senso di identità e di appartenenza che le istituzioni politiche statuali non sono riuscite ad assicurare. Ma un discorso è valorizzare le culture locali, un altro aver voglia di cortile, di rinchiudersi negli stretti recinti del proprio "particulare". Noi riportiamo qui di seguito un'esperienza vissuta da uno scrittore e giornalista notissimo, insieme con alcune sue considerazioni scaturite da un'attenta lettura di leggi, e privilegi, poco noti alla maggioranza della gente di strada. Quell'esperienza e quelle considerazioni le dedichiamo a tutti i leghisti, i localisti, i nostalgici del cortile, compresi quelli di casa nostra.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000