Oreste
Macrì è universalmente riconosciuto come uno dei Maestri
del Novecento poetico italiano per aver dato vita, insieme con Bo, Gatto,
Traverso, Luzi, Bigongiari, Parronchi, Sereni, Sinisgalli ed altri,
alla "scuola" (1) ermetica della terza generazione diventandone,
con i suoi scritti teorici, la coscienza critica mentre la produzione
poetica dei suoi compagni di eteria ne fu lo specchio. Plasma fu, invece,
la concordia discors della parola lirica (ché "la tecnica
e l'ispirazione conversero a forme personali e assolute di canto")
(2) naturale estuario delle implicanze ideologiche, diversamente posizionate,
connesse alla teoresi e al dibattito alimentato dagli apporti critici
di Bo, che con Macrì fu il maggior teorico del movimento neosimbolista,
di Luzi (Momento dell'eloquenza, 1938), di Bigongiari (Solitudine dei
testi, 1938).
Eppure la stessa definizione di ermetico, che convenzionalmente e scolasticamente
si assegna al Salentino, non può essere esaustiva e congrua,
sia perché la sua estetica ha ampiamente varcato i limiti cronologici
che delimitano il movimento ermetico storico (1934-1943) (3) sia perché
egli ha rivendicato fin dal 1939 (4) una sua insularità (5) 5
nel complesso arcipelago della Pleiade neosimbolista al cui interno
assunse una posizione ideologica assolutamente autonoma e novatrice,
parallela ed eterodossa rispetto a quella del suo compagno di cordata
(e al pari di lui caposcuola) Carlo Bo, talché oppose allo spiritualismo
platonizzante di matrice agostiniana, alla poetica dell'assenza e al
conseguente misticismo di impronta sanjuanista dell'autore di Letteratura
come vita, la totalità dell'essere nelle sue componenti del "sangue
e dell'istinto [ ... ], primitive forze della natura" (6) esplose
dalla vita primeva e magmatica dell'uroboro nei "regni inferiori
dell'io" (7). Fra il 1937 (8) e il 1941 Macrì, non ancora
trentenne, fondava infatti la "critica degli archetipi" e,
attraverso il metodo comparatistico-generazionale (9), individuava gli
esemplari del sentimento poetico contemporaneo assegnando al Vico e
al Foscolo (10) il primato referenziale nella Poetica della Parola (11):
Tutta l'economia
della nuova tecnica si orienta decisamente verso una filologia pura,
della quale addito primo teorico Giambattista Vico che per primo intese
il lavoro sintetico e aprioristico del conato fantastico come facitore
di miti, che sono esse stesse parole significanti nella loro forma
spirituale [ ... ]. La stessa impersonalità dell'universale
fantastico vichiano ha una singolare analogia con quell'aura d'eternità,
di castità, di purezza, di avversità al dato empirico
[ ... ] che spira dai migliori testi di poesia del nostro tempo [
... ]. Il nome di Giove esce dai petti dell'umanità dianzi
ferina di Vico all'occasione del fragore celeste e la parola di Giove
è esso stesso mito Ma gli uomini ferini del Vico "avvertirono"
solamente il cielo tuonante [ ... ] e il loro conato fantastico si
risolse e si concretò nella parola mito [ ... ] il problema
della parola-mito nella poesia contemporanea [ ... ] si puntualizza
all'origine del miracolo linguistico [ ... ] in quanto atto indifferenziato
[ ... ] per mezzo di un elemento affatto estraneo alla facilità
e spontaneità della pura fantasia vichiana; cioè un
elemento logico e analogico insieme [ ... ] che incide lungo tutto
il percorso interiore e dona all'espressione finale [ ... ] splendore
visivo [ ... ]. Si delinea [ ... ] uno stato di grazia poetico barbaro
[ ... ] puro, come quello che ricerca e rievoca [ ... ] gli elementi
primordiali, preadamitici, i contatti arcaici con i regni inferiori,
le energie indifferenziate [ ... ]. (12)
Altresì
interna e organica al sistema dell'estetica macriana, radicata nella
Stimmung fiorentina degli anni Trenta ma non più riducibile
a fenomenologia dell'ermetismo per la sua autonomia e per i risultati
d'indagine ottenuti nell'arco di mezzo secolo, è anche la teoresi
delle 1 quattro radici" della poesia, sussunta la "statica
e inerte" psicologia junghiana (13) per essere proiettata e rigenerata
alle sorgive vichiane (14) , dove la funzione semica della Parola
precipita nell'unica realtà possibile alla poesia: il simbolo
sono convinto
che solo con uno spirito mimetico di lettura altrettanto agonico sia
possibile unificare i due linguaggi reale e simbolico [ ... ] della
superficie profonda del C(imitero) M(arino). [ ... ] E' l'esemplarità
del C.M., poema di frontiera, assillo e remora per chiunque abbia
cercato poi di retoricizzare e strumentalizzare la conversione al
Positivo, l'unica Realtà del simbolo che è la poesia.
(15)
La tetriade radicale,
in perenne e dialettico dinamismo fino alla sinergia egemone del significato
salvifico (4° radice) e della metamorfosi (3° radice) che
incorporano e neutralizzano la qualità del sacro (2° radice)
e la dimora vitale (la radice) nell'atto gestaltico (16) dell'"avventura
poematica" (17), è stata infatti mirabilmente sperimentata
ed esemplata da Macrì fin dal 1947 sul corpo semantico (iconico-noetico-patetico-verbale-fonico-metrico)
del Cimitero Marino di Valéry, archetipo culturale del neosimbolismo
al pari di Mallarmé, e poi assunta come esperienza centrale
nella sua lettura "agonica" di innumerevoli autori, da Foscolo
a Quasimodo a Landolfi (18), compresi i salentini Bodini (19) e D'Andrea
(20), ma l'area di estensione applicativa e gli studi di Macrì
abbracciano poeti e scrittori francesi, spagnoli, ispanoamericani,
tedeschi (Rilke, Benn in particolare), angloamericani (Poe, Pound,
Eliot) e classici greci e latini (Properzio oltreché Saffo,
Omero ed altri).
E se la dinamica della metamorfosi chiama in causa la sfera animica,
onirica, demonologica, il significato salvifico riposa nell'atto epilinguistico
del poeta che si ripiega sulla sua poesia ed "è presente
a se stesso" nel mentre "costruisce la propria opera pensata-
sognata-cantata e in essa si riflette" nell'avventura verso la
salvezza. (21)
Sincrona e complementare alla metodologia comparatistica e "radicale"
risulta la teoria della poesia ininterrotta" nel suo flusso seriale
(sentimento-musica-verbo) sicché una nuova funzione Macrì
assegna alla metrica che diventa semantica in quanto "significante
fonoritmico, non tanto analogico a una sonata o sinfonia, ma equipollente
alla fonte sentimentale e materica, cui la mente creatrice attinge,
elaborandola all'interno del significante [ ... ] sì che pare
che il corpo musicalverbale si sostanzi e si sviluppi per interiore
necessità di armoniche simpatie" (22) per cui nel metro
coabitano "tutti gli elementi e valori del significante portatore
del significato" (23). Macrì, nell'applicare la sua teoria
metrica fondata sull'alessandrino e sull' "arte mayor" spagnoli,
sull'endecasillabo spagnolo e italiano (24) ed estesa al "décasyllabe"
a minore del Cimitero Marino, innova la scansione e il sillabato ritmico,
finora asemantizzato, recuperando il modus latino e neolatino ("interezza
dei vocaboli"), restituendo centralità alla sillaba tonico-ritmica
in quanto semantema e radice di "valori congiunti e interagenti"(25)
(qualità = accento espiratorio; quantità = durata e
melodia; timbro e tonematicità), densificati "gli stati
armonici asemantici per risonanze interne della materia fonico verbale"
(26). Gli exempla più cospicui del sistema metrico macriano
sono offerti dalla 'lettura' dei Sepolcri e del Cimitero Marino in
cui alla metrica asemantica tradizionale egli sostituisce la metrica
semantica categorematica e fonosimbolica fondata sulla norma di un
continuum ritmico segmentale (27), (teoria del "discreto segmentato")
che va dall'unità elementare (il piede) alle unità complesse
(emistichio, periodo, strofa, sistema strofico), esibendone lo "spartito
ritmico" nella sua totalità (28).
Ma sugli assunti testé abbozzati si tornerà allorché
si tenterà di tracciare le linee essenziali della méthode
macriana - la cui complessità si sottrae, per quanto ci riguarda,
al progetto di una epitome organica - nell'introdurre il carteggio
che egli istituì con Corni, costituito da oltre quattrocento
lettere, attraverso le quali è possibile documentare il ruolo
determinante svolto da Macrì nella storia dei rapporti culturali
intercorsi fra Salento e Firenze negli anni 1940-1966 (29). Sarà
quella l'ultima tappa della nostra esplorazione condotta, pur nei
limiti di una iniziale ricerca, sul terreno ancora gravido e ferace
del documento (gli epistolari). Esso è il solo strumento abilitato
a conferire liceità alla storia dei nessi profondi e vitali
che legarono una piccola 'regione' alla vita ideale della Nazione,
ben oltre la misura delle sue possibilità geografiche epperò
nella continuità della sua tradizione culturale che dirama
dai poeti italo-bizantini, passa attraverso gli illuministi di Terra
d'Otranto, giunge fino a noi nei suoi esponenti (ed "esemplari")
novecenteschi: Macrì, Corni, Bodini, Pagano, nella sfera della
critica e della filologia lo stesso Macrì, Marti, Vallone e
in quella del romanzo Luigi Corvaglia.
In questa sede non ci occuperemo del Macrì critico, fondatore
di una estetica asistematica alternativa rispetto al modello crociano
egemone negli anni Trenta e Quaranta del Novecento in Italia, ma del
Macrì 'creativo', forse meno conosciuto e più 'raro',
sia per il carattere di attività a latere che codesta sua zona
implica, sia per lo pseudonimo Simeone che, datogli da Leone Traverso
(a sua volta detto Khane), cela ai non iniziati la sua vera identità,
sia per il 'silenzio' che egli stesso ha riservato ai suoi scritti
non teorici (molti gli inediti) quasi che non ne abilitassero il ruolo,
'alla pari' con la teoresi letteraria, la severa misura del giudizio,
la prudenza discreta, l'affetto meno risentito e profondo dell'Autore
nell'atto di misurarli con gli esiti speculativi e con la dimensione
planetaria della sua attività di critico. Ma non è così.
Lo spazio' creativo è l'altro volto di una stessa medaglia
ed appare solo estensivamente minore ma tanto più sorprendente
quanto meno sospettato di esistere. Una volta lo stesso Macrì
confessò, con la ben nota e usuale arguzia, in una intervista
rilasciata a La Stampa di Torino, di essere un narratore mancato solo
perché tutto quello che avrebbe voluto scrivere "lo scrisse
invece Landolfi" (30) e aggiungeva: "Per me la narrativa
deve avere due elementi: quello lirico di fondo e quello autobiografico-esistenziale",
enunciato che chiameremo in causa nello sviluppo del nostro discorso.
In realtà il critico non è altro rispetto allo scrittore
creativo la cui scrittura è anch'essa critica, dinamicamente
operante ed esperita in corpore vili, come egli stesso mi ha scritto
in una sua responsiva:
[ ... ] il mio
intento è di laboratorio in meo corpore vili; resto un critico
e il racconto fantastico serve all'uopo. (31)
Le prime prove
narrative di Macrì appartengono agli anni Trenta: si tratta
di cinque racconti giovanili (La lavanda dei piedi, 1934; Il filo
dell'uomo, 1936; Pedagogia, 1937; La madre, 1938; La milogna, 1939)
dei quali l'ultimo soltanto fu pubblicato negli anni di stesura, mentre
gli altri apparvero più tardi nell'antologia curata da Ferruccio
Ulivi ed Elio Filippo Accrocca Prosatori e narratori pugliesi del
Novecento (32). Altre prose ascrivibili al periodo giovanile sono
L'ora della lezione (33), Prosa per S. Cesarea (34), Fogli per i compagni
(35), Le ore di Parma / Le fanciulle / Dalla Cronica di un magliese
errante (36) (firmato con lo pseudonimo "Simeone").
Dalle "Notizie di Cursi"(37), Memorie su un agente segreto
(38), Incontro con Parma (39) (prosa memoriate conclusa da riflessioni
critiche sull'idillismo di Bertolucci e sull'Ulisse di Gianfranco
Carlevaro) che chiude il primo tempo dell'attività creativa
di Macrì all'interno della quale occupa un posto anomalo Fogli
per i compagni in cui egli traccia un primo consuntivo (fra autobiografia
spirituale ed empito speculativo e profetico) della stagione ermetica,
rivolgendosi agli amici fiorentini della 'sinistra' neosimbolista-agostiniana
i quali, nella ricerca tout-court della verità, avevano eluso
"ogni prestito dal visibile, dal fisiologico, dal cosmologico"
(40) per una platonizzante e asettica prospettiva di approccio all'Assoluto.
E qui egli rimarca la sua insularità rispetto a Bo, Luzi e
ai compagni di cordata ermetica "rapinati dalle occasionali inserzioni
dell'eterno e dell'assoluto nel vaneggiamento della donna amata o
nel fantoccio dello schermo [ ... ]. In queste condizioni [ ... ],
l'essere al limite del suo fenomeno diventa niente di reale e di discreto
e si risolve nel pallido riflesso della sua originaria entità"
(41). All'assenza e al "golfo d'attesa metafisica" di Bo,
alle occasionali inserzioni e ai vaneggiamenti dei compagni di "Campo
di Marte" egli oppone ancora una volta il concreto "dell'ora
quotidiana" e del "sangue", le pulsioni "preadamitiche"
degli elementi "primordiali", le energie del "senso"
vichiano che irrompono nella Parola-mito sprigionate dallo stadio
"prelinguistico" del regno inferiore "più accosto
all'atto primo del conato poetico" (42):
E' bene dirlo
una volta per sempre: non vi illuda, giovanissimi, il sottile e dorato
nudino di fiamma sulla pura linea dell'orizzonte marino. Per quanto
s'incendi e ceda tutta la sua qualità di luce alle zone che
sognereste e non vedrete, all'altro che è saturo della vostra
assenza rimarrà sempre qualcosa: quello che dapprima vi è
stato donato, dell'unica natura che è pure la vostra. [ ...
] Questo avevo capito dei compagni: l'assoluta fedeltà a un'estrema
figura mai tradita dal suo mutamento in simbolo. (43)
Ma occorre tornare
all'attività creativa, per così dire, ortodossa: dei
cinque racconti del periodo in esame, il più significativo
per implicanze amicali e letterarie, come documenteremo, fu la Milogna
che apparve sul "Tesoretto" (Almanacco delle Lettere) (44)
nel 1939. Il racconto, scritto nel '38, segnava il vero esordio di
Macrì narratore (come si ricorderà gli altri quattro
che lo precedettero furono pubblicati più tardi) e fu salutato
da un "evviva" di Alfonso Gatto in calce a una sua lettera
inviata il 24 luglio 1938 a Macrì (45) (controfirmata da Quasimodo,
Montale, Parronchi e Pratolini) (46) che era ritornato a Maglie per
insegnare al "Capece" (47), prima i raggiungere Parma, dopo
i quattro anni (1934-1938) di docenza presso il Ginnasio delle Scuole
Pie Fiorentine. Ma non inganni l'effusione gattiana che è luciferina.
Inserita in un contesto giocoso
Prof. Oreste Macrì
/ Maglie [ ... ] La vostra esperienza in materia di pittura, nonché
il Vostro umor filosofico vi aiuteranno a capire la cartolina e a
"chiarirla" com'è vostra tradizione [ ... ] (48)
ha il tenore di
una fraterna e goliardica "persecuzione" ordita, all'indirizzo
del Salentino "rimpatriato", dalla brigata degli amici fiorentini
capitanati da Gatto, al quale, fra l'altro, Macrì e
Spagnoletti avrebbero poi "rapito" un paio di scarpe facendone
oggetto di giocoso mercimonio, nonostante le feroci diffide del Salernitano:
Caro Macrì
(49), ti scrivo non per ragioni letterarie o critiche com'è
costume di voi altri, ma per ragioni di economia e di "onore".
Qui a Roma ho visto ai piedi dello Spagnoletti quelle mie scarpe che
io vendetti a te per 50 lire (50) senza mai riscuoterle. Ho costretto,
con la forza e l'abilità che mi sono proprie, lo Spagnoletti
a confessarmi di aver versato a te lire 150 per acquisto delle "mie"
scarpe. Non sapevo che tu fossi così abile e così "chiaro"
nei tuoi commerci. Prima di affidare la faccenda alle mani di un legale
ti prego di inviarmi subito a Salerno [ ... ] le 150 lire che hai
riscosso indebitamente lo sono povero [...] e tu ricco e poco "esemplare"
(51). Ti saluto cordialmente ancora
tuo Alfonso Gatto
La vexata quaestio,
si fa per dire, delle "scarpe rapite" occupa un breve ma
concitato carteggio fra Macrì e Spagnoletti, soffuso di esilaranti
ludibri, diffide, intimazioni nonché di citazioni testimoniali
che coinvolsero gli ignari e innocenti Pratolini e Ulivi:
Carissimo Oreste,
[ ... ] lo scherzo delle scarpe mi ha dato il modo di ridere alcuni
giorni in compagnia di Pratolini e di sogghignare d'altra parte all'indirizzo
del poeta del Golfo [scil. Gatto] il quale si macera e vuole soddisfazione
legale [ ... ]
Ciao [ ... ] Giacinto (52)
Questi rapidi
flash epistolari bastino a dare la misura del clima, cui accenna Macrì
a proposito della 'fortuna' toccata alla Milogna, che caratterizzò
quegli anni di cui si indovinano, attraverso le lettere, gli aspetti
ludici sottesi, a mo' di metafisica, a quell'ambiente letterario fiorentino
così ascetico, aristocratico e severo nella sua veste teoretica.
In siffatto contesto va letta la ,memoria' macriana relativa al racconto
in parola:
La Milogna fu
almeno allora un celebre mio racconto in un almanacco milanese (53)
che suscitò, modestamente, l'invidia di Tommasino Landolfi,
il quale mi scrisse sprezzantemente: "Trattasi in fondo di un
vile tasso-cane" (54). Poi smisi quasi di pubblicare racconti,
giacché i miei compagni fiorentini, nonché solariani,
erano negati a qualunque humour sui piani bassi e vicoli della poesia
narrativa, e anche perché Landolfi li stava scrivendo al Mio
posto. (55)
Trattasi, naturalmente,
di invidia giocosa, ché sui fraterni rapporti che unirono Landolfi
e Macrì fanno luce le pagine che il Salentino ha scritto presentando
il suo recente volume sull'autore del Mar delle Blatte, in cui rievoca
l'amicizia "conventuale [ ... ] tra il San Marco e le Giubbe
Rosse, fuga e 'ricetto' dalla polis iniqua in quella zona franca fiorentina"
(56). Ma significativa è la motivazione che Macrì adduce
circa il suo, successivo, 'silenzio' creativo: l'assenza di humour
nei sodali fiorentini.
Abbiamo, così, le prime coordinate dell'ideale narrativo del
Nostro; lirismo di fondo, autobiografismo esistenziale, umorismo.
Le ritroveremo applicate ai due racconti che segnatamente prenderemo
in esame, Schibalopoli e Mister Trascendental, gli ultimi (ma ci auguriamo
che la serie continui) dell'insigne Maestro, vitalissimo e fecondo
come nella sua giovinezza. Prima, però, è necessario
scoprire un altro aspetto, forse ancor più sorprendente e malnoto,
dello spazio creativo di Oreste Macrì: la poesia.
Esplorando i fogli dell'Album in cui venivano verbalizzate le sedute
letterarie della comiana "Accademia salentina", mi occorse
di imbattermi in un sonetto, manoscritto e firmato dallo stesso Macrì,
corredato della data e del luogo di composizione: Montesano Salentino
1940. Autorizzato dall'Autore, ne pubblicai il testo nel mio 'asterisco
comiano' L'Accademia salentina attraverso inediti (57) riservandomi
di curarne l'esegesi in uno spazio più pertinente ed esclusivo
qual è quello che ora riserva il tema del presente intervento,
sicché, unico esemplare edito (58), lo riproponiamo al lettore
per poi tentarne la lettura in modo "attivo e interessato":
Altra notte.
Veloce la pianura
ha spento le cicale. Un seme arguto
fiorisce sull'inane onda matura
dei grani gialli, e cala il gregge muto
delle nubi
di Puglia, e già s'indura
la collina ferace e il cielo astuto
vanissimo nel giro senza mura.
Un corno dai pagliai sibila acuto.
Ma sentirai,
fra tanto esiguo lume,
quant'arde nelle crete di Messapia
l'elemento del male domo al gioco
delle squallide
conche, delle dune,
dei greti, onde è palese quanto sappia
toccare questo lungo canto roco.
La prima riflessione
che suscitano questi versi è che in essi si ravvisa per la
prima volta, in senso assoluto (furono scritti, lo ricordiamo, nel
1940), l'archetipo della dimora vitale salentinaorganica alla linea
poetica della terra "materna e seminale" che collega tre
'generazioni': la prima mi sembra che si possa individuare negli 'esemplari'
Macrì e Bodini, la seconda in Gatti (che anagraficamente appartiene
alla prima ma approda alla poesia tellurica, in un tempo successivo
rispetto agli archetipi culturali sopra citati), De Donno e Caputo,
la terza in D'Andrea e Romano. Non sembri artificioso il nesso Macrì-Bodini:
è indotto dal fatto che cronologicamente si deve assegnare
la primogenitura del canto della terra di sangue, con sentimento nuovo
d'esilio e di perdita, e dei suoi connotati animici e vitali al sonetto
macriano che, se anche non pubblicato, rappresenta l'abbrivo ideale
e l'archetipo figurale dell'ecumene veterosalentina, primeva patria
dell'anima e luogo della memoria, terra "satura di pianura, case,
grotte, mestieri, vegetali, animali [ ... ] stregonerie e magie"
(59) che infoltiranno le bodiniane Foglie di tabacco (1945-'47), prima
sezione della Luna dei Borboni. Sentimento di perdita e di lutto che
nutrì la stagione ermetica degli 'esuli' Quasimodo, Gatti,
Sinisgalli ('esemplare' Leonida di Taranto) e che in Bodini si allerta
con Tu non conosci il Sud (1945) con cui si apre la citata sezione
nella quale lo stesso Bodini volle sottolineare l'identità
dell'oikos, escludendo dalla seconda edizione (1962) La pianura di
rame e Vecchi versi - I (1939-'41), presenti nell'edizione del'52,
che "appartenevano più al generico linguaggio di quegli
anni (60) che a lui" (61). Dal sonetto di Macrì si diparte
la nuova poesia del Novecento salentino ove per salentinità
si intenda non una delimitazione meccanicamente empirica e geografica
ma una categoria, una condizione spirituale di frontiera e di margine.
Verrebbe da dire che Bodini (come Landolfi nella narrativa) scrisse
forse quello che Macrì avrebbe voluto scrivere, sicché
ancora una volta il critico magliese-fiorentino sembra aver deputato
ad altri il ruolo creativo per riservare a se stesso il sentiero della
critica militante "forte di una preparazione filosofica invidiabile
e di una 'terrestrità' meridionale che fa di lui per molti
versi un contrappunto perfetto allo spiritualismo 'nordico', tutto
débat interiore, del ligure Bo" (62).
Il sonetto di Macrì si offre a segno di una condizione esistenziale
ancipite: fuga e ritorno si dialettizzano nella Ubertragung dell'eros
edipico alla terra madre, tradita e ritrovata come antico Eden, isola
della memoria e luogo della "durata". Il Salento si fa archetipo
e figura: i connotati geomorfi sono assolutizzati in simboli di una
realtà noumenica, trascendentale, metafisica e si attua un
processo metamorfico per il quale si semantizzano non le cose ma l'essenza
acrona e immobile delle cose, non la realtà storica ma il suo
carattere pitagorico, mitico, sacrale, iconizzato dalla diaspora di
semantemi e sintagmi nelle seguenti zone: vitale (crete, collina,
conche, dune, greti), animica (cicale, greggi, sibila, seme, grani),
noetica (seme arguto, inane onda, gregge muto, vanissimo giro, ferace,
astuto, acuto, esiguo, Messapia, male, squallide, palese, lungo, roco),
iconica (corno, cielo, onda, grani gialli, pagliai, lume, arde), patetica
(toccare), verbale-sinestetico-analogica (la pianura ha spento le
cicale; seme arguto; il gregge delle nubi; il cielo astuto) e più
estesamente simbolica ("elemento del male" allusivo del
fuoco che nella dinamica della metamorfosi chiama in causa la zona
demonologico-funeraria-infernale).
La più antica lirica di Bodini che si iscriva nell'ambito tellurico-materno
mi sembra che sia Viaggio per altri inverni, degli anni 1940-'44,
dedicata proprio a Macrì con il quale aveva condiviso il contubernio
redazionale della pagina letteraria di "Vedetta" con indosso
il laticlavio ermetico (poi smesso (63) e 'rinnegato') dopo la giovanile
esperienza futurista. Si registra in Bodini e Macrì una consonanza
sentimentale, nei confronti della terra materna, e simbolica (si osservi
nella citata lirica bodiniana la medesimezza dei tratti iconico-animici
del Salento: nuvole sonore, ragni bianchi, la ficaia, il fogliame
di corvi, le vigne, i tralci amari / che dicembre ingemma di chiocciole)
che forse germina da un travaglio storico e spirituale sotteso al
contrasto fra l'identità primeva della dimora larica e tellurica
e la sua imminente metamorfosi (dalla facies arcaico-georgica a quella
anodino-industriale) e alla scoperta del Sud come patria genesiaca
e vitale, scoperta che in Bodini è contestuale, se non lievemente
seriore, rispetto al sonetto macriano. Sono gli anni del dilucolo
della nuova poesia del Salento calcinato, tufaceo reliquiario "simbolo
negativo [ ... ] di una immobile continuità feudale" (64)
che si dialettizza col suo 'positivo' fino ad estendersi "ben
oltre i confini mediterranei a rappresentare una condizione di vita,
sottesa di ragioni storiche ed esistenziali" (65)sicché
il denotante elemento verista si trasvaluta e si sublima nel segno
allusivo del simbolo.
Nel sonetto di Macrì, vero e proprio archetipo di una linea
generazionale la cui dinamica non è empirica 'aggregazione'
ma funzione "in senso immanente alla struttura del fatto letterario"
(66), vi è poi un carattere tutto autonomo che riposa nel sentimento
materico del mistero della sera e sua ambiguità 'purgatoriale'
semantizzata dalla metamorfosi dello spazio vitale nell'ora in cui
"vacilla il giorno". Il paesaggio si anima di forme e figure
invisibili e arcane quasi ombre di trapassati: ne sono proiezione
simbolica il gregge m uto delle nubi, il cangiamento della pianura,
i grani (simbolo sepolcrale eucaristico), l'invisibile suonatore del
corno che sibila acuto come segno "d'un mondo lungi dal dì",
il canto roco, adespota e lontano. Fra i segni di un demonismo (3°
radice) arcaico, egemone èil corno, oggetto di pregnanza magico-apotropaica
ascrivibile all'area della "qualità sacrale" (2°
radice), evocatore di elfi larici convocati per il saluto alla sera,
messaggera premonitrice della sacra notte e del suo mistero. La metamorfosi
serotina della pianura estiva (dai "grani gialli" e dalle
"cicale" si indovina il giugno maturo) umanizzata ("ha
spento") predispone l'immergersi del poeta e della sua donna
(67) nel circolo infinito (il cielo senza mura) vago e indistinto
delle ombre. In questa zona misterica di un'attesa metafisica - 'esemplari'
di codesto sentimento Saffo del fr. 120 Diehl, Dante di Pg. VIII,
Foscolo del sonetto Alla sera, Pascoli (La mia sera), D'Annunzio (La
sera fiesolana) - il risentirsi profondo dell'io che si riconosce,
nella sua essenza vitale e segreta, partecipe di un'umile vita universa
nella quale si confonde e profonda, intuendone la realtà ineffabile
che la sola parola, emergente dai "regni inferiori" del
senso 'vichiano', può attingere e illuminare mediante la forza
del simbolo. In questa comunione estatica (discreta e silente la figura
femminile) i segni iconici turbinano con rapida ed analogica successione
sul binario spazio-tempo, epifanizzando il senso dell'attesa e la
sua sacertà. E' l'animo del poeta conquiso dal mistero della
notte e del tempo di cui senti materializzarsi la fuga nelle arcane
e subitanee dissolvenze delle forme che sdrucciolano nel ritmo tremulo
e nella struttura prevalentemente paratattica del periodo, nel semantematico
asindeto della prima strofa e nel succedaneo polisindeto (e cala /
e già / e il cielo), cui è commessa la funzione di semantizzare
il maturarsi dell'evento arcano, fiancheggiati dai connotatori temporali
altra, veloce, già, fino all'elemento 'completivo' terminale
sentirai allo snodo strofico del nono verso. In quell'aura di sospensione,
di trepida attesa di un Nume (la Notte), di vaghe e latenti simpatie,
l'annuncio del corno, arcaico olifante fittile di sanculotti salentini
"senza infanzia né memoria", sembra fissare la frontiera
fra le quartine denotative (del paesaggio e dell'evento) e le terzine
in cui campeggia invisibile, novella Leuconoe, la donna (sentirai)
iniziata alle Il mitologie contadine" e ai riti della pitagorica
terra del rimorso (le crete dei Messapi) immobile nel suo millenario
animismo vegetale, animale, inorganico, demonico. La seconda zona
del sonetto (le due terzine) è tutta trascorsa da stupore oblioso
ed assorto, da trasalimenti e risonanze interiori che l'ecoscandaglio
della parola registra nelle abissali profondità dell'anima
penetrata dal sibilo acuto, inebriata dalla voluttà di una
panica comunione col paesaggio, rapita e sospesa nello spazio infinito
del cielo "vanissimo", brecciate e dissolte le lucreziane
moenia mundi.
Alla metamorfosi animica delle prime due strofe 'corografiche' fa
eco la stasi iconica della terra millenaria, medesima nelle conche
e nelle dune (le sabbie degli Alimini) mentre all'onda sonora di un
canto "lungo" e "roco" (dantismo, cfr. Pg. V,
27) l'uomo e la donna, di vita notturna viventi, s'annullano misticamente
nel palpito d'ombre di una realtà orfica che in sé sigilla
le ragioni della vita le quali disserra e sussume nella sfera del
simbolo soltanto la tolstojana intelligenza del cuore.
Una musica verbale allusiva e contesta di fricative e di liquide si
sposa alle semantematiche cadenze giambico-anapestiche del ritmo metrico-sintagmatico
e semantizza la veloce metamorfosi del tempo e dello spazio: alla
discendente agoghé trocaico-dattilica del falecio (l'iniziale
endecasillabo a minore
succede in chiave
dominante, fondendosi la sillaba iniziale con la clausola del verso
precedente in un continuum melico, l'ascendente agoghé giambico-anapestica
del successivo sviluppo versale organico, con l'inarcatura degli enjambements,
alla semantizzazione della rapidità metamorfica dei connotati
cronotopici. Ricorre, infatti, la struttura di base del trimetro giambico
catalettico in syllabam
negli endecasillabi
2°, 3°, 4°, 5° (dipodia anapestica iniziale), 6°
(idem), 7°, 8°. 9°, 10°, 11° (anapestica la base),
12° (dipodia anapestica iniziale), 13°, 14° acquistando
valenza iconica di significante.
Alla fine, il mistero è "sensibile", lo spazio e
il tempo sottratti alla dimensione fisica e liricizzati, assunti dalla
sintesi e metabolizzati nell'a priori dalla forza evocativa e taumaturgica
della parola, mallarmeanamente rappresa "en sa solitude, en sa
vibration fragile, en son néant" (68).
(1 - continua)
NOTE
1) Uso il termine solo per empiriche ragioni di sintesi, essendo consapevole
che la sua specifica valenza semantica èdiscutibile in riferimento
all'ermetismo o al crepuscolarismo o al futurismo ove si consideri
unitaria e lineare, pur nella sua diversità, la morfologia
letteraria del Novecento italiano. Sul problema cfr. D. VALLI, Storia
degli ermetici, Brescia, La Scuola, 1978, p. 57: "[ ... ] Quest'incontro
[ ... ] non è di per sé sufficiente a far considerare
l'ermetismo come una 'scuola' [ ... ]. E' chiaro che non possiamo
pensare alla storia letteraria del Novecento come a un succedersi
di scuole contrapposte, con programmi ben definiti e chiusi in se
stessi, pena la distruzione dello spirito unitario e progressivo di
questo [ ... ] secolo. Lo svolgimento della nuova letteratura, dai
vociani agli ermetici, ha una sua linearità, una sua progressione,
una sua continuità". Fondamentale risulta, all'uopo, quanto
scrive Macrì in ordine alle fonti della nuova poesia: O. MACRI',
Sulle fonti della nuova poesia, in ID., Caratteri e figure della poesia
italiana contemporanea, Firenze, Vallecchi, 1956, pp. 15-19.
2) O. MACRI', L'insorgenza e la qualità del "canto",
in Caratteri ecc., cit., p. 20.
3) La delimitazione cronologica è puramente convenzionale e
scolastica poiché non tiene conto della complessità
del movimento e della difficoltà di indicarne genesi e morte.
Quanto all'atto di nascita dell'ermetismo, più che il 1936
(anno del saggio eponimo del Flora) o il 1938 (Letteratura come vita
di Bo) mi pare più proprio indicare la data del 1934 nella
quale apparve l'articolo di Bo Riconoscenza alla poesia in cui si
riconoscono i prodromi della teoresi ermetica.
Sul critico ligure e sulla sua teoresi cfr. G. LANGELLA, Poesia e
conoscenza nella teoresi ermetica di Carlo Bo - Tra Juan de la Cruz
e il Novecento francese, in "Testo", n. 20, 1990, pp. 113-145
e in particolare p. 116.
4) Cfr. O. MACRI', Intorno ad alcune ragioni non formali della poesia,
in "Letteratura", 1939, n. 11, pp. 141-153 poi in apertura
di ID., Esemplari del sentimento poetico contemporaneo, Firenze, Vallecchi,
1941, in quanto manifesto della "macritica" (il termine
fu coniato da Gatto e dagli altri esponenti della 'sinistra') in cui
l'Autore offre il filo ermeneutico della sua teoresi al lettore e
polemizza con Carlo Bo, cui il saggio è indirizzato, recuperando
le vichiane regioni del "senso" contro il silenzio, l'assenza
e il primato dello spirituale che pregnano la riflessione del critico
ligure negli anni 1934-'38: cfr. C. BO, Riconoscenza alla poesia,
in "Frontespizio", VI, n. 1, p. 9 e ss., ID., Natura della
poesia, in "Campo di Marte", I, 1938, poi in ID., L'assenza,
la poesia, Milano, 1945, pp. 75-79, ID., Dell'attesa come voce inattiva,
in "Campo di Marte", 1939, n. 9, poi in L'assenza ecc.,
cit., pp. 81-86. Su Bo si vedano almeno A. NOFERI, Carlo Bo: la critica
come misura di verità, in Le poetiche novecentesche, Firenze,
1970, pp. 137-148, D. VALLI, op. cit., pp. 93-95, E. BIAGINI, La letteratura
e lo spirituale: il "primo tempo" di Carlo Bo, in "Paradigma",
1982, 4, pp. 7-49, G. LANGELLA, Poesia e conoscenza ecc, cit., pp.
113-145.
5) Cfr. O. MACRI', Fogli per i compagni, in "Letteratura",
1941, n. 17, p. 22 e ss.
6) O. MACRI', Altre notizie su idoli e scene, in Esemplari ecc., cit.,
p. 294.
7) O. MACRI', La poetica della parola e Salvatore Quasimodo, in S.
QUASIMODO, Poesie, Milano, "Primi Piani", 1938, poi in ID.,
Esemplari ecc., cit., p. 137. Sul Quasimodo "macriano" si
veda anche il saggio recenziore ID., Quasimodo dalla 'poetica della
parola" alle "parole della vita", in ID., La poesia
di Quasimodo, Palermo, Sellerio, 1986, pp. 21-278. Alle pp. 281-313
la terza edizione de La poetica ecc., cit.; a p. 284 è riportato
il passo da me citato. Per la Poetica si farà riferimento,
d'ora in poi, a quest'ultima edizione che sarà citata con sigla
PQ.
8) Cfr. O. MACRI', Poesia e mito nella filosofia di Giambattista Vico,
in "Archivio storico della filosofia italiana", VI, 1937,
3, pp. 257-282 (vi riprende alcuni assunti esposti nella sua tesi
di laurea Il problema estetico in G. Vico, Firenze, 5 novembre 1934,
relatore E. P. Lamanna) e ID., Poesie di Cardarelli, in "Frontespizio",
n. 10, ottobre 1937, pp. 790-798, poi in Esemplari ecc., cit., col
titolo L'Umschlag della rettorica (il primo saggio di lettura critica
"ermetica" che Macrì scrisse, dopo le sue Considerazioni
sulla poesia di Montale in "Convivium", dicembre 1936, in
Esemplari col titolo Dell'analogia naturale, ove sostiene l'identità
di poesia e conoscenza accanto a C. Bo). All'interno del quadriennio
'37-'41 si segnalano, fra gli scritti teorici, oltre a La poetica
ecc., cit., ID., Del concetto di letteratura, "Il Bargello"
del 13.11.1938, p. 3; ID., Difesa della poesia, in "Corrente"
del 15.6.1939, p. 2; ID., Intorno ad alcune ragioni ecc., cit. (in
cui espone le sue consonanze e dissonanze rispetto a Letteratura come
vita di Bo); ID., Della grazia sensibile, in "Corrente"
del 15.5.1940, p. 3 (sulla poesia di Betocchi) e, finalmente, ID.,
Esemplari ecc., cit.
9) Cfr. O. MACRI', Varia fortuna del Manzoni in terre iberiche (con
una premessa sul metodo comparatistico), Ravenna, Longo, 1976; ID.,
Il Foscolo negli scrittori italiani del Novecento. Con una conclusione
sul metodo comparatistico e un appendice di aggiunte al "Manzoni
iberico", Ravenna, Longo, 1981 e ID., Risultanze del metodo delle
generazioni, in Caratteri e figure ecc., cit., pp. 77-89. Sul metodo
comparatistico di Macrì, cfr. G. CHIAPPINI, La metodologia
comparatistica di Oreste Macrì, in "Sallenturn",
IV, n. 3, 1981, pp. 33-62 e A. DOLFI, Macrì e il metodo comparatistico
in ID., In libertà di lettura, Roma, Bulzoni, 1991, già
in "Itinerari", 1981, 1-2, pp. 273-281 col titolo La scienza
delle "tracce". Macrì e il suo metodo comparatistico.
10) Sull'"esemplarità" foscoliana oltre a Il Foscolo
ecc., cit., si veda anche O. MACRI', Mitopoiesi delle "Grazie"
e confronto coi "Sepolcri", in ''L'albero'', XXVI, n. 57,
1977, pp. 29-51 e ID., Semantica e metrica dei "Sepolcri"
del Foscolo, Roma, Bulzoni, 1978.
11) Nella mistica della parola essa si fa "notazione simbolica,
aspetto terreno dell'idea, segno del concetto, segno dell'individuale,
voce evocativa dell'immagine", O. MACRI', La poetica ecc., in
PQ, p. 290.
12) Ibidem, pp. 283-284.
13) Cfr. O. MACRI', Un Vico ultraromantico, in "L'Albero",
III, 1950, p. 26.
14) Sull'argomento cfr. ID., L'arte nella psicologia di C. G. Jung
con un riguardo al Vico, in "La Ruota", aprile 1943, pp.
110- 116.
15) O. MACRI', Il Cimitero Marino di Paul Valéry, Firenze,
Le Lettere, 1989, p. 162. La prima edizione apparve nel 1947 (Firenze,
Sansoni), ma la stesura risale al 1945 (cfr. ibidem, p. 7). Mio il
corsivo.
16) Sul concetto di Gestalt, oltre alla citata opera di Macrì,
si vedano gli studi di V. SkIovskij.
17) O. MACRI', Il Cimitero Marino ecc., cit., p. 169.
18) O. MACRI', Tommaso Landolfi / Narratore poeta critico artefice
della lingua, Firenze, Le Lettere, 1990.
19) Dei numerosi scritti di Macrì su Vittorio Bodini si veda
almeno O. MACRI', Introduzione a V. B., Tutte le poesie 1932-1970,
Milano, Mondadori, 1983, pp. 5-71 e in particolare, sulla tetriade,
pp. 46-49.
20) O. MACRI', Lo "spazio domestico" di E. U. D'Andrea,
in "L'Albero", XVII, n. 48, 1972 (n.s.), pp. 99-114.
21) O. MACRI', il Cimitero Marino ecc., cit., p. 166. Nella quarta
radice "la soluzione integrale epilinguistica del ripiegamento
del poeta sulla propria materia verbale-scrittoria in lirica contemplazione
di fronte alla natura del proprio principio poetico", ID., La
poesia di Quasimodo, cit., p. 30. Sulla tetriade e sua applicazione
si veda anche ID., Il "canto hermético" di Garcìa
Lorca, in AA.VV., Dialogo, Studi in onore di L. Terracini, a cura
di I. Pepe Sarno, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 327-342, in particolare
p. 333.
22) O. MACRI', Il Cimitero Marino ecc., cit., p. 95.
23) Ibidem.
24) Ibidem, p. 35.
25) Ibidem.
26) Ibidem, p. 74.
27) O. MACRI', Semantica e metrica ecc., cit., p. 238.
28) Su questi aspetti si vedano ibidem i capp. V (Principi grammaticali
e metrici), VI (Teoria dell'endecasillabo) e ID., Il Cimitero Marino
ecc., cit., cap. III (Struttura metrica e fonosimbolismo). Sulle applicazioni
estese ad altri autori cfr. Semantica e metrica ecc., cit., p. 227,
nota 62. Fondamentale anche O. MACRI', Ensayo de métrica sintagmatica,
Madrid, Gredos, 1969.
29) Le estremità cronologiche del periodo sono determinate
dalla nascita della pagina culturale di "Vedetta Mediterranea"
e dall'estinzione del "Critone". Tale arco di tempo costituisce
una straordinaria fase congiunturale nella storia della cultura e
della poesia nel Salento.
30) Cfr. L. GATTESCHI, Per quarantacinque anni ho esplorato il pianeta
Machado / Parla Oreste Macrì lo studioso italiano che ha curato
per la Spagna l'edizione critica del poeta, "La Stampa"
(Tuttolibri) dell'1.4.1989, p. 5.
31) Lettera dell'8.6.1992.
32) Bari, Adriatica, 1969, pp. 215-218.
33) In "L'Almanacco dei Visacci", Firenze, Vallecchi, 1938,
pp. 119-120.
34) In "Corrente" del 15.5.1939, p. 3.
35) In "Letteratura", n. 41, 1941, pp. 22-27.
36) In "La fiamma" dell'1.7.1942, p. 27.
37) Ivi, 28 febbraio 1942, p. 24.
38) In "Prospettive", n. 37 del 15.1.1943.
39) In "Gazzetta di Parma" del 2.4.1946 poi in O. M., Caratteri
e figure ecc., cit., pp. 283-287.
40) O. MACRI', Fogli ecc., cit., p. 22.
41) Ibidem, p. 23.
42) O. MACRI', La poetica della parola ecc., cit., in PQ, p. 284.
43) O. MACRI', Fogli per i compagni, cit., p. 26.
44) Milano, "Primi Piani", 1939, pp. 180-182.
45) Cfr. O. MACRI', Lettere ecc. di Alfonso Gatto - Afò - Affò
a Macrì - Oreste - Simeone con l'"Obelischeide" complice
Vittorio Pagano, in "Lingua e letteratura", n. 7, Nov. 1986,
p. 13.
46) Sul sodalizio Macrì-Pratolini si vedano, per i riferimenti
agli anni in parola, le lettere che Pratolini inviò a Macrì,
recentemente pubblicate in Vasco Pratolini tra immagini e memorie,
Catalogo a cura di C. CHIESI, Firenze, Gabinetto Nieusseux",
1992, pp. 11- 14 ed ancora Lettere di Vasco Pratolini a Oreste Macrì
in appendice a V. PRATOLINI, Romanziere di "Una storia italiana",
Firenze, Le Lettere, in corso di stampa.
47ù) Così è ricordato da Macrì quel periodo
di temporaneo "rimpatrio" salentino: "In quel tempo
ero adiratissimo; ero stato costretto ad abbandonare Firenze e le
Giubbe Rosse per via d'un maledetto concorso vinto e [ ... ] m'ero
ridotto nell'antica e buia stanzetta nativa a covare il pandemonium
japigio e le future sorti dell'ermetismo. Pensavo di dovermene rimanere
per sempre", in O. MACRI', Incontro con Parma, cit., Caratteri
ecc., cit., p. 283.
48) Cfr. O. MACRI', Lettere ecc., cit., ibidem.
49) Ibidem, p. 17.
50) Mio il corsivo.
51) E' un riferimento giocoso alla teoria macriana degli 'esemplari',
termine eponimo del volume più volte citato.
52) Ibidem, p. 18. Lettera (del 13.8.1942) di Spagnoletti a Macrì.
53) Cfr. nota 44.
54) Il riferimento riguarda, ovviamente, l'argomento del racconto.
55) O. MACRI', Lettere ecc., cit., p. 13.
56) O. MACRI', Tommaso Landolfi ecc., cit., pp. 9-10. Ma anche in
ID., Ricordo di Eugenio Montale "fiorentino ","La Fortezza",
II, 2, 1991, p. 19: "Le Giubbe Rosse [ ... ] erano una sorta
di convento letterario secondo quella "religione delle lettere"
che Renato Serra ci aveva trasmesso Per la nostra gioventù
inerte non c'era altro spazio d'anime fraterne".
57) In "Sudpuglia", 2, 1991, p. 114.
58) Ho appreso da Macrì che altre sue liriche stagionano nel
cassetto degli inediti. Sue poesie "occultate" in prosa
stanno in O. MACRI', Dell'Amore (Alcuni paragrafi), in "Incontro",
10.5.1940, p. 4 e ID., Dell'Amore, in "Letteratura", 1941,
pp. 66-69.
59) O. MACRI', Introduzione a V B., cit., p. 46.
60) Il riferimento attiene agli anni 'ermetici'. Sull'argomento cfr.
A. L. GIANNONE, Bodini prima della "Luna", Lecce, Milella,
1982, in particolare pp. 41-66.
61) V. BODINI, Preliminare, in ID., Tutte le poesie ecc., cit., p.
90.
62) G. LANGELLA, L'essere e la parola - La stagione ermetica di Macrì,
in "Studi novecenteschi", XVII, 40, dicembre 1990, p. 308.
63) Fa fede la polemica che si accese fra Macrì e Bodini nei
primi anni Cinquanta. Cfr. V. BODINI, Quarant'anni di poesia, in "L'Esperienza
poetica", 1, gennaio-marzo 1954, pp. 17-30 in cui B., recensendo
l'Antologia di Anceschi e Antonielli, aveva punzecchiato Macrì
accusandolo di chisciottismo per essere rimasto fedele alla generazione
ermetica di cui "credeva" che potessero "persistere"
esperienza e definizione "col semplice mutamento d'etichetta
in quella di neosimbolismo", p. 24. Pronta la replica di Macrì
(cfr. O. MACRI', Di un complesso "generacional", in Caratteri
e figure ecc., cit., pp. 406-411): "L'ultimo caso di evasione
dal corpo e dall'anima della anzidetta generazione è quello
di Vittorio Bodini. [ ... ] Se altri esiste, che si è scaldato
e pasciuto al cibo e al fuoco di quegli anni, che per l'esperienza
ermetica [ ... ] s'è macerato e l'ha perfino diffusa in provincia
e all'estero, è questi proprio Bodini. Il cui ultimo esito
poetico concresce senza soluzione sulle prime prove", p. 407.
Replicò a sua volta Bodini al "Capo del Personale ermetico"
che si assumeva "il compito di fare il cane da pastore del gregge
ermetico" contro i transfughi (leggi Quasimodo) o presunti tali:
"[ ... ] Nella nostra presente inimicizia fraterna [ ... ] dirò
non per fargli dispetto, né per modestia, ma solamente per
ristabilire le proporzioni, che nell'esperienza ermetica io fui un
personaggio di terzo e persino di quarto ordine", V. BODINI,
Risposta a Macrì, in "Esperienza Poetica", 3-4, luglio-dicembre
1954, p. 77 e ss. La controreplica di Macrì non tardò
ed estese il campo del dibattito al metodo delle generazioni e all'antologismo:
O. MACRI', Chiarimento sul metodo delle generazioni, in Realtà
del simbolo, Firenze, Vallecchi, 1968, pp. 465-472, già in
"Il Caffè politico e letterario", maggio 1955, pp.
23-24 con lo stesso titolo.
64) Cfr. M. DELL'AQUILA, Bodini e una linea nuova della poesia, in
AA.VV., Le Terre di Carlo V, a cura di O. Macrì, E. Bonea e
D. Valli, Galatina, Congedo, 1984, pp. 65-66.
65) Ibidem, p. 63.
66) O. MACRI', Chiarimento ecc., cit., p. 466.
67) Figura referenziale e invisibile è Albertina Baldo, torinese,
futura consorte di Macrì, in quel tempo sua collega, giunta
nel Salento per la prima volta.
68) Sul néant della poesia cfr. A. ONOFRI, Tendenze, in "La
Voce", VII, 15 giugno 1915, pp. 723-730. Sul tema mallarmeano-onofriano
così scrive D. VALLI: "Questo niente è una sorta
di assenza attiva [ ... ]: una condizione grazie alla quale la realtà
si spiritualizza, diventa fatto di poesia". In D. VALLI, Vita
e morte del "frammento" in Italia, Lecce, Milella, 1980,
pp. 10- 11.