Da
decenni lamentiamo che la politica straordinaria si è risolta
fin troppo spesso nella sostituzione della spesa straordinaria a quella
ordinaria per realizzare opere e lavori finanziati per le altre regioni
italiane con la spesa ordinaria dello Stato. Con ciò si è
perduta (e si perde) la ragione stessa dell'intervento straordinario,
che è quella di aggiungere grandi risorse alla spesa ordinaria
per determinare uno slancio decisivo di attività e di strutture,
non quella di chiamare straordinaria una spesa che altrove si chiama
(giustamente) ordinaria. Né si capisce perché alle ferrovie,
all'elettricità, alle strade, ai telefoni, ecc., lo Stato debba
sentirsi obbligato a titolo ordinario - mettiamo - in Lombardia e a
titolo straordinario in Calabria. In tal modo il Mezzogiorno riporta
solo il danno e la beffa.
Del resto, le più ingenti risorse straordinarie il Mezzogiorno
le ha ricevute negli ultimi anni non dalla legge generale sul Mezzogiorno
(la 64, e prima la 183), bensì da altre leggi speciali (come
quella sul terremoto e la ricostruzione) o da provvedimenti - come suol
dirsi -"mirati".
D'altra parte, proprio le opere e i lavori finora finanziati con le
leggi 64 e precedenti hanno tradizionalmente offerto il fianco alle
maggiori recriminazioni e denunce su scandali, affarismo, corruzione,
ecc. Ma se questo è vero (fondate o meno che siano le accuse),
allora di questa zavorra così negativa per l'immagine del Mezzogiorno
bisogna assolutamente liberarsi. E ciò senza contare che in effetti
è stata ed è questa la parte dell'intervento straordinario
che tradizionalmente ha costituito e costituisce lo "sportello"
(come già trent'anni fa fu definito) attraverso il quale la classe
politica e amministrativa distribuisce i propri favori, opera i suoi
"miracoli" e tiene, con ciò, legata a sé una
classe imprenditoriale avvilita dall'operare su un mercato sul quale
il finanziamento pubblico è assolutamente tutto.
E' perciò profondamente contraddittorio l'atteggiamento degli
imprenditori e della classe economica, che da un lato protestano e strepitano
contro il condizionamento, la lottizzazione e le interferenze dei "politici",
e dall'altra parte vogliono mantenere in piedi un intervento straordinario,
che è anche lo strumento di potere attraverso cui si esercita
la deplorevole e deteriore pressione lamentata dagli imprenditori.
In tal modo, lo Stato sarà obbligato a contemplare la spesa per
opere e lavori pubblici nel Mezzogiorno totalmente nel suo bilancio
ordinario, e concentreremo tutti i residui mezzi di cui l'intervento
straordinario potrà disporre nell'impulso da dare al sistema
economico meridionale nella sua parte veramente produttiva, senza più
incrementare il pauroso campionario di opere spesso addirittura inutilizzate,
con le loro durate lunghissime e i conseguenti aumenti di prezzo, che
per istrada accrescono in maniera impressionante i costi inizialmente
previsti.
Non è ancora il superamento generale della politica dell'intervento
straordinario, al quale personalmente penso come al grande compito del
meridionalismo del nostro tempo. E' già, però, lo spostamento
deciso di questa politica sul terreno dell'"economia reale".
Almeno fino a quando la Comunità Europea ci permetterà
l'incentivazione, che oggi possiamo ancora potenziare e qualificare.
Perché - non dimentichiamolo - le politiche "speciali"
la Comunità non le consente e la politica italiana per il Mezzogiorno,
così come è stata finora concepita, dovrà cambiare
radicalmente strada anche per questo.
Gli squilibri
del Sud?
Pilotati dall'industria
del Nord
Sono anni che
la, politica meridionalista oscilla tra la denigrazione e l'esaltazione,
in una spirale di luoghi comuni di segno opposto. Senza poi che nessuno
si domandi veramente a chi debba farsi risalire in ultima analisi
la responsabilità dei traguardi mancati, al di là della
consueta denuncia degli sprechi che, per quanto fondata, spiega ben
poco proprio per la pretesa di spiegare tutto.
Può non essere comodo per molti, ad esempio, constatare come
le tappe della politica per il Sud abbiano seguito, da circa mezzo
secolo a questa parte, una scansione modellata sugli interessi dell'industria
settentrionale: ed è proprio quanto documentano gli studi della
Svimez sul Sud. Come non è certo piacevole accertare come,
dietro la denuncia dell'incapacità del Sud di utilizzare gli
aiuti Cee, vi siano responsabilità amministrative troppo ampie
e complesse per poterle sbrigativamente addossare ai soli meridionali,
come nel caso dei Programmi Integrati Mediterranei. E anche questo
la Svimez lo chiarisce abbastanza bene. Con la stessa chiarezza con
la quale a suo tempo ha denunciato la superficialità di certi
calcoli che includono nella ricchezza prodotta nelle singole zone
anche le risorse trasferite da altre parti del Paese, dando come consolidato
un benessere che, sia pure in parte, è ancora provvisorio.
Sotto le critiche dell'Associazione fondata da Saraceno crollano numerose
opinioni universalmente condivise (anche per ignoranza, anche per
tornaconto), mentre vengono alla luce i rischi che corre in questo
momento il Sud per la concorrenza delle aree mediterranee più
dinamiche, come quella spagnola, che si cumula a quella dell'Est europeo.
Ma il rischio maggiore è d'origine interna e risale, da un
lato, a coloro che vorrebbero smantellare l'idea stessa di una politica
meridionalista, ritenendo fallimentari tutte quelle finora perseguite,
e dall'altro all'opposto giudizio di chi vorrebbe mantenere tutto
immutato. Quando, invece, tutto va cambiato, perché niente
resti com'è, di un sistema che nel migliore dei casi è
in gran parte superato e nel peggiore non ha mai funzionato in direzione
degli autentici ed esclusivi interessi del Mezzogiorno.
Il rischio è che, posta di fronte all'alternativa di cambiare
tutto o tutto conservare, la classe dirigente scelga una terza soluzione,
mantenendo in piedi quel tanto di intervento nel Sud a favore del
quale "si saranno mobilitati - ha scritto la Svimez - gli interessi
forti del Nord, che avranno ritenuto di poter trarne ancora vantaggi".
Non sarebbe la prima volta, come s'è detto, e probabilmente
nemmeno l'ultima.
Localismi e
dintorni
Voglia di cortile
La chiave ricorrente
nelle interpretazioni del successo elettorale della Lega Lombarda
è la protesta politica: il successo di Bossi e del suo movimento
sarebbe così il frutto dell'insofferenza verso la cattiva amministrazione
e il circolo perverso fatto di clientelismo, di corruzione e di sperpero
delle risorse. Ma per poter discutere sulle prospettive del localismo,
a prescindere dal futuro elettorale della compagnia del Carroccio,
occorre richiamare anche la chiave delle identità collettive,
oltre a quella della reazione protestataria. Anzi, se è vero
che il localismo è una forma di identità collettiva
alternativa a quella nazionale, è da qui che occorre partire.
La società italiana è stata storicamente carente di
quell'integrazione cementata dal senso di identità nazionale,
e con questo deficit è arrivata alla democrazia. In particolare,
alle istituzioni politiche democratiche spettava costruire e alimentare
questo senso di identità nazionale, apprestando quei meccanismi
integrativi necessari per contenere e ammortizzare gli effetti disgregativi
dello sviluppo economico.
A questo compito le istituzioni statuali sono sostanzialmente venute
meno, soprattutto per la loro inefficienza. Come ha scritto Roberto
Cartocci in un'indagine per il "Mulino", un tribunale e
una panchina sono entrambi strumenti di integrazione sociale, sia
per la loro funzione pratica, sia per la loro funzione simbolica:
entrambi implicano una decisione presa da una qualche autorità
in nome e negli interessi di una collettività. Se il tribunale
non funziona, o la panchina è rotta, la loro funzione pratica
è compromessa, ma la loro funzione simbolica non cessa: cambia
di segno. Cioè: essi passano da simboli di integrazione a simboli
di disintegrazione; testimoniano di una promessa fatta e poi non mantenuta,
di una carenza nel processo di rappresentanza.
Un'istituzione che non funziona è lo specchio delle inefficienze
e dei limiti di una comunità, della quale i singoli hanno difficoltà
a "sentirsi parte": è insieme effetto, segno e causa
di disintegrazione sociale. Per inciso, proprio nell'ineludibilità
di questa carica simbolica gli amministratori pubblici dovrebbero
trarre la lezione che una panchina rotta e non sostituita fa più
danno di una panchina inesistente.
Nella latitanza delle istituzioni statuali, questo bisogno di Sentirsi
parte", di riconoscersi in una comunità fatta di "gente
come no?, può trarre soddisfazione per tre vie diverse, che
- beninteso - non si escludono a vicenda.
La prima è costituita dall'estendersi del particolarismo egoistico
e "disincantato", che fissa i confini della socialità
in quelli della famiglia, e che viene alimentato dalla cattiva amministrazione
e dai meccanismi della società dei consumi.
La seconda via prevede un processo attraverso cui il bisogno di appartenenza
e di identità viene assicurato dall'istituzione non statuale
più forte e più presente: la Chiesa cattolica. E' in
questo senso, ad esempio, che possono essere interpretati i rinnovati
fermenti che accompagnano il pontificato di Karol Woytjla, la persistente,
silenziosa e massiccia presenza dell'organizzazione cattolica, il
vasto seguito che le prese di posizione del Papa sulla guerra del
Golfo hanno avuto in settori insospettabili dell'opinione pubblica
del nostro Paese.
La terza direttrice, su cui vale la pena di soffermarsi un poco più
a lungo, prevede che il bisogno di identità e di appartenenza
venga assicurato dal riaffiorare nelle regioni centro-settentrionali
di quella componente localistica e regionalistica che contraddistingue
la storia della cultura politica "rossa" e di quella "bianca".
Entrambe hanno attinto a piene mani alle riserve di identità
locali delle rispettive zone di insediamento, e d'altra parte hanno
ulteriormente alimentato tali identità mediante il loro radicamento
a livello municipale, avvenuto all'inizio del secolo.
Questa valorizzazione delle identità locali, quest'alimentazione
dei valori comunitari, costituisce quindi uno dei tratti iscritti
nel codice genetico del nostro Paese; tratto rimasto peraltro in ombra,
in quanto la contrapposizione localistica rispetto al governo centrale
non si è espressa politicamente in termini espliciti. Lo impediva
la dimensione utopica che nell'uno e nell'altro assetto ideologico
faceva riferimento a un livello sovranazionale, nelle forme dell'internazionalismo
proletario, oppure in quelle della missione universale della Chiesa.
Gli assetti emersi nel dopoguerra, che hanno fatto della DC e del
PCI le maggiori forze nazionali, hanno ulteriormente contribuito a
rimuovere il tema del localismo nel novero delle opzioni politicamente
praticabili. Tuttavia, proprio la tradizione di buongoverno che contraddistingueva
vaste aree del Centro-Nord aveva alimentato sotterraneamente - almeno
fino alla scoperta del marciume tangentista - anche il senso delle
identità locali.
Con questi presupposti la secolarizzazione politica, cioè la
riduzione del peso delle ideologie, può far tornare alla luce
il fiume carsico del localismo e del regionalismo, una risposta che
surroghi quel senso di identità e di appartenenza che le istituzioni
politiche statuali non sono riuscite ad assicurare. Ma un discorso
è valorizzare le culture locali, un altro aver voglia di cortile,
di rinchiudersi negli stretti recinti del proprio "particulare".
Noi riportiamo qui di seguito un'esperienza vissuta da uno scrittore
e giornalista notissimo, insieme con alcune sue considerazioni scaturite
da un'attenta lettura di leggi, e privilegi, poco noti alla maggioranza
della gente di strada. Quell'esperienza e quelle considerazioni le
dedichiamo a tutti i leghisti, i localisti, i nostalgici del cortile,
compresi quelli di casa nostra.
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