§ Memorie di un giornalista

Passaggio dal Sud (2)




Gennaro Pistolese



Tutti gli anni Venti (di quelli successivi diremo in altra occasione) hanno avuto a che fare in maniera determinante, per le premesse e le conseguenze che tanto pesantemente hanno gravato sulla nostra storia, con i Fasci di combattimento prima e con il Partito Nazionale Fascista, poi.
Due realtà diverse, nei contenuti e negli obiettivi, ma cementate dalla marcia su Roma, con le sue tante contraddizioni e violente prevaricazioni; le resistenze e le assenze di molti, riqualificatisi poi come "partecipanti"; le assurde rivendicazioni non sostenute da principii, valori e mezzi corrispondenti; la sorpresa del colpo di mano; la pretesa capacità di potere vicario di renitenze e di inefficienze del contesto politico, sociale ed economico, che però dal canto suo non era ancora riuscito, a guerra finita da quattro anni, ad iniziare una costruttiva e mirata transizione postbellica.
E' un periodo, comunque, pur sempre combattuto da un antifascismo a forte carica ideale e razionale, ma che ha dovuto registrare alterne fortune, diverse modulazioni e anche quanto mai dolorose delusioni.
Un preambolo a questo discorso, particolarmente significativo ed eloquente, soprattutto alla prova del dopo, mi pare quanto Prezzolini scriveva a Gobetti il 26 dicembre 1922, due mesi dopo la marcia su Roma: "Oggi non mi pare ci siano che due decisioni: o entrare nella storia lavorando con questo movimento che si chiama fascismo, sopportando l'orrore dei suoi procedimenti, la volgarità e e sue persone, la grossolanità delle sue idee, pur di sentirsi vivi ed attori in qualche cosa di potente, oppure in disparte a preparare la generazione nuova di qui a venti o venticinque anni, o meglio di piccoli nuclei di essa".
Prezzolini ha scelto la seconda strada, con tanto disinteresse per il suo "io" da chiedere, a poco meno di 90 anni, un intervento da parte di un collega (che poi me lo ha raccontato) per il suo tardivo e pur meritato pensionamento da parte del nostro Istituto di Previdenza: una volta Arnaldo Mussolini, poi Giovanni Amendola.
Ma di questa marcia su Roma, cosa rimane nella memoria di un tredicenne che proprio in quei giorni da un paese del Sud si trasferiva a Roma, per iniziare il suo corso di quinta ginnasiale?
Roma allora non aveva, per lui, molti tratti topografici essenziali, in una città lontana dal milione di abitanti: con la stazione Termini che alle spalle poco spaziava, almeno per lui, oltre Porta Maggiore, con innanzi Piazza dell'Esedra, di fianco il Macao con i suoi palazzi piemontesi e le caserme, e poi via Nazionale. Più distante, il centro storico, come lo si definisce adesso, gravitante sul Corso e, alle spalle di questo, su Piazza Venezia e poi Corso Vittorio, i borghi, San Pietro.
Dall'altro lato del Corso, ci si spingeva su via Flaminia e per un lungo tratto verso i Prati ed il grande palazzo di Giustizia, con più oltre il viale delle Milizie, sede di tante caserme, abitazioni più o meno anonime di una borghesia modesta o che tale tendeva ad essere per lo meno nelle apparenze, e qualche avvisaglia di quartiere sul limitrofo Monte Mario.
Questa è la Roma che ricordo di quei tempi, per me con il rilevante punto di riferimento di due ponti sul Tevere, da un lato ponte Cavour e dall'altro ponte Margherita. Nelle sere d'inverno su questi ponti in gran parte solitari dominava la nebbia, dalla quale emergevano gli inviti quasi angosciosi dei venditori di caldarroste o di grosse pizze di polenta o castagnaccio.
Questa era allora Roma, con l'Anno Santo non ancora alle porte, con i successivi sventramenti dei borghi o dei fori imperiali, che non erano stati neppure immaginati, anche se qualcosa taluni l'avevano pensata per l'area dei Fori Traiani e di Piazza Venezia, con un sindaco del quale già allora si sussurravano deviazioni e tolleranze, diciamo così interessate, con un pontefice che era papa Ratti, con un governo che poco prima della marcia su Roma alla vecchia sede di Palazzo Braschi aveva sostituito quella del Viminale.
Una Roma, fra l'altro, non più con i tram a cavallo, ma comunque con tram che scorrevano su tante strade, centralissime, fra cui ad esempio Via dei Condotti o la Salita Francesco Crispi, e che non erano tutti nelle mani dell'Azienda comunale, perché Roma si permetteva anche di avere una società tranviaria mista, nazionale e straniera, e cioè il numero 16, con vetture di colore differente dalle altre, che collegava San Pietro e San Giovanni.
Era in realtà una Roma che non era del tutto uscita dall'Ottocento, che sentiva l'influenza di una borghesia che non anticipava il rinnovamento e che su questo voleva e molto condizionava in nome della tradizione, che aveva come modello molti pilastri, che dovevano essere esemplari e circondati di dignità: potere pubblico, giustizia, scuola, polizia. Un po' meno la religione. Dietro questi pilastri, come sempre, c'erano le cose che non andavano, ma da una parte rivoluzionari, riformisti, pure anarchici, anticlericali, ecc., promettevano o preparavano tentativi di radicali e sconvolgenti mutamenti, altri invece indugiavano e si confrontavano con scelte e indicazioni o innocentemente con~ servatrici o gradualistiche, talvolta anche ipocritamente professate verso il nuovo e il cambiamento.
Ma la storia e l'esegesi di quel periodo sono tanto ampie da non consentire in questa sede altre postille, se non forse una in forma d'interrogativo: come, in quella situazione, la democrazia avrebbe dovuto o potuto essere difesa da un comunismo e da un socialismo reale che erano alle porte, o almeno in non lontana prospettiva nel nostro Paese? In ogni caso, alla storia di quelle giornate, un tredicenne del Sud a Roma può aggiungere qualche nota personale, che nel nuovo o nel vecchio completa certamente quella atmosfera.
C'è stata o non c'è stata la volontà regale, o per lo meno del governo Facta, di opporre alla minaccia della marcia su Roma lo stato di assedio? Ufficialmente, e solo in seguito, in gran parte della storia successiva se ne è avuta la smentita. Sta di fatto tuttavia che sui ponti del Tevere chi scrive, ripeto tredicenne, ma imminente alunno della quinta Ginnasiale, ha visto non solo i cosiddetti cavalli di Frisia, ma anche il manifesto del generale del corpo d'armata di Roma (Scavonetti) che proclamava appunto lo stato d'assedio. Poi questo, secondo testimonianze ufficiali, è stato prima revocato e quindi addirittura negato.
Ma questa è storia che riguarda Vittorio Emanuele III, Facta, Soleri, Amendola, con quanto hanno fatto o non hanno fatto, o hanno trascurato di fare per il timore della guerra civile, per ubbidienza al sovrano, per il timore di questi di fronte alla concorrenza alternativa del Duca d'Aosta, e così via.
Certe storie in materia peccano di aver sposato una sola delle varie ipotesi, ma non hanno saputo o voluto equilibrarne le rispettive incidenze, che spesso hanno anche come causale diverse interpretazioni di una stessa fonte.
Discutiamo ad esempio, in tutto il comportamento di Vittorio Emanuele III, le interpretazioni, errate o sbagliate, che egli ha dato dello Statuto Albertino, e certamente capiremo molto di più di quanto sommariamente crediamo di aver capito sulla sua figura e sulle sue responsabilità di sovrano dal 1922 in poi (ricordiamo il voto di fiducia al governo Mussolini all'indomani della marcia su Roma o il voto finale del Gran Consiglio del Fascismo del 1943: due voti, cioè, di riferimento e per il sovrano e per la sua strategia).
Come in tutti i campi, anche in questo i giudizi sono ovviamente liberi e vanno rispettati, a patto però che tengano conto, naturalmente anche contestandoli, dei vari dati di fatto e della loro reale validità, che ad un certo momento devono risolversi almeno in una effettiva obiettività: quella che la vera giustizia ricerca ed applica. E se sbaglia, c'è per lo meno la buona fede, che la storia - ripetiamo non sempre veritiera - è chiamata a riconoscere, doverosamente.
La marcia su Roma l'ho vissuta, così, nella capitale. Con i cavalli di Frisia e i manifesti di cui ho detto prima. Ma anche con i quadri, le insegne, le macchine da scrivere che le squadre fasciste buttavano su Piazza Cavour dal quarto piano di un palazzo dove era ubicata un'organizzazione sindacale. Con un Palazzo Marignoli, sopra l'Aragno di allora su Corso Umberto, sede di un'associazione dei commercianti romani indebitamente occupata dalle squadre fasciste come sede del loro comando, con le trombe militari che suonavano l'attenti ad ogni passaggio dei loro comandanti, e poi sede del Fascio romano, che nel frattempo aveva abbandonato la sede molto precaria in via degli Avignonesi.
Con un Palazzo Marignoli, sempre, sul terrazzo del quale, prospiciente il Corso, era costretto a comparire il comunista Bombacci (prima vituperato come comunista e, successivamente, consigliere di Mussolini a Salò e compagno nella sua morte, nell'aprile del 1945), con la testa rapata, ma dipinta del tricolore.
Di questa marcia su Roma ricordo la lunga sfilata delle squadre davanti al Quirinale. Ero presente, davanti al Palazzo della Consulta, guardato (anzi, custodito) dalla pazienza di mio padre. Le squadre sfilavano stancamente.
Sul terrazzo del Quirinale (sul quale, se non erro, a parte la proclamazione dell'Impero, mai più Vittorio Emanuele III si è presentato, mentre il "re di maggio", Umberto, lo ha fatto solo una volta, alla vigilia del referendum del 1946), erano presenti, oltre al Re, il generale Diaz (all'epoca non era ancora maresciallo, ma era stato pur sempre il condottiero nella prima guerra mondiale e perciò ministro della Guerra nel sopravvenuto governo Mussolini) e l'ammiraglio Thaon de Revel, ministro della Marina dello stesso governo (di lui ricordo la fervida pratica religiosa in una chiesa di Roma, limitrofa alla mia abitazione, in via XX Settembre e l'apposizione, ai piedi della statua di Santa Maria delle Vittorie, della sua spada di ammiraglio).
Orbene, questa era la piazza del Quirinale, durante lo sfilare grigio e distratto delle squadre fasciste, che la sera stessa avrebbero dovuto ripartire per le sedi d'origine.
Ma un fatto resta vivo nella mia memoria, a distanza di tanti decenni. Ed è la vibrante invocazione di un vecchio signore che era al mio fianco. E che ripeteva, testuale: "ho capito, viva il Re!". Aveva capito, veramente. Ma a questa mia fragile memoria di allora, qualche altro fatto deve essere aggiunto.
Frequenti, anche dopo, erano le squadre fasciste che sfilavano sul Corso Umberto con le prime divise della Milizia Volontaria, nella quale Mussolini aveva cercato di istituzionalizzare il suo squadrismo fuorilegge e che con una banda musicale di Sezze Romano, all'altezza del Caffè Aragno, uno dei simboli della Roma di allora, cominciava a suonare le note di una marcetta, che si chiamava Rusticanella.
Ma essa piaceva molto a De Bono, un quadriumviro della marcia su Roma, che procedeva al suono di questa.
Sempre nella mia memoria del tempo, rivivono gli applausi dei nazionalisti ai camion della Guardia Regia, una specie di polizia armata di allora, che Nitti aveva creato qualche anno prima per garantire, in quell'epoca di agitazioni, l'ordine pubblico. Erano applausi che i nazionalisti rivolgevano ad un corpo di polizia che il regime aveva ritenuto di dover sciogliere, perché rappresentava quella polizia che il fascismo considerava compiacente con le forze che gli si erano opposte. C'è da osservare però che anche allora il clientelismo di oggi contava qualcosa, perché Nitti, fondatore dell'arma, aveva scelto come vice comandante il generale Lordi, suo corregionale, che ho peraltro conosciuto come mio lontano parente, e fra l'altro avo di quella che nel 1945, a Roma, è stata medaglia d'oro della Resistenza. La storia è strana nel succedersi o nella coerenza o nel contrasto del susseguirsi degli avvenimenti, ma è così.
Sempre a proposito dei nazionalisti, che applaudivano alla Guardia Regia che veniva disciolta, bisogna aggiungere qualche altra cosa. E cioè che essi avevano un'origine più lontana di quella fascista. i loro padri fondatori erano stati principalmente due, Corradini e Federzoni: il primo toscano, il secondo bolognese, da me entrambi conosciuti. Della stessa origine sono stati partecipi Rocco, il ministro fascista del tuttora biasimato Codice, il calabrese Maraviglia, il giornalista Francesco Coppola, certamente anticipatore di storia politica e diplomatica con la rivista Politica, ed altri.
Di questi nazionalisti bisogna dire che in alcune vocazioni hanno preceduto il fascismo, in altre lo hanno imitato. Lo hanno preceduto con la loro vocazione nazionale, che nel fascismo invece è subentrata per motivi forse in gran parte tattici, attribuibili all'interventismo nella prima guerra mondiale e poi ai cosiddetti "valori" della spedizione di Fiume. Lo hanno preceduto con la loro convinzione coloniale, estranea invece a Mussolini, quando si opponeva - addirittura sui binari dei treni - alla guerra libica.
Lo hanno imitato con la costituzione delle cosiddette "camicie azzurre", dei "sempre pronti, per la Patria e per il Re", che tuttavia poco o nulla, sempre contraddittorio e da chiarire, hanno a che fare con la marcia su Roma ed anche con i relativi alibi.
Il primo è che il fascismo, a parte il corporativismo, in larga misura si è appropriato, in dottrina e in ispirazioni politiche, del pensiero nazionalista, ricavandone anche gerarchi e caporali d'onore per la milizia. Il secondo è che il nazionalismo postumo, sempre con i suoi esponenti che man mano divenivano obsoleti, alla ricerca di se stesso, ha detto con Federzoni no al fascismo, con il quale tuttavia ha sempre collaborato, il 25 luglio del 1943.
L'anno scolastico intanto cominciava. Ed io iniziavo quello mio di alunno della quinta ginnasiale all'Ennio Quirino Visconti che, con il prestigioso Tasso, con il Mamiani, allora in Corso Vittorio, e con l'Umberto, era uno dei quattro licei classici esistenti nella capitale. Ma il mio, a Piazza del Collegio Romano, situato in un grandioso edificio, era certamente il più rappresentativo di tutti. Aveva un ottimo personale insegnante e fra l'altro già allora - senza bisogno di campagne femministe o paritarie tra uomo e donna - due miei insegnanti erano donne, una professoressa di Francese e una di Scienze naturali, quest'ultima ammirata dagli alunni e dai colleghi per la sua avvenenza.
Due altri insegnanti erano determinanti, e cioè quello di Lettere e l'altro di Matematica, quest'ultimo autore celebrato di libri di testo. Erano molto bravi e pazienti e avevano quasi tutti dalla loro parte l'austerità, che era rispettata. Non esisteva allora il sopravvenuto perverso rapporto quasi sindacale o parasindacale fra studenti e insegnante, che molto più tardi in una riunione industriale ad alto livello, presente il Presidente della Confindustria, Angelo Costa, ebbi a sottolineare, suscitandone l'attenzione con la sua domanda riguardo a chi dei due soggetti dovesse ritenersi il datore di lavoro. Ma certo, contrariamente alle attese, ebbi a dire che questo datore di lavoro in siffatto rapporto mi appariva lo studente, e forse gran parte delle nuove generazioni così arbitrariamente lo applica. Questo però è un lungo discorso, che su tutta la tematica scolastica è lungi (molti tuttavia preferiscono non ammetterlo) dal saldare le generazioni che si susseguono.
Nella memoria più vive risultano le immagini della scolaresca di allora, non omogenea, pur appartenendo allo stesso ceto borghese. La piccola borghesia ricercava allora altre sedi e livelli di studio, e quelli classici non erano certamente da essa preferiti.
Qualcuno dei compagni di banco è diventato in seguito un personaggio. Così, ad esempio, Giorgio Amendola, divenuto negli anni successivi un'emblematica personalità comunista, ma sin d'allora e subito antifascista, oltre tutto per la vocazione ispiratagli dal padre, Giovanni, ministro dell'ultimo governo Facta, direttore del quotidiano Il Mondo, sempre perseguito ed infine ferito a morte dalle squadre fasciste. Amendola, al ginnasio, apparteneva già al cosiddetto partito del soldino e partecipava alle manifestazioni in difesa della Camera del Lavoro (ma chi ricorda questo suo passato?) Non l'ho più rivisto, ma so che ha continuato ad avere rapporti con qualche compagno di classe. Uno di questi, che doveva poi divenire giornalista comunista (fra l'altro con l'intento di dimostrare ai propri compagni che si poteva portare la camicia di seta, insegnando loro ad indossarla), dal banco di scuola tentava di arrangiare il Te Deum con la musica jazz: siamo nel 1922 e qualcuno dimostrava il proprio laicismo anche in questo modo.
Altri compagni di classe successivamente divennero uno responsabile della politica agricola del PCI, ma questi era il secondo della classe; un altro, giudice costituzionale; un terzo, diplomatico ed altri si sono dispersi nella vita. Purtroppo, il primo della classe si è trasformato nel tempo in una sorta di barbone; l'ho rivisto dolorosamente molti anni più tardi, ma lui non se n'è accorto: era già altrove.
Chi nella mia memoria non è cambiato per niente è l'autorevole portiere, allora in divisa e per tanti anni successivi da me rivisto, immutabile nei tratti, nella solennità delle sue funzioni di venditore di libri e di raccoglitore di mance, e così via.
Il preside era dietro le quinte, il direttore di segreteria no. Gli insegnanti, dal canto loro, davano regolarmente notizie ai genitori, molto assidui, e contestavano ammonimenti, non erano soggetti a proteste di scolaresche e di famiglie. Le cose forse andavano meglio allora o si era solo più diligenti perché andassero meglio?
La scuola, anche in quei tempi, era tema centrale della stessa vita politica. Tant'è che il primo ministro dell'Istruzione, fascista, e cioè il filosofo Giovanni Gentile, impostava e subito dopo varava la sua riforma della scuola, che ha costituito spavento e ossessione delle generazioni scolastiche del tempo. E ciò per il suo rigore e per il completo ribaltamento dei canoni precedenti. Forse tale riforma è stata fra le più reali attuate dal fascismo e al tempo stesso fra le più radicali e sconvolgenti. Non mi intendo di politica pedagogica o di metodologia didattica, ma so come studente di avere avuto a che fare, nelle mie fibre più profonde, con questa riforma, che a me è stata applicata, non scalarmente come per gli altri che mi hanno preceduto nell'esame di maturità, ma per tutti e tre gli anni di studio liceale. Una prova memorabile!
Questo Gentile, siciliano, filosofo e contraddittore di Croce, cui doveva poi essere assegnato il destino di pronunciare dal Campidoglio il discorso di estrema resistenza nella seconda guerra mondiale (siamo nel giugno del 1943), di divenire presidente dell'Accademia d'Italia durante la Repubblica di Salò e di essere assassinato a Firenze, era stato durante il regime più o meno accantonato, avendo avuto solo tre compiti ufficiali, e cioè quello di presidente dell'Istituto di cultura fascista, di autore della voce "Fascismo", attribuita a Mussolini, per l'Enciclopedia Treccani, di essere presidente dell'Ente di detta Enciclopedia.
L'ho conosciuto grazie al figlio per riceverne l'appoggio presso il letterato colonialista Guelfo Civinini, da me pregato di tenere una conferenza agli universitari sulla letteratura africanista. Di Gentile ricordo il sorriso: quel sorriso che noi studenti non avevamo mai intravisto o previsto in lui in relazione alla sua tanto temuta riforma. A freddo, il rapporto umano attenua ed elimina almeno i preconcetti.
Subito dopo questa mia appartenenza al Visconti, il mio passaggio liceale all'Istituto Massimo, il maggiore istituto privato di Roma, una grande scuola cattolica, frequentata, qualche anno prima, in larghissima parte dall'élite della capitale. Un grandissimo edificio a fianco della stazione Termini, abbandonato nell'ultimo ventennio, poi faticosamente ristrutturato ed oggi infine sede di un museo cittadino, che ha ancora tutta l'apparenza di essere una promessa più che una concreta realtà. Sono i tempi lunghi dell'inziativa pubblica, dei quali abbiamo giorno dopo giorno conferme, che non vengono smentite. I totali, poi, sono quelli che sono.
Orbene, questo istituto aveva due componenti quanto mai caratterizzanti. La prima era costituita dalla qualificazione del corpo insegnante: religiosi, alcuni, e cioè i gesuiti; laici gli altri: taluni loro predecessori erano stati addirittura famosi. La religione c'entrava e non c'entrava: non era un elemento essenziale, ma platonicamente sottinteso dell'educazione. Quando indugiamo su questo tipo di scuola ricordiamoci anche di questo, ed io ne ho fatto esperienza poi come padre di famiglia.
L'altra componente qualificante era il ceto di appartenenza degli alunni. Era evidentemente molto alto, a parte talune eccezioni, fra le quali certo la mia. Quando a Roma c'era il Derby, ed allora riguardava la corsa principe dei cavalli, il prefetto dell'Istituto (così allora si chiamava chi sovraintendeva alla disciplina) scandiva davanti a noi i nomi di giovani principi, nostri compagni di scuola, che venivano esonerati dal partecipare alle lezioni pomeridiane. La cosa allora passava inavvertita, ma viene oggi ricordata da chi l'ha vissuta. Era una distinzione, al tempo non avvertita come contrapposizione, inutile perché inesistente a certi livelli, ma marcata da chi pretendeva e da chi tollerava questi privilegi. Oggi, per fortuna, il titolo nobiliare, a parte quelli riconosciuti a certi palazzi e a pochissime famiglie, è fra quelli più svalutati e comunque ignorati.
In questa mia fase scolastica, il fatto per me più memorabile è stato e rimane il delitto Matteotti. Siamo nel 1924, quasi alla fine del mio primo anno di liceo e alla vigilia del secondo.
Orbene, questo fatto condiziona tutti i miei giudizi e tutte le mie curiosità di quel tempo, e ciò essenzialmente per due ragioni: perché leggevo il quotidiano Il Mondo di Amendola, che mio padre acquistava e che io gli contendevo nella lettura, e perché i giudici che si occupavano delle indagini frequentavano la stessa edicola presso la quale con curiosità sostavo, per interesse ai giornali e fra l'altro per vedere gli agenti di polizia incaricati di provvedere ai ricorrenti sequestri dei quotidiani sgraditi per questa o quella ragione al regime. Fra questi vi era in prima linea, oltre ai giornali di partito che allora ancora esistevano, il Becco Giallo, un settimanale satirico, estremamente motivato ed anche di buona fattura.
Nella nostra scuola, il delitto Matteotti determinò una netta contrapposizione fra chi condannava e chi giustificava l'accaduto. lo ero fra i primi, ed avrei potuto essere definito "quartarellista". Così del resto sono stato contestato da taluni, successivamente. Ma quanti accettarono le interpretazioni ufficiali del fatto e perciò lo giustificarono erano adolescenti che meglio di me erano predisposti alla successiva carriera: un futuro ambasciatore in Iran, un futuro Console generale a San Francisco, ecc. Avevano visto giusto, a modo loro, ed avevano conseguito con questa loro "coerenza'' la ricompensa, sia pure professionalmente meritata. Nessuna militanza politica mi distinse in quel periodo, ma solo una perenne curiosità per quanto mi accadeva intorno: erano i tempi dell'Anno Santo che risvegliava per lo meno un intero quartiere, del quale io ero limitrofo, e che mostrava i primi segni di rinnovamento dei borghi fino a Piazza Risorgimento. Questa però, nella sua parte di accesso alla Basilica, accoglieva all'ultimo piano di un palazzo abbastanza fatiscente la sede di un circolo intitolato a "Giordano Bruno" (evidente sfida, nelle intenzioni, al Vaticano: la protesta allora si contentava anche di queste furberie).
Degli stessi mesi ricordo l'assassinio, su di un tram proveniente da Monte Mario, di un deputato fascista, Casalini se non erro, quale reazione e vendetta per l'omicidio Matteotti. Per quel che ricordo, i movimenti non si risolvevano in tante concatenazioni. Certamente, anche la dittatura, non ancora ufficializzata, concorreva ad evitarle, ma era di più la vocazione legalitaria degli oppositori e la ricerca, sia pure in forma di alibi, di chi doveva dimostrarla come classe dirigente che cercavano di fornire le rispettive motivazioni. Un ragazzo di quindici anni capiva e non capiva. Beati coloro che, in quell'età e per quell'età, sono convinti di aver sempre visto giusto!
Della mia carriera scolastica di quel periodo non parlo. Non ho fotografie di gruppo, non ho tanti compagni da ricordare, come si usa forse per generazioni meno anziane della mia... Ho qualche immagine che mi è rimasta nel cuore. Per tutte, quella di un compagno di banco, che era veramente bravo e certo migliore di me, con il quale si era stabilita un'affinità che per la diversa bravura scolastica stupiva il mio insegnante di Lettere. Questi, nel lamentare le mie insufficienze per la sua materia, l'italiano, sottolineava a mio padre il fatto che a suo giudizio mi mancava la fantasia. Non so se la mia successiva carriera di giornalista, buona o cattiva che sia stata, e non sarò certamente io a giudicarla, gli abbia dato ragione. So invece che il giornalismo significa anzitutto aderenza alla realtà; forse per la ricerca della realtà, e cioè del vero, c'è bisogno anche della fantasia. E non so fino a qual punto, come giornalista, mi è mancata questa per il conseguimento di quella.
Comunque, una verità mi conforta ed è che la concretezza e l'ansia della conquista di quello che non è immediatamente sotto i nostri occhi sono la chiave di volta della vocazione e della pratica dei giornalisti, ed io sono sicuro di averle perseguite.
Si interrogano su tutto ciò i maestri o presunti tali del giornalismo, ma cominciamo a sentire quelli che si limitano a dire che provengono dalla gavetta: questa è certa; l'altra, quella dell'affermazione o del primato, può essere solo una illusione. Forse in tante scuole di giornalismo, in tanti praticantati, in tante ammissioni all'Ordine, dovrebbe essere verificato, e dovrebbe risultare, tale convincimento dell'aspirante. Con questo richiamo probabilmente inconscio verso il giornalismo, ha avuto inizio, dopo la prova di maturità classica (molto mi è costata e spiegherò il perché), la mia carriera di studente universitario.
Prima di allora c'è stata la frequenza scolastica in un istituto privato medio, il Dante Alighieri, anch'esso la prima scuola privata laica di Roma. Vi frequentavo la classe del terzo liceo, quella conclusiva degli studi classici, e perciò della maturità classica, come la riforma Gentile l'aveva definita.
In questa classe ed in quell'istituto fra gli alunni ve n'erano quattro che invano avevano tentato prima la prova di maturità. Soprattutto uno di essi, distante da me negli anni tale da apparirmi già un probabile padre di una famiglia nascente, era spaventato, avvertendo gli ignari come me che l'esame di Stato era una cosa terribile. Sì, una cosa terribile e paurosa. Per superare questa prova gli insegnanti, che erano tutti estremamente validi (professori in pensione più o meno famosi nell'ambito scolastico romano o giovani che iniziando così la loro carriera didattica l'hanno poi elevata alla docenza universitaria), non pensavano solo a propinarci sintetiche cognizioni, ma anche a selezionare il più possibile materie di preparazione, con le specifiche spesso sofisticate tematiche che avrebbero dovuto essere sottoposte agli esaminandi, come espressione dei programmi di studio effettuati. Allora i membri delle commissioni esaminatrici erano tutti membri ordinari di facoltà universitarie, e quindi si attendevano di procedere ad un livello qualificato alle verifiche degli esaminandi.
Quelle esperienze hanno certamente lasciato un segno in chi le ha vissute, come maestro o come alunno. Forse sono state trascurate negli anni successivi, perché si è capito che il sistema andava rinnovato, ma tuttora si ricerca la strada necessariamente nuova, ma non si sa ancora il più delle volte quale essa possa essere.
E qui valga un ricordo personale. Agli inizi degli anni '40, durante il regime fascista, ministro dell'allora Educazione Nazionale era Giuseppe Bottai, che si può definire per tutto il suo excursus politico, da comandante di colonna delle squadre della marcia su Roma e protagonista al gran Consiglio fascista del luglio 1943, una convinta coscienza critica del fascismo. Orbene, questo Bottai, che aveva già inventato la Carta del Lavoro, sulla quale poi si è innestato tutto il corporativismo con quello che prometteva, naturalmente prevalente e contraddittorio rispetto a quello che è riuscito a realizzare, da ministro dell'Educazione Nazionale aveva escogitato la Carta della Scuola. Mussolini, nell'affidargli l'incarico di ministro, gli aveva detto che c'era solo da fare dell'ordinaria amministrazione. Un capo, anzi il capo, la pensava così, ma il gerarca, e Bottai si vantava di questa sua attitudine diretta a rivestire di contenuti innovativi cariche e funzioni che gli venivano assegnate, aveva pensato per conto suo una radicale riforma. Bottai (ed io sono fra quelli che hanno avuto direttamente questa convinzione) ricavava da tutto ciò esperienza, impegni di iniziativa ed insegnamenti che riversava anche sugli altri.
Si può giudicare quest'uomo nelle maniere più diverse. Mi sembra anzi che nel secondo dopoguerra, dopo che egli per riscattare se stesso di fronte alla sua militanza fascista si era arruolato nella Legione straniera, compiendo esemplarmente il proprio dovere, rientrato in Italia fu oltraggiato a Roma da un nostalgico che non gli perdonava la posizione assunta nel gran Consiglio che aveva sigillato la fine di quel regime. Sta di fatto che si è trattato di un uomo che l'ha pensata così ed ha sempre cercato di testimoniare la coerenza di se stesso. Ricordarlo così oggi, senza mai averne ricevuto benefici, se non quello della testimonianza di questa sua operante coerenza, mi sembra significativo anche per suo figlio, valido e non nepotista segretario generale della Farnesina, in questa nostra Repubblica.
D'altra parte, espressioni di quest'attitudine dell'uomo sono contenute in un libro postumo di alcuni suoi scritti preparato da un altro uomo di governo, Riccardo del Giudice, anch'egli già fascista, ex capo di una confederazione fascista di lavoratori e poi sottosegretario con Bottai e con lui partecipe e portatore di analoghe idee. Questi raccomandò poi alla mia attenzione di direttore di un quotidiano il volume stesso, valido come testimonianza di un tipo di azione e di scelte anche ideali. Ma perché, mi domando oggi, quando si esaminano e si valutano determinati periodi storici, pur ed anche se da condannare, si prescinde quasi sempre da istruttorie particolari? Nell'invocare queste istruttorie, se si vuole la verità con tutte le sue facce, non ci sono nostalgie né ricerche inutili di attenuanti, ma solo il desiderio di non tenere fuori della porta la storia, tutte le storie documentate o validamente documentabili.
E da questo punto di vista, le lacune esistenti sono tante e non si riferiscono solo a questo o a quel periodo, ma sono purtroppo immanenti nella storia e nella cronaca stessa. Anche oggi, anzi oggi più di prima, perché più larga ne è democraticamente la circolazione, e perché più facile, anche nel malcostume, ne è la strumentalizzazione.
Ma che erano Roma e lo stesso fascismo intorno al 1926? E' quello un anno del discorso del 3 gennaio, che faceva slittare il fascismo nella dittatura dichiarata e praticata? E' l'anno in cui Re Vittorio Emanuele III, in virtù di acquiescenze parlamentari, comincia ad accettare, non sempre a condividere, ma a inibire. E' l'anno in cui Mussolini e tutto intero il fascismo continuano a guardarsi intorno per capire quanto devono inventare e creare per rendersi credibili nel nuovo processo, e devono garantire alla propria sopravvivenza con strumenti più o meno idonei e comunque ritenuti tali.
Sono, secondo me, i nazionalisti sciolti nelle organizzazioni, ma superstiti nello spirito ed anche in un loro intento di rivalsa, risultati ideologicamente vincenti anche senza i riconoscimenti fascisti, a fornire alcuni sbocchi su questo terreno.
E' questa la fase del bresciano Augusto Turati che, diventando segretario del Partito fascista, prende il posto di Roberto Farinacci, ras di Cremona, e sostituisce alla rozza intransigenza di questi una certa raffinatezza oratoria ed annuncia o pretende di annunciare una più civica e sociale presenza delle gerarchie e del regime tutto intero, come questo cercava di configurarsi. Ricordiamoci che questo regime non ha mai manifestato un'immagine permanente e coerente, ma ha cercato (e addirittura ha creduto di poterne ricavare l'identità) di mutarla a seconda delle circostanze. La cosiddetta rivoluzione continua è valsa a sottolineare un intento del nuovo che in realtà non si sapeva cosa fosse. Si voleva con questa insicurezza premiare la suggestione dell'ignoto!
E' questa la fase in cui Mussolini stesso si studiava. Aveva bisogno di pilastri: Margherita Sarfatti, già sua critica letteraria al Popolo d'Italia -ed io l'ho conosciuta e ve lo dirò -; suo fratello Arnaldo, ed io l'ho conosciuto e vi dirò come -; più tardi Costanzo Ciano, padre di Galeazzo, addirittura suo successore, presunto testamentario, nella condotta del regime. Mussolini, in sostanza, si era vantato nel passato di rivedere e di aggiornare i programmi giorno per giorno. Era la tecnica del vecchio giornalista, e certamente lo è stato ad elevato livello, che pensava e progettava il giornale dell'indomani in relazione a quanto era successo o che si credeva, più o meno interessatamente, sarebbe avvenuto. Ma nel Mussolini di quel tempo, nella stessa sua oratoria, anch'essa valida per quei tempi, ci sono le risonanze della madre, maestra elementare, e di lui stesso, ai suoi inizi tormentati anche maestro elementare, secondo cui ogni parola andava scandita per il dettato o per essere trascritta sulla lavagna.
Ma qui stiamo parlando del 1926. E Mussolini fra l'altro continuava a cambiare foggia di cappello. C'è così la "storia minore" dei cappelli di Mussolini e per me il farla potrebbe essere un vezzo. Egli usava allora una bombetta grigia. Non era esistita prima in Italia. Ma gliela forniva un cappellaio romano molto noto a quei tempi, Fabrizi, in via IV Novembre. Questi l'usava per conto suo e lo ricordo grasso, ma con pretese di compiaciuta imponenza. Chi credeva di essere famoso a quei tempi soleva dimostrare anche così di meritarselo.
Orbene, Mussolini, più o meno ignaro, se ne compiaceva. D'altra parte una bombetta nera gli era sempre piaciuta. L'aveva in testa quando veniva arrestato (più volte) prima della marcia su Roma, e le fotografie degli archivi storici ce lo ricordano, perché preferiscono la prova principe dell'autenticità e cioè la fotografia.
Subito dopo la marcia su Roma si è trovato con il cilindro in testa alla Basilica di S. Maria degli Angeli, per la prima messa di suffragio per i Caduti della prima guerra mondiale. Successivamente c'è stato un alternarsi di berretti all'alpina quale caporale d'onore della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, di fez (con fiocchi sempre sulla fronte e mai disinvoltamente sul retro, come praticato da certi squadristi e prima dagli arditi di guerra), di berretti con l'aquila o con i gradi di maresciallo dell'Impero.
Il 26 luglio del 1943 dal Re, infine, sulla testa di Mussolini c'era solo un cappello a cencio, che indossava anche a Campo Imperatore quando fu liberato da Hitler, e quando ritornò a Cesenatico per "fondare" la Repubblica Sociale adottò berretti di varia foggia, apparentemente o realmente semplici, ma sempre al servizio di una fantasia che pretendeva di annunciare qualcosa di nuovo. Sempre in materia di cappelli di Mussolini, la storia minore, qualora ne sia interessata, deve ricordare il fatto che l'ultimo copricapo che Mussolini ha indossato è stato un elmetto tedesco, con il quale tentava di sottrarsi alla cattura partigiana, disattendendo il suo motto di "credere, obbedire, combattere". Ma tutto ciò non riguarda una ideologia, tattiche anche eventualmente occasionali, e così via: impegna invece il dovere di coerenza, che poi è primaria condizione di dignità umana, la prima realtà che ognuno di noi deve ricercare in se stesso, prima che dagli altri ci venga sollecitata.
E fin qui a parte la parentesi abbiamo parlato della Roma capitale, che era intorno a noi, e per quanto era percepita dagli adolescenti come me. Roma non cresceva ancora, però certamente si preparava a crescere. Lo prometteva il regime, ma l'annunciava certamente quello che c'era nell'aria. Una città che si accorgeva di cominciare a scoppiare, con sbocchi che il regime pretendeva di prepararle e con altri che invece irrompevano per conto proprio.
Le nuove generazioni di allora non devono certamente pretendere di esserne state un propellente. E ciò perché non l'hanno mai manifestato, ed in molti casi hanno ritenuto che tale compito fosse disimpegnato da un regime che si dichiarava pronto a tutto fare.
Ricordiamoci di questa sorta di polizza d'assicurazione che molti italiani (e non giungo al paradosso del mio amico ambasciatore Pietro Quaroni, che si compiaceva di sbalordire i suoi interlocutori internazionali con il dichiarare a quei tempi che il nostro Paese aveva 90 milioni di abitanti, di cui 45 antifascisti e 45 fascisti) avevano contratto, avendo come contropartita gli impegni, tragicamente illusori, di un regime che, per quanto in particolare riguardava la capitale, proclamava ai quattro venti la vocazione (però rozzamente strumentale) della sua romanità.

(2 - continua)


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