§ Crimine organizzato / La genesi

Alla radice delle mafie d'Italia




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta, Ada Provenzano
Collab. Laura Perini, Nakao Oghumi, Renzo Pareti



L'Italia degli omicidi, l'Italia che si atterrisce, con i suoi elenchi di assassinii a catena, con le spietate esecuzioni, con i professionisti del crimine, con i ventenni della piccola borghesia arricchita che ammazzano i genitori per andare in discoteca, non sembra diversa, statistiche alla mano, dall'Italia di un secolo fa, monarchica ed edificante, l'Italia crispina, popolata di maestrine dalla penna rossa e di ferventi medici socialisti, che celebra le sorti dell'industrialesimo e culla ambizioni africane. Ecco le cifre: gli omicidi volontari (consumati e tentati) nel 1990 sono stati 3.796; nel 1880 erano stati 3.235. Se si tiene conto dell'aumento di popolazione, si scopre che il Paese in cui viviamo è meno feroce di quello in cui vissero i nostri bisnonni o trisavoli: siamo passati da circa trenta milioni di abitanti a quasi il doppio (calcolando anche tutti gli immigrati). Il che vuol dire che il rapporto tra omicidi e abitanti è diventato migliore: allora era di uno a novemila; oggi è di uno a sedicimila.
Questo confronto è possibile dopo le ricerche di un giudice, Romano Canosa, che ha pubblicato una Storia della criminalità in Italia 1845-1945. Nelle biblioteche si trovano diversi testi che prendono in esame aspetti specifici della realtà criminale e della natura dei criminali, dagli studi di Cesare Lombroso a quelli di Eric Hobsbawm, da Brigantaggio in Sardegna di Emilio Lussu a Mafia e politica di Michele Pantaleone; lo stesso Canosa ha pubblicato una lunga serie di saggi sul carcere e sulla magistratura. Ma è la prima volta che un libro affronta una vera storia della criminalità italiana, dall'Unità ai nostri giorni.

Ogni storico di professione può spiegarci che si tratta di una materia di per sé ambigua. La stessa parola crimine sfugge a una definizione univoca. Un medesimo comportamento è classificato diversamente, dal punto di vista giudiziario, a seconda del momento storico: un regime dittatoriale o un regime democratico significano anche una diversa concezione (e repressione) della criminalità. Le fonti, inoltre, presentano enormi problemi per lo storico. Gli archivi giudiziari sono giganteschi magazzini cartacei, in ciascuno dei quali si rischia di dover trascorrere l'intera vita per una decente consultazione. I dibattiti parlamentari e le relazioni delle Procure rispecchiano più il punto di vista della classe dirigente che l'autentico stato delle cose. Per queste ragioni - scrive Canosa - "tra coloro che si occupano di criminalità, gli studiosi di storia si trovano, in ordine di tempo, all'ultimo posto".
In un secolo, il numero totale dei delitti è naturalmente cresciuto a dismisura, al di là del rapporto proporzionale con la diversa dimensione demografica del nostro Paese: si passa da 350 mila delitti nel 1880 a due milioni e mezzo nel 1990. Ma a questo aumento non corrisponde - lo abbiamo visto per gli omicidi - una recrudescenza della criminalità più violenta.


Nell'Italia di oggi, il 92 per cento dell'illegalità è prodotto dalla microdelinquenza: scippi, borseggi, furti con scasso in negozi e in appartamenti, furti di automobili e di motociclette o sulle auto in sosta, truffe, risse, piccolo contrabbando, piccolo spaccio, e reati minori. E' in questi territori che si registrano i peggioramenti, sia perché è aumentata la popolazione sia perché è migliore l'accertamento, ma soprattutto perché sono cambiati i modelli di vita. Nel 1880 i reati contro gli averi erano intorno ai trentamila casi. Ma allora era diffuso l'abigeato. Non si potevano (ancora) rubare automobili.
Ma la mafia e la camorra, con i loro derivati (droga e sequestri), questa Italia cupa e nemica, da cui oggi ci sentiamo assediati e minacciati fisicamente, questo mondo sotterraneo che ha scavato le sue nicchie in tutti i gangli della nostra società, esistevano anche un secolo fa, incombevano anche un secolo fa? Quella che chiamiamo la criminalità organizzata (o il cartello del crimine) si era già costituita, aveva già potere?
La relazione di un procuratore ci offre i dati dei delitti violenti compiuti nel 1872 nel territorio della Corte d'Appello di Palermo: 202 omicidi premeditati, 363 omicidi volontari, 100 omicidi per furto, 99 "ferite seguite da morte", 356 "ferite costituenti crimine", 268 reati a causa di libidine, 977 grassazioni. La mafia a quel tempo era solidamente impiantata nella Sicilia orientale, da Palermo alle province di Girgenti e di Caltanissetta, e aveva già sviluppato il suo carattere di fondo: "è per lo più in mano a persone della classe media".
Quando Franchetti e Sonnino, qualche anno dopo, conducono la loro inchiesta sulle condizioni dei contadini nella regione, essi si convincono che l'industria della violenza è "la sola che per adesso prosperi realmente" e scrivono sulla mafia parole che possono essere tranquillamente ripetute cent'anni dopo: "La forza che le ha permesso di porsi in questa condizione e che la fa sussistere sta nella classe dominante [ ... ]. Perché coloro che predominano, se vogliono adoperare la classe facinorosa ai loro fini, devono pur permetterle di curare i suoi interessi particolari".


Quanto alla camorra, nel 1901 una regia commissione presieduta dal senatore Seredo pubblica in ben undici volumi i risultati di un'inchiesta su Napoli. Vi si legge: "Il male più grave fu quello di aver ingigantito la camorra, lasciandola infiltrare in tutti gli strati della vita pubblica e per tutta la compagine sociale".
Era nata, a partire dal Seicento, come organizzazione per il controllo delle case da gioco e per la gestione clandestina delle carceri. Alla fine dell'Ottocento aveva una sua specifica struttura, con una suddivisione in gruppi (paranze), con rituali di iniziazione per i soci, con una gerarchia di status per i membri (picciotti, annurate, proprietari), con sanzioni disciplinari che andavano dalla sospensione allo sfregio e alla morte. Alla base della sua attività c'era l'estorsione organizzata, ma i suoi traffici si estendevano dal contrabbando alla prostituzione e alle carceri: "Non v'era settore dove non avesse piede", scrive Canosa. infine, "tutti coloro che svolgevano un mestiere ambulante, i facchini, i cocchieri, i rivenditori di frutta, di giornali, di chincaglierie, ecc., portavano il loro obolo all'associazione".
La differenza fra ieri e oggi è l'estensione territoriale della criminalità. Mafia, camorra, brigantaggio, banditismo, erano allora concentrati nelle regioni meridionali e insulari, mentre nel resto d'Italia si aveva a che fare "con una criminalità di piccolo conio e di scarsa pericolosità", spiega Canosa. L'equivalente di Londra e di Parigi, come capitali della delinquenza, erano Napoli e Palermo, non Milano con la sua teppa, né Torino con la sua barabberia. La violenza delle nostre periferie industriali è storia degli ultimi cinquant'anni.
Ma la natura mafiosa della criminalità organizzata, i suoi legami con la società, le sue complicità con la politica, erano già evidenti un secolo fa, come dimostrerà il tentativo più efficace e famoso di sconfiggere la mafia, quello diretto dal prefetto Mori, investito da Mussolini di poteri speciali. Dopo oltre duemila arresti, quando si arrivo all'alta mafia, il prefetto venne fermato e rimosso. Nel 1931 un avvocato gli scriveva: "Ora in Sicilia si ammazza e si ruba allegramente come prima. Quasi tutti i capi mafia sono tornati a casa. Dove andremo a finire?".

Crimine / Gli investimenti

Denaro pubblico e borghesia lazzarona

I terribili delitti mafiosi di questi ultimi tempi hanno riproposto il tema dei rapporti tra cartello del crimine organizzato e mondo economico e sociale del Sud. Si è fatta, sulla stampa e nei discorsi di rito, molta dietrologia, ma - come nota Giovanni Russo nessuno si è soffermato ad esaminare le radici di questa situazione e i canali attraverso cui si collegano iniziative pubbliche e private nel mondo dell'imprenditoria e dell'economia, aspetti illegali o comunque in contrasto con un sano indirizzo economico.
L'intervento della criminalità organizzata nella lotta politica ha confermato, almeno per la Sicilia, quanto aveva affermato Giovanni Falcone nel suo libro "Cose di Cosa Nostra", e cioè che la droga non costituisce la fonte principale delle entrate della mafia, anche se, a titolo personale, i vari boss si occupavano e continuano talvolta ad occuparsi del traffico di stupefacenti. Secondo Falcone, c'è stato un distacco dal commercio di eroina a partire dal 1985. Comunque, in questo settore la situazione non è ben chiara; quel che invece è chiaro è che per la mafia, la camorra e la 'ndrangheta la fonte di guadagno è rappresentata dalle risorse erogate dallo Stato per opere pubbliche e dalle tangenti imposte ai commercianti.
La droga ha costituito pertanto, sotto questo aspetto, una sorta di alibi per esperti, studiosi e per le stesse istituzioni, che ha consentito di eludere l'analisi del vero potere dell'organizzazione criminale nei gangli pubblici, negli enti locali, nelle Usl, nelle Regioni. Invece, gli ultimi ministri degli Interni hanno dovuto fornire denunce su amministratori locali coinvolti in gravi reati, quasi tutti riconducibili all'uso distorto del denaro pubblico.
Scrive Russo: per capire che tipo di economia si è affermato in molte zone del Mezzogiorno occorre tener presente che la gestione delle risorse pubbliche e dei finanziamenti dello Stato è controllata spesso direttamente dal potere mafioso. Questo processo si accentua da oltre un decennio, accelerato dalle somme erogate per la ricostruzione dopo il terremoto in Basilicata e in Irpinia del 1980. Se si considera quindi la droga come un'attività fluttuante e collaterale a quella principale, che è il controllo capillare di ogni iniziativa pubblica e privata affinché parte dei proventi finisca per arricchire la mafia e la camorra, si riesce anche a capire chi sono i personaggi della nuova borghesia del Sud.
Si tratta di professionisti, geometri, tecnici, che di fatto costituiscono l'ossatura di un ceto dirigente dai piccoli centri alle grandi città meridionali che si è arricchito in questo modo e che ha un ruolo determinante in quel "nuovo blocco sociale" a cui faceva riferimento un rapporto del 1990 che Pasquale Saraceno redasse poco prima di morire.
E in quel rapporto si afferma che il "nuovo blocco" è costituito dai rapporti che intercorrono tra il continuo emergere dei bisogni sociali, il controllo politico sulla gestione delle risorse pubbliche e l'interesse delle imprese coinvolte.
Secondo l'autore, alle origini di questo sistema vi è la coincidenza di interessi tra grandi imprese, anche del Nord, e il complesso degli apparati pubblici. Per esempio, l'impianto siderurgico di Taranto, che fu poi raddoppiato e dove c'è ora una grossa crisi d'impiego e di manodopera, non solo ha condizionato lo sviluppo urbanistico della città, ma ha anche provocato la rottura dell'equilibrio sociale e civile. In quella zona, come in tante altre del Sud, le prime attività economiche controllate da elementi della criminalità organizzata cominciarono a svilupparsi proprio per i lavori di movimento-terra e di sbancamento per i cantieri destinati alla costruzione di impianti petrolchimici o siderurgici rimasti inutilizzati e per le strutture varie.
E' nata così un'alleanza tra l'industria pubblica, i grandi imprenditori e gli amministratori degli enti locali. Dei consorzi per le opere pubbliche fanno parte sia le imprese pubbliche dello Stato sia gli imprenditori privati sia la Lega delle cooperative. Essi si sono spartiti i finanziamenti dello Stato per tutte le grandi opere del Mezzogiorno, come quella di Gioia Tauro, destinata ad un centro siderurgico mai sorto. Gioia Tauro è un caso di convergenza d'interessi tra queste imprese privilegiate, gli agrari arricchiti dagli espropri e la proliferazione di piccole imprese criminali legate al monopolio dei lavori e all'industria del cemento. Questo sistema ha funzionato a tutto motore durante la ricostruzione dopo il terremoto in Campania e ha sviluppato il collegamento tra consulenti, tecnici, esperti e persino magistrati, a cui toccava il compito di fare i collaudi, ricevendo ricchi compensi.
Allora? Allora "si tratta di vere e proprie finanziarie di natura neofeudale che si dividono il territorio, distribuiscono favori, pagano tangenti, impongono i loro candidati nelle elezioni politiche, nelle banche, negli uffici e sono diventate i veri detentori del potere nel Sud. Accade così che anche grossi interessi economici settentrionali desiderano che continui a persistere questa situazione che è il frutto della restaurazione dell'istituto della concessione di opere pubbliche la quale esclude ogni rischio d'impresa e dà notevole anticipazione ai concessionari". Grandi gruppi e consorzi di imprenditori di lavori edili diventano così titolari di un enorme potere finanziario di intermediazione parassitaria che sta all'origine delle rovinose condizioni in cui si svolgono i lavori e si perpetuano i completamenti. Una parte della borghesia imprenditoriale, senza correre alcun rischio, ha' accumulato in poco tempo fortune con lo Stato. Lo Stato è stato accantonato. Solo i concessionari progettano le opere, le danno in appalto a condizioni esose, che solo le imprese mafiose possono accettare, dal momento che non temono concorrenza, Questo nuovo ceto costituisce quella che è stata chiamata la "borghesia lazzarona" del Sud. L'istituto della concessione rappresenta quindi la rinuncia dello Stato a controllare la gestione dei propri finanziamenti e l'opportunità di lucrare su dì esso senza controllo. Le opere pubbliche, date in concessione alle grandi imprese e ai consorzi, i quali incassano anticipi fino al 50 per cento da parte dello Stato, vengono eseguite senza alcuna procedura di legge che tuteli l'interesse pubblico. Le concessioni hanno favorito quindi interessi privati e spesso illeciti, per le ragioni accennate, e permettono di dare in subappalto le opere a imprese molto vicine alla malavita o da questa appositamente messe in piedi per l'occasione. E' nato così un collegamento tra questi nuovi feudatari, i concessionari e un ceto borghese che ha rinunciato a ogni funzione di guida civile, diventando subordinato a questo sistema. Intorno a questi nuovi feudatari ha prosperato la mentalità mafiosa e camorristica, che ha avuto un ruolo profondamente diseducativo sui giovani che hanno cominciato a cedere alle lusinghe di facile arricchimento che la criminalità organizzata fa balenare.
Il Sud è diventato così terra di conquista proprio per l'effetto delle risorse erogate dallo Stato, che invece di promuovere il risanamento civile ed economico hanno riprodotto, sotto altre forme, il vecchio sistema baronale.
Così, le enormi anticipazioni di denaro pubblico non raggiungono lo scopo di accelerare l'esecuzione delle opere, bensì quello di ritardarle e di renderle perpetue. I "tecnici" offrono tutti gli espedienti e i trucchi "legali" per modificare i progetti e per ritardarne le conclusioni. Ovviamente, questo blocco parassitario ha tutta la convenienza a lasciare spazio a questa situazione e alla stessa criminalità organizzata. Così il denaro pubblico diventa una delle fonti principali dell'economia malavitosa. Con buona pace di chi è vittima di questo sistema: il Sud onesto e pulito.


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