§ Fra Salento e Firenze

Lo "spazio" creativo di Oreste Macrì (1)




Gino Pisanò



Oreste Macrì è universalmente riconosciuto come uno dei Maestri del Novecento poetico italiano per aver dato vita, insieme con Bo, Gatto, Traverso, Luzi, Bigongiari, Parronchi, Sereni, Sinisgalli ed altri, alla "scuola" (1) ermetica della terza generazione diventandone, con i suoi scritti teorici, la coscienza critica mentre la produzione poetica dei suoi compagni di eteria ne fu lo specchio. Plasma fu, invece, la concordia discors della parola lirica (ché "la tecnica e l'ispirazione conversero a forme personali e assolute di canto") (2) naturale estuario delle implicanze ideologiche, diversamente posizionate, connesse alla teoresi e al dibattito alimentato dagli apporti critici di Bo, che con Macrì fu il maggior teorico del movimento neosimbolista, di Luzi (Momento dell'eloquenza, 1938), di Bigongiari (Solitudine dei testi, 1938).
Eppure la stessa definizione di ermetico, che convenzionalmente e scolasticamente si assegna al Salentino, non può essere esaustiva e congrua, sia perché la sua estetica ha ampiamente varcato i limiti cronologici che delimitano il movimento ermetico storico (1934-1943) (3) sia perché egli ha rivendicato fin dal 1939 (4) una sua insularità (5) 5 nel complesso arcipelago della Pleiade neosimbolista al cui interno assunse una posizione ideologica assolutamente autonoma e novatrice, parallela ed eterodossa rispetto a quella del suo compagno di cordata (e al pari di lui caposcuola) Carlo Bo, talché oppose allo spiritualismo platonizzante di matrice agostiniana, alla poetica dell'assenza e al conseguente misticismo di impronta sanjuanista dell'autore di Letteratura come vita, la totalità dell'essere nelle sue componenti del "sangue e dell'istinto [ ... ], primitive forze della natura" (6) esplose dalla vita primeva e magmatica dell'uroboro nei "regni inferiori dell'io" (7). Fra il 1937 (8) e il 1941 Macrì, non ancora trentenne, fondava infatti la "critica degli archetipi" e, attraverso il metodo comparatistico-generazionale (9), individuava gli esemplari del sentimento poetico contemporaneo assegnando al Vico e al Foscolo (10) il primato referenziale nella Poetica della Parola (11):

Tutta l'economia della nuova tecnica si orienta decisamente verso una filologia pura, della quale addito primo teorico Giambattista Vico che per primo intese il lavoro sintetico e aprioristico del conato fantastico come facitore di miti, che sono esse stesse parole significanti nella loro forma spirituale [ ... ]. La stessa impersonalità dell'universale fantastico vichiano ha una singolare analogia con quell'aura d'eternità, di castità, di purezza, di avversità al dato empirico [ ... ] che spira dai migliori testi di poesia del nostro tempo [ ... ]. Il nome di Giove esce dai petti dell'umanità dianzi ferina di Vico all'occasione del fragore celeste e la parola di Giove è esso stesso mito Ma gli uomini ferini del Vico "avvertirono" solamente il cielo tuonante [ ... ] e il loro conato fantastico si risolse e si concretò nella parola mito [ ... ] il problema della parola-mito nella poesia contemporanea [ ... ] si puntualizza all'origine del miracolo linguistico [ ... ] in quanto atto indifferenziato [ ... ] per mezzo di un elemento affatto estraneo alla facilità e spontaneità della pura fantasia vichiana; cioè un elemento logico e analogico insieme [ ... ] che incide lungo tutto il percorso interiore e dona all'espressione finale [ ... ] splendore visivo [ ... ]. Si delinea [ ... ] uno stato di grazia poetico barbaro [ ... ] puro, come quello che ricerca e rievoca [ ... ] gli elementi primordiali, preadamitici, i contatti arcaici con i regni inferiori, le energie indifferenziate [ ... ]. (12)

Altresì interna e organica al sistema dell'estetica macriana, radicata nella Stimmung fiorentina degli anni Trenta ma non più riducibile a fenomenologia dell'ermetismo per la sua autonomia e per i risultati d'indagine ottenuti nell'arco di mezzo secolo, è anche la teoresi delle 1 quattro radici" della poesia, sussunta la "statica e inerte" psicologia junghiana (13) per essere proiettata e rigenerata alle sorgive vichiane (14) , dove la funzione semica della Parola precipita nell'unica realtà possibile alla poesia: il simbolo

sono convinto che solo con uno spirito mimetico di lettura altrettanto agonico sia possibile unificare i due linguaggi reale e simbolico [ ... ] della superficie profonda del C(imitero) M(arino). [ ... ] E' l'esemplarità del C.M., poema di frontiera, assillo e remora per chiunque abbia cercato poi di retoricizzare e strumentalizzare la conversione al Positivo, l'unica Realtà del simbolo che è la poesia. (15)

La tetriade radicale, in perenne e dialettico dinamismo fino alla sinergia egemone del significato salvifico (4° radice) e della metamorfosi (3° radice) che incorporano e neutralizzano la qualità del sacro (2° radice) e la dimora vitale (la radice) nell'atto gestaltico (16) dell'"avventura poematica" (17), è stata infatti mirabilmente sperimentata ed esemplata da Macrì fin dal 1947 sul corpo semantico (iconico-noetico-patetico-verbale-fonico-metrico) del Cimitero Marino di Valéry, archetipo culturale del neosimbolismo al pari di Mallarmé, e poi assunta come esperienza centrale nella sua lettura "agonica" di innumerevoli autori, da Foscolo a Quasimodo a Landolfi (18), compresi i salentini Bodini (19) e D'Andrea (20), ma l'area di estensione applicativa e gli studi di Macrì abbracciano poeti e scrittori francesi, spagnoli, ispanoamericani, tedeschi (Rilke, Benn in particolare), angloamericani (Poe, Pound, Eliot) e classici greci e latini (Properzio oltreché Saffo, Omero ed altri).
E se la dinamica della metamorfosi chiama in causa la sfera animica, onirica, demonologica, il significato salvifico riposa nell'atto epilinguistico del poeta che si ripiega sulla sua poesia ed "è presente a se stesso" nel mentre "costruisce la propria opera pensata- sognata-cantata e in essa si riflette" nell'avventura verso la salvezza. (21)
Sincrona e complementare alla metodologia comparatistica e "radicale" risulta la teoria della poesia ininterrotta" nel suo flusso seriale (sentimento-musica-verbo) sicché una nuova funzione Macrì assegna alla metrica che diventa semantica in quanto "significante fonoritmico, non tanto analogico a una sonata o sinfonia, ma equipollente alla fonte sentimentale e materica, cui la mente creatrice attinge, elaborandola all'interno del significante [ ... ] sì che pare che il corpo musicalverbale si sostanzi e si sviluppi per interiore necessità di armoniche simpatie" (22) per cui nel metro coabitano "tutti gli elementi e valori del significante portatore del significato" (23). Macrì, nell'applicare la sua teoria metrica fondata sull'alessandrino e sull' "arte mayor" spagnoli, sull'endecasillabo spagnolo e italiano (24) ed estesa al "décasyllabe" a minore del Cimitero Marino, innova la scansione e il sillabato ritmico, finora asemantizzato, recuperando il modus latino e neolatino ("interezza dei vocaboli"), restituendo centralità alla sillaba tonico-ritmica in quanto semantema e radice di "valori congiunti e interagenti"(25) (qualità = accento espiratorio; quantità = durata e melodia; timbro e tonematicità), densificati "gli stati armonici asemantici per risonanze interne della materia fonico verbale" (26). Gli exempla più cospicui del sistema metrico macriano sono offerti dalla 'lettura' dei Sepolcri e del Cimitero Marino in cui alla metrica asemantica tradizionale egli sostituisce la metrica semantica categorematica e fonosimbolica fondata sulla norma di un continuum ritmico segmentale (27), (teoria del "discreto segmentato") che va dall'unità elementare (il piede) alle unità complesse (emistichio, periodo, strofa, sistema strofico), esibendone lo "spartito ritmico" nella sua totalità (28).
Ma sugli assunti testé abbozzati si tornerà allorché si tenterà di tracciare le linee essenziali della méthode macriana - la cui complessità si sottrae, per quanto ci riguarda, al progetto di una epitome organica - nell'introdurre il carteggio che egli istituì con Corni, costituito da oltre quattrocento lettere, attraverso le quali è possibile documentare il ruolo determinante svolto da Macrì nella storia dei rapporti culturali intercorsi fra Salento e Firenze negli anni 1940-1966 (29). Sarà quella l'ultima tappa della nostra esplorazione condotta, pur nei limiti di una iniziale ricerca, sul terreno ancora gravido e ferace del documento (gli epistolari). Esso è il solo strumento abilitato a conferire liceità alla storia dei nessi profondi e vitali che legarono una piccola 'regione' alla vita ideale della Nazione, ben oltre la misura delle sue possibilità geografiche epperò nella continuità della sua tradizione culturale che dirama dai poeti italo-bizantini, passa attraverso gli illuministi di Terra d'Otranto, giunge fino a noi nei suoi esponenti (ed "esemplari") novecenteschi: Macrì, Corni, Bodini, Pagano, nella sfera della critica e della filologia lo stesso Macrì, Marti, Vallone e in quella del romanzo Luigi Corvaglia.
In questa sede non ci occuperemo del Macrì critico, fondatore di una estetica asistematica alternativa rispetto al modello crociano egemone negli anni Trenta e Quaranta del Novecento in Italia, ma del Macrì 'creativo', forse meno conosciuto e più 'raro', sia per il carattere di attività a latere che codesta sua zona implica, sia per lo pseudonimo Simeone che, datogli da Leone Traverso (a sua volta detto Khane), cela ai non iniziati la sua vera identità, sia per il 'silenzio' che egli stesso ha riservato ai suoi scritti non teorici (molti gli inediti) quasi che non ne abilitassero il ruolo, 'alla pari' con la teoresi letteraria, la severa misura del giudizio, la prudenza discreta, l'affetto meno risentito e profondo dell'Autore nell'atto di misurarli con gli esiti speculativi e con la dimensione planetaria della sua attività di critico. Ma non è così. Lo spazio' creativo è l'altro volto di una stessa medaglia ed appare solo estensivamente minore ma tanto più sorprendente quanto meno sospettato di esistere. Una volta lo stesso Macrì confessò, con la ben nota e usuale arguzia, in una intervista rilasciata a La Stampa di Torino, di essere un narratore mancato solo perché tutto quello che avrebbe voluto scrivere "lo scrisse invece Landolfi" (30) e aggiungeva: "Per me la narrativa deve avere due elementi: quello lirico di fondo e quello autobiografico-esistenziale", enunciato che chiameremo in causa nello sviluppo del nostro discorso.
In realtà il critico non è altro rispetto allo scrittore creativo la cui scrittura è anch'essa critica, dinamicamente operante ed esperita in corpore vili, come egli stesso mi ha scritto in una sua responsiva:

[ ... ] il mio intento è di laboratorio in meo corpore vili; resto un critico e il racconto fantastico serve all'uopo. (31)

Le prime prove narrative di Macrì appartengono agli anni Trenta: si tratta di cinque racconti giovanili (La lavanda dei piedi, 1934; Il filo dell'uomo, 1936; Pedagogia, 1937; La madre, 1938; La milogna, 1939) dei quali l'ultimo soltanto fu pubblicato negli anni di stesura, mentre gli altri apparvero più tardi nell'antologia curata da Ferruccio Ulivi ed Elio Filippo Accrocca Prosatori e narratori pugliesi del Novecento (32). Altre prose ascrivibili al periodo giovanile sono L'ora della lezione (33), Prosa per S. Cesarea (34), Fogli per i compagni (35), Le ore di Parma / Le fanciulle / Dalla Cronica di un magliese errante (36) (firmato con lo pseudonimo "Simeone").
Dalle "Notizie di Cursi"(37), Memorie su un agente segreto (38), Incontro con Parma (39) (prosa memoriate conclusa da riflessioni critiche sull'idillismo di Bertolucci e sull'Ulisse di Gianfranco Carlevaro) che chiude il primo tempo dell'attività creativa di Macrì all'interno della quale occupa un posto anomalo Fogli per i compagni in cui egli traccia un primo consuntivo (fra autobiografia spirituale ed empito speculativo e profetico) della stagione ermetica, rivolgendosi agli amici fiorentini della 'sinistra' neosimbolista-agostiniana i quali, nella ricerca tout-court della verità, avevano eluso "ogni prestito dal visibile, dal fisiologico, dal cosmologico" (40) per una platonizzante e asettica prospettiva di approccio all'Assoluto. E qui egli rimarca la sua insularità rispetto a Bo, Luzi e ai compagni di cordata ermetica "rapinati dalle occasionali inserzioni dell'eterno e dell'assoluto nel vaneggiamento della donna amata o nel fantoccio dello schermo [ ... ]. In queste condizioni [ ... ], l'essere al limite del suo fenomeno diventa niente di reale e di discreto e si risolve nel pallido riflesso della sua originaria entità" (41). All'assenza e al "golfo d'attesa metafisica" di Bo, alle occasionali inserzioni e ai vaneggiamenti dei compagni di "Campo di Marte" egli oppone ancora una volta il concreto "dell'ora quotidiana" e del "sangue", le pulsioni "preadamitiche" degli elementi "primordiali", le energie del "senso" vichiano che irrompono nella Parola-mito sprigionate dallo stadio "prelinguistico" del regno inferiore "più accosto all'atto primo del conato poetico" (42):

E' bene dirlo una volta per sempre: non vi illuda, giovanissimi, il sottile e dorato nudino di fiamma sulla pura linea dell'orizzonte marino. Per quanto s'incendi e ceda tutta la sua qualità di luce alle zone che sognereste e non vedrete, all'altro che è saturo della vostra assenza rimarrà sempre qualcosa: quello che dapprima vi è stato donato, dell'unica natura che è pure la vostra. [ ... ] Questo avevo capito dei compagni: l'assoluta fedeltà a un'estrema figura mai tradita dal suo mutamento in simbolo. (43)

Ma occorre tornare all'attività creativa, per così dire, ortodossa: dei cinque racconti del periodo in esame, il più significativo per implicanze amicali e letterarie, come documenteremo, fu la Milogna che apparve sul "Tesoretto" (Almanacco delle Lettere) (44) nel 1939. Il racconto, scritto nel '38, segnava il vero esordio di Macrì narratore (come si ricorderà gli altri quattro che lo precedettero furono pubblicati più tardi) e fu salutato da un "evviva" di Alfonso Gatto in calce a una sua lettera inviata il 24 luglio 1938 a Macrì (45) (controfirmata da Quasimodo, Montale, Parronchi e Pratolini) (46) che era ritornato a Maglie per insegnare al "Capece" (47), prima i raggiungere Parma, dopo i quattro anni (1934-1938) di docenza presso il Ginnasio delle Scuole Pie Fiorentine. Ma non inganni l'effusione gattiana che è luciferina. Inserita in un contesto giocoso

Prof. Oreste Macrì / Maglie [ ... ] La vostra esperienza in materia di pittura, nonché il Vostro umor filosofico vi aiuteranno a capire la cartolina e a "chiarirla" com'è vostra tradizione [ ... ] (48)

ha il tenore di una fraterna e goliardica "persecuzione" ordita, all'indirizzo del Salentino "rimpatriato", dalla brigata degli amici fiorentini capitanati da Gatto, al quale, fra l'altro, Macrì e
Spagnoletti avrebbero poi "rapito" un paio di scarpe facendone oggetto di giocoso mercimonio, nonostante le feroci diffide del Salernitano:

Caro Macrì (49), ti scrivo non per ragioni letterarie o critiche com'è costume di voi altri, ma per ragioni di economia e di "onore". Qui a Roma ho visto ai piedi dello Spagnoletti quelle mie scarpe che io vendetti a te per 50 lire (50) senza mai riscuoterle. Ho costretto, con la forza e l'abilità che mi sono proprie, lo Spagnoletti a confessarmi di aver versato a te lire 150 per acquisto delle "mie" scarpe. Non sapevo che tu fossi così abile e così "chiaro" nei tuoi commerci. Prima di affidare la faccenda alle mani di un legale ti prego di inviarmi subito a Salerno [ ... ] le 150 lire che hai riscosso indebitamente lo sono povero [...] e tu ricco e poco "esemplare" (51). Ti saluto cordialmente ancora
tuo Alfonso Gatto

La vexata quaestio, si fa per dire, delle "scarpe rapite" occupa un breve ma concitato carteggio fra Macrì e Spagnoletti, soffuso di esilaranti ludibri, diffide, intimazioni nonché di citazioni testimoniali che coinvolsero gli ignari e innocenti Pratolini e Ulivi:

Carissimo Oreste,
[ ... ] lo scherzo delle scarpe mi ha dato il modo di ridere alcuni giorni in compagnia di Pratolini e di sogghignare d'altra parte all'indirizzo del poeta del Golfo [scil. Gatto] il quale si macera e vuole soddisfazione legale [ ... ]
Ciao [ ... ] Giacinto (52)

Questi rapidi flash epistolari bastino a dare la misura del clima, cui accenna Macrì a proposito della 'fortuna' toccata alla Milogna, che caratterizzò quegli anni di cui si indovinano, attraverso le lettere, gli aspetti ludici sottesi, a mo' di metafisica, a quell'ambiente letterario fiorentino così ascetico, aristocratico e severo nella sua veste teoretica. In siffatto contesto va letta la ,memoria' macriana relativa al racconto in parola:

La Milogna fu almeno allora un celebre mio racconto in un almanacco milanese (53) che suscitò, modestamente, l'invidia di Tommasino Landolfi, il quale mi scrisse sprezzantemente: "Trattasi in fondo di un vile tasso-cane" (54). Poi smisi quasi di pubblicare racconti, giacché i miei compagni fiorentini, nonché solariani, erano negati a qualunque humour sui piani bassi e vicoli della poesia narrativa, e anche perché Landolfi li stava scrivendo al Mio posto. (55)

Trattasi, naturalmente, di invidia giocosa, ché sui fraterni rapporti che unirono Landolfi e Macrì fanno luce le pagine che il Salentino ha scritto presentando il suo recente volume sull'autore del Mar delle Blatte, in cui rievoca l'amicizia "conventuale [ ... ] tra il San Marco e le Giubbe Rosse, fuga e 'ricetto' dalla polis iniqua in quella zona franca fiorentina" (56). Ma significativa è la motivazione che Macrì adduce circa il suo, successivo, 'silenzio' creativo: l'assenza di humour nei sodali fiorentini.
Abbiamo, così, le prime coordinate dell'ideale narrativo del Nostro; lirismo di fondo, autobiografismo esistenziale, umorismo. Le ritroveremo applicate ai due racconti che segnatamente prenderemo in esame, Schibalopoli e Mister Trascendental, gli ultimi (ma ci auguriamo che la serie continui) dell'insigne Maestro, vitalissimo e fecondo come nella sua giovinezza. Prima, però, è necessario scoprire un altro aspetto, forse ancor più sorprendente e malnoto, dello spazio creativo di Oreste Macrì: la poesia.
Esplorando i fogli dell'Album in cui venivano verbalizzate le sedute letterarie della comiana "Accademia salentina", mi occorse di imbattermi in un sonetto, manoscritto e firmato dallo stesso Macrì, corredato della data e del luogo di composizione: Montesano Salentino 1940. Autorizzato dall'Autore, ne pubblicai il testo nel mio 'asterisco comiano' L'Accademia salentina attraverso inediti (57) riservandomi di curarne l'esegesi in uno spazio più pertinente ed esclusivo qual è quello che ora riserva il tema del presente intervento, sicché, unico esemplare edito (58), lo riproponiamo al lettore per poi tentarne la lettura in modo "attivo e interessato":

Altra notte. Veloce la pianura
ha spento le cicale. Un seme arguto
fiorisce sull'inane onda matura
dei grani gialli, e cala il gregge muto

delle nubi di Puglia, e già s'indura
la collina ferace e il cielo astuto
vanissimo nel giro senza mura.
Un corno dai pagliai sibila acuto.

Ma sentirai, fra tanto esiguo lume,
quant'arde nelle crete di Messapia
l'elemento del male domo al gioco

delle squallide conche, delle dune,
dei greti, onde è palese quanto sappia
toccare questo lungo canto roco.

La prima riflessione che suscitano questi versi è che in essi si ravvisa per la prima volta, in senso assoluto (furono scritti, lo ricordiamo, nel 1940), l'archetipo della dimora vitale salentinaorganica alla linea poetica della terra "materna e seminale" che collega tre 'generazioni': la prima mi sembra che si possa individuare negli 'esemplari' Macrì e Bodini, la seconda in Gatti (che anagraficamente appartiene alla prima ma approda alla poesia tellurica, in un tempo successivo rispetto agli archetipi culturali sopra citati), De Donno e Caputo, la terza in D'Andrea e Romano. Non sembri artificioso il nesso Macrì-Bodini: è indotto dal fatto che cronologicamente si deve assegnare la primogenitura del canto della terra di sangue, con sentimento nuovo d'esilio e di perdita, e dei suoi connotati animici e vitali al sonetto macriano che, se anche non pubblicato, rappresenta l'abbrivo ideale e l'archetipo figurale dell'ecumene veterosalentina, primeva patria dell'anima e luogo della memoria, terra "satura di pianura, case, grotte, mestieri, vegetali, animali [ ... ] stregonerie e magie" (59) che infoltiranno le bodiniane Foglie di tabacco (1945-'47), prima sezione della Luna dei Borboni. Sentimento di perdita e di lutto che nutrì la stagione ermetica degli 'esuli' Quasimodo, Gatti, Sinisgalli ('esemplare' Leonida di Taranto) e che in Bodini si allerta con Tu non conosci il Sud (1945) con cui si apre la citata sezione nella quale lo stesso Bodini volle sottolineare l'identità dell'oikos, escludendo dalla seconda edizione (1962) La pianura di rame e Vecchi versi - I (1939-'41), presenti nell'edizione del'52, che "appartenevano più al generico linguaggio di quegli anni (60) che a lui" (61). Dal sonetto di Macrì si diparte la nuova poesia del Novecento salentino ove per salentinità si intenda non una delimitazione meccanicamente empirica e geografica ma una categoria, una condizione spirituale di frontiera e di margine.
Verrebbe da dire che Bodini (come Landolfi nella narrativa) scrisse forse quello che Macrì avrebbe voluto scrivere, sicché ancora una volta il critico magliese-fiorentino sembra aver deputato ad altri il ruolo creativo per riservare a se stesso il sentiero della critica militante "forte di una preparazione filosofica invidiabile e di una 'terrestrità' meridionale che fa di lui per molti versi un contrappunto perfetto allo spiritualismo 'nordico', tutto débat interiore, del ligure Bo" (62).
Il sonetto di Macrì si offre a segno di una condizione esistenziale ancipite: fuga e ritorno si dialettizzano nella Ubertragung dell'eros edipico alla terra madre, tradita e ritrovata come antico Eden, isola della memoria e luogo della "durata". Il Salento si fa archetipo e figura: i connotati geomorfi sono assolutizzati in simboli di una realtà noumenica, trascendentale, metafisica e si attua un processo metamorfico per il quale si semantizzano non le cose ma l'essenza acrona e immobile delle cose, non la realtà storica ma il suo carattere pitagorico, mitico, sacrale, iconizzato dalla diaspora di semantemi e sintagmi nelle seguenti zone: vitale (crete, collina, conche, dune, greti), animica (cicale, greggi, sibila, seme, grani), noetica (seme arguto, inane onda, gregge muto, vanissimo giro, ferace, astuto, acuto, esiguo, Messapia, male, squallide, palese, lungo, roco), iconica (corno, cielo, onda, grani gialli, pagliai, lume, arde), patetica (toccare), verbale-sinestetico-analogica (la pianura ha spento le cicale; seme arguto; il gregge delle nubi; il cielo astuto) e più estesamente simbolica ("elemento del male" allusivo del fuoco che nella dinamica della metamorfosi chiama in causa la zona demonologico-funeraria-infernale).
La più antica lirica di Bodini che si iscriva nell'ambito tellurico-materno mi sembra che sia Viaggio per altri inverni, degli anni 1940-'44, dedicata proprio a Macrì con il quale aveva condiviso il contubernio redazionale della pagina letteraria di "Vedetta" con indosso il laticlavio ermetico (poi smesso (63) e 'rinnegato') dopo la giovanile esperienza futurista. Si registra in Bodini e Macrì una consonanza sentimentale, nei confronti della terra materna, e simbolica (si osservi nella citata lirica bodiniana la medesimezza dei tratti iconico-animici del Salento: nuvole sonore, ragni bianchi, la ficaia, il fogliame di corvi, le vigne, i tralci amari / che dicembre ingemma di chiocciole) che forse germina da un travaglio storico e spirituale sotteso al contrasto fra l'identità primeva della dimora larica e tellurica e la sua imminente metamorfosi (dalla facies arcaico-georgica a quella anodino-industriale) e alla scoperta del Sud come patria genesiaca e vitale, scoperta che in Bodini è contestuale, se non lievemente seriore, rispetto al sonetto macriano. Sono gli anni del dilucolo della nuova poesia del Salento calcinato, tufaceo reliquiario "simbolo negativo [ ... ] di una immobile continuità feudale" (64) che si dialettizza col suo 'positivo' fino ad estendersi "ben oltre i confini mediterranei a rappresentare una condizione di vita, sottesa di ragioni storiche ed esistenziali" (65)sicché il denotante elemento verista si trasvaluta e si sublima nel segno allusivo del simbolo.
Nel sonetto di Macrì, vero e proprio archetipo di una linea generazionale la cui dinamica non è empirica 'aggregazione' ma funzione "in senso immanente alla struttura del fatto letterario" (66), vi è poi un carattere tutto autonomo che riposa nel sentimento materico del mistero della sera e sua ambiguità 'purgatoriale' semantizzata dalla metamorfosi dello spazio vitale nell'ora in cui "vacilla il giorno". Il paesaggio si anima di forme e figure invisibili e arcane quasi ombre di trapassati: ne sono proiezione simbolica il gregge m uto delle nubi, il cangiamento della pianura, i grani (simbolo sepolcrale eucaristico), l'invisibile suonatore del corno che sibila acuto come segno "d'un mondo lungi dal dì", il canto roco, adespota e lontano. Fra i segni di un demonismo (3° radice) arcaico, egemone èil corno, oggetto di pregnanza magico-apotropaica ascrivibile all'area della "qualità sacrale" (2° radice), evocatore di elfi larici convocati per il saluto alla sera, messaggera premonitrice della sacra notte e del suo mistero. La metamorfosi serotina della pianura estiva (dai "grani gialli" e dalle "cicale" si indovina il giugno maturo) umanizzata ("ha spento") predispone l'immergersi del poeta e della sua donna (67) nel circolo infinito (il cielo senza mura) vago e indistinto delle ombre. In questa zona misterica di un'attesa metafisica - 'esemplari' di codesto sentimento Saffo del fr. 120 Diehl, Dante di Pg. VIII, Foscolo del sonetto Alla sera, Pascoli (La mia sera), D'Annunzio (La sera fiesolana) - il risentirsi profondo dell'io che si riconosce, nella sua essenza vitale e segreta, partecipe di un'umile vita universa nella quale si confonde e profonda, intuendone la realtà ineffabile che la sola parola, emergente dai "regni inferiori" del senso 'vichiano', può attingere e illuminare mediante la forza del simbolo. In questa comunione estatica (discreta e silente la figura femminile) i segni iconici turbinano con rapida ed analogica successione sul binario spazio-tempo, epifanizzando il senso dell'attesa e la sua sacertà. E' l'animo del poeta conquiso dal mistero della notte e del tempo di cui senti materializzarsi la fuga nelle arcane e subitanee dissolvenze delle forme che sdrucciolano nel ritmo tremulo e nella struttura prevalentemente paratattica del periodo, nel semantematico asindeto della prima strofa e nel succedaneo polisindeto (e cala / e già / e il cielo), cui è commessa la funzione di semantizzare il maturarsi dell'evento arcano, fiancheggiati dai connotatori temporali altra, veloce, già, fino all'elemento 'completivo' terminale sentirai allo snodo strofico del nono verso. In quell'aura di sospensione, di trepida attesa di un Nume (la Notte), di vaghe e latenti simpatie, l'annuncio del corno, arcaico olifante fittile di sanculotti salentini "senza infanzia né memoria", sembra fissare la frontiera fra le quartine denotative (del paesaggio e dell'evento) e le terzine in cui campeggia invisibile, novella Leuconoe, la donna (sentirai) iniziata alle Il mitologie contadine" e ai riti della pitagorica terra del rimorso (le crete dei Messapi) immobile nel suo millenario animismo vegetale, animale, inorganico, demonico. La seconda zona del sonetto (le due terzine) è tutta trascorsa da stupore oblioso ed assorto, da trasalimenti e risonanze interiori che l'ecoscandaglio della parola registra nelle abissali profondità dell'anima penetrata dal sibilo acuto, inebriata dalla voluttà di una panica comunione col paesaggio, rapita e sospesa nello spazio infinito del cielo "vanissimo", brecciate e dissolte le lucreziane moenia mundi.
Alla metamorfosi animica delle prime due strofe 'corografiche' fa eco la stasi iconica della terra millenaria, medesima nelle conche e nelle dune (le sabbie degli Alimini) mentre all'onda sonora di un canto "lungo" e "roco" (dantismo, cfr. Pg. V, 27) l'uomo e la donna, di vita notturna viventi, s'annullano misticamente nel palpito d'ombre di una realtà orfica che in sé sigilla le ragioni della vita le quali disserra e sussume nella sfera del simbolo soltanto la tolstojana intelligenza del cuore.
Una musica verbale allusiva e contesta di fricative e di liquide si sposa alle semantematiche cadenze giambico-anapestiche del ritmo metrico-sintagmatico e semantizza la veloce metamorfosi del tempo e dello spazio: alla discendente agoghé trocaico-dattilica del falecio (l'iniziale endecasillabo a minore

succede in chiave dominante, fondendosi la sillaba iniziale con la clausola del verso precedente in un continuum melico, l'ascendente agoghé giambico-anapestica del successivo sviluppo versale organico, con l'inarcatura degli enjambements, alla semantizzazione della rapidità metamorfica dei connotati cronotopici. Ricorre, infatti, la struttura di base del trimetro giambico catalettico in syllabam

negli endecasillabi 2°, 3°, 4°, 5° (dipodia anapestica iniziale), 6° (idem), 7°, 8°. 9°, 10°, 11° (anapestica la base), 12° (dipodia anapestica iniziale), 13°, 14° acquistando valenza iconica di significante.
Alla fine, il mistero è "sensibile", lo spazio e il tempo sottratti alla dimensione fisica e liricizzati, assunti dalla sintesi e metabolizzati nell'a priori dalla forza evocativa e taumaturgica della parola, mallarmeanamente rappresa "en sa solitude, en sa vibration fragile, en son néant" (68).

(1 - continua)


NOTE
1) Uso il termine solo per empiriche ragioni di sintesi, essendo consapevole che la sua specifica valenza semantica èdiscutibile in riferimento all'ermetismo o al crepuscolarismo o al futurismo ove si consideri unitaria e lineare, pur nella sua diversità, la morfologia letteraria del Novecento italiano. Sul problema cfr. D. VALLI, Storia degli ermetici, Brescia, La Scuola, 1978, p. 57: "[ ... ] Quest'incontro [ ... ] non è di per sé sufficiente a far considerare l'ermetismo come una 'scuola' [ ... ]. E' chiaro che non possiamo pensare alla storia letteraria del Novecento come a un succedersi di scuole contrapposte, con programmi ben definiti e chiusi in se stessi, pena la distruzione dello spirito unitario e progressivo di questo [ ... ] secolo. Lo svolgimento della nuova letteratura, dai vociani agli ermetici, ha una sua linearità, una sua progressione, una sua continuità". Fondamentale risulta, all'uopo, quanto scrive Macrì in ordine alle fonti della nuova poesia: O. MACRI', Sulle fonti della nuova poesia, in ID., Caratteri e figure della poesia italiana contemporanea, Firenze, Vallecchi, 1956, pp. 15-19.
2) O. MACRI', L'insorgenza e la qualità del "canto", in Caratteri ecc., cit., p. 20.
3) La delimitazione cronologica è puramente convenzionale e scolastica poiché non tiene conto della complessità del movimento e della difficoltà di indicarne genesi e morte. Quanto all'atto di nascita dell'ermetismo, più che il 1936 (anno del saggio eponimo del Flora) o il 1938 (Letteratura come vita di Bo) mi pare più proprio indicare la data del 1934 nella quale apparve l'articolo di Bo Riconoscenza alla poesia in cui si riconoscono i prodromi della teoresi ermetica.
Sul critico ligure e sulla sua teoresi cfr. G. LANGELLA, Poesia e conoscenza nella teoresi ermetica di Carlo Bo - Tra Juan de la Cruz e il Novecento francese, in "Testo", n. 20, 1990, pp. 113-145 e in particolare p. 116.
4) Cfr. O. MACRI', Intorno ad alcune ragioni non formali della poesia, in "Letteratura", 1939, n. 11, pp. 141-153 poi in apertura di ID., Esemplari del sentimento poetico contemporaneo, Firenze, Vallecchi, 1941, in quanto manifesto della "macritica" (il termine fu coniato da Gatto e dagli altri esponenti della 'sinistra') in cui l'Autore offre il filo ermeneutico della sua teoresi al lettore e polemizza con Carlo Bo, cui il saggio è indirizzato, recuperando le vichiane regioni del "senso" contro il silenzio, l'assenza e il primato dello spirituale che pregnano la riflessione del critico ligure negli anni 1934-'38: cfr. C. BO, Riconoscenza alla poesia, in "Frontespizio", VI, n. 1, p. 9 e ss., ID., Natura della poesia, in "Campo di Marte", I, 1938, poi in ID., L'assenza, la poesia, Milano, 1945, pp. 75-79, ID., Dell'attesa come voce inattiva, in "Campo di Marte", 1939, n. 9, poi in L'assenza ecc., cit., pp. 81-86. Su Bo si vedano almeno A. NOFERI, Carlo Bo: la critica come misura di verità, in Le poetiche novecentesche, Firenze, 1970, pp. 137-148, D. VALLI, op. cit., pp. 93-95, E. BIAGINI, La letteratura e lo spirituale: il "primo tempo" di Carlo Bo, in "Paradigma", 1982, 4, pp. 7-49, G. LANGELLA, Poesia e conoscenza ecc, cit., pp. 113-145.
5) Cfr. O. MACRI', Fogli per i compagni, in "Letteratura", 1941, n. 17, p. 22 e ss.
6) O. MACRI', Altre notizie su idoli e scene, in Esemplari ecc., cit., p. 294.
7) O. MACRI', La poetica della parola e Salvatore Quasimodo, in S. QUASIMODO, Poesie, Milano, "Primi Piani", 1938, poi in ID., Esemplari ecc., cit., p. 137. Sul Quasimodo "macriano" si veda anche il saggio recenziore ID., Quasimodo dalla 'poetica della parola" alle "parole della vita", in ID., La poesia di Quasimodo, Palermo, Sellerio, 1986, pp. 21-278. Alle pp. 281-313 la terza edizione de La poetica ecc., cit.; a p. 284 è riportato il passo da me citato. Per la Poetica si farà riferimento, d'ora in poi, a quest'ultima edizione che sarà citata con sigla PQ.
8) Cfr. O. MACRI', Poesia e mito nella filosofia di Giambattista Vico, in "Archivio storico della filosofia italiana", VI, 1937, 3, pp. 257-282 (vi riprende alcuni assunti esposti nella sua tesi di laurea Il problema estetico in G. Vico, Firenze, 5 novembre 1934, relatore E. P. Lamanna) e ID., Poesie di Cardarelli, in "Frontespizio", n. 10, ottobre 1937, pp. 790-798, poi in Esemplari ecc., cit., col titolo L'Umschlag della rettorica (il primo saggio di lettura critica "ermetica" che Macrì scrisse, dopo le sue Considerazioni sulla poesia di Montale in "Convivium", dicembre 1936, in Esemplari col titolo Dell'analogia naturale, ove sostiene l'identità di poesia e conoscenza accanto a C. Bo). All'interno del quadriennio '37-'41 si segnalano, fra gli scritti teorici, oltre a La poetica ecc., cit., ID., Del concetto di letteratura, "Il Bargello" del 13.11.1938, p. 3; ID., Difesa della poesia, in "Corrente" del 15.6.1939, p. 2; ID., Intorno ad alcune ragioni ecc., cit. (in cui espone le sue consonanze e dissonanze rispetto a Letteratura come vita di Bo); ID., Della grazia sensibile, in "Corrente" del 15.5.1940, p. 3 (sulla poesia di Betocchi) e, finalmente, ID., Esemplari ecc., cit.
9) Cfr. O. MACRI', Varia fortuna del Manzoni in terre iberiche (con una premessa sul metodo comparatistico), Ravenna, Longo, 1976; ID., Il Foscolo negli scrittori italiani del Novecento. Con una conclusione sul metodo comparatistico e un appendice di aggiunte al "Manzoni iberico", Ravenna, Longo, 1981 e ID., Risultanze del metodo delle generazioni, in Caratteri e figure ecc., cit., pp. 77-89. Sul metodo comparatistico di Macrì, cfr. G. CHIAPPINI, La metodologia comparatistica di Oreste Macrì, in "Sallenturn", IV, n. 3, 1981, pp. 33-62 e A. DOLFI, Macrì e il metodo comparatistico in ID., In libertà di lettura, Roma, Bulzoni, 1991, già in "Itinerari", 1981, 1-2, pp. 273-281 col titolo La scienza delle "tracce". Macrì e il suo metodo comparatistico.
10) Sull'"esemplarità" foscoliana oltre a Il Foscolo ecc., cit., si veda anche O. MACRI', Mitopoiesi delle "Grazie" e confronto coi "Sepolcri", in ''L'albero'', XXVI, n. 57, 1977, pp. 29-51 e ID., Semantica e metrica dei "Sepolcri" del Foscolo, Roma, Bulzoni, 1978.
11) Nella mistica della parola essa si fa "notazione simbolica, aspetto terreno dell'idea, segno del concetto, segno dell'individuale, voce evocativa dell'immagine", O. MACRI', La poetica ecc., in PQ, p. 290.
12) Ibidem, pp. 283-284.
13) Cfr. O. MACRI', Un Vico ultraromantico, in "L'Albero", III, 1950, p. 26.
14) Sull'argomento cfr. ID., L'arte nella psicologia di C. G. Jung con un riguardo al Vico, in "La Ruota", aprile 1943, pp. 110- 116.
15) O. MACRI', Il Cimitero Marino di Paul Valéry, Firenze, Le Lettere, 1989, p. 162. La prima edizione apparve nel 1947 (Firenze, Sansoni), ma la stesura risale al 1945 (cfr. ibidem, p. 7). Mio il corsivo.
16) Sul concetto di Gestalt, oltre alla citata opera di Macrì, si vedano gli studi di V. SkIovskij.
17) O. MACRI', Il Cimitero Marino ecc., cit., p. 169.
18) O. MACRI', Tommaso Landolfi / Narratore poeta critico artefice della lingua, Firenze, Le Lettere, 1990.
19) Dei numerosi scritti di Macrì su Vittorio Bodini si veda almeno O. MACRI', Introduzione a V. B., Tutte le poesie 1932-1970, Milano, Mondadori, 1983, pp. 5-71 e in particolare, sulla tetriade, pp. 46-49.
20) O. MACRI', Lo "spazio domestico" di E. U. D'Andrea, in "L'Albero", XVII, n. 48, 1972 (n.s.), pp. 99-114.
21) O. MACRI', il Cimitero Marino ecc., cit., p. 166. Nella quarta radice "la soluzione integrale epilinguistica del ripiegamento del poeta sulla propria materia verbale-scrittoria in lirica contemplazione di fronte alla natura del proprio principio poetico", ID., La poesia di Quasimodo, cit., p. 30. Sulla tetriade e sua applicazione si veda anche ID., Il "canto hermético" di Garcìa Lorca, in AA.VV., Dialogo, Studi in onore di L. Terracini, a cura di I. Pepe Sarno, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 327-342, in particolare p. 333.
22) O. MACRI', Il Cimitero Marino ecc., cit., p. 95.
23) Ibidem.
24) Ibidem, p. 35.
25) Ibidem.
26) Ibidem, p. 74.
27) O. MACRI', Semantica e metrica ecc., cit., p. 238.
28) Su questi aspetti si vedano ibidem i capp. V (Principi grammaticali e metrici), VI (Teoria dell'endecasillabo) e ID., Il Cimitero Marino ecc., cit., cap. III (Struttura metrica e fonosimbolismo). Sulle applicazioni estese ad altri autori cfr. Semantica e metrica ecc., cit., p. 227, nota 62. Fondamentale anche O. MACRI', Ensayo de métrica sintagmatica, Madrid, Gredos, 1969.
29) Le estremità cronologiche del periodo sono determinate dalla nascita della pagina culturale di "Vedetta Mediterranea" e dall'estinzione del "Critone". Tale arco di tempo costituisce una straordinaria fase congiunturale nella storia della cultura e della poesia nel Salento.
30) Cfr. L. GATTESCHI, Per quarantacinque anni ho esplorato il pianeta Machado / Parla Oreste Macrì lo studioso italiano che ha curato per la Spagna l'edizione critica del poeta, "La Stampa" (Tuttolibri) dell'1.4.1989, p. 5.
31) Lettera dell'8.6.1992.
32) Bari, Adriatica, 1969, pp. 215-218.
33) In "L'Almanacco dei Visacci", Firenze, Vallecchi, 1938, pp. 119-120.
34) In "Corrente" del 15.5.1939, p. 3.
35) In "Letteratura", n. 41, 1941, pp. 22-27.
36) In "La fiamma" dell'1.7.1942, p. 27.
37) Ivi, 28 febbraio 1942, p. 24.
38) In "Prospettive", n. 37 del 15.1.1943.
39) In "Gazzetta di Parma" del 2.4.1946 poi in O. M., Caratteri e figure ecc., cit., pp. 283-287.
40) O. MACRI', Fogli ecc., cit., p. 22.
41) Ibidem, p. 23.
42) O. MACRI', La poetica della parola ecc., cit., in PQ, p. 284.
43) O. MACRI', Fogli per i compagni, cit., p. 26.
44) Milano, "Primi Piani", 1939, pp. 180-182.
45) Cfr. O. MACRI', Lettere ecc. di Alfonso Gatto - Afò - Affò a Macrì - Oreste - Simeone con l'"Obelischeide" complice Vittorio Pagano, in "Lingua e letteratura", n. 7, Nov. 1986, p. 13.
46) Sul sodalizio Macrì-Pratolini si vedano, per i riferimenti agli anni in parola, le lettere che Pratolini inviò a Macrì, recentemente pubblicate in Vasco Pratolini tra immagini e memorie, Catalogo a cura di C. CHIESI, Firenze, Gabinetto Nieusseux", 1992, pp. 11- 14 ed ancora Lettere di Vasco Pratolini a Oreste Macrì in appendice a V. PRATOLINI, Romanziere di "Una storia italiana", Firenze, Le Lettere, in corso di stampa.
47ù) Così è ricordato da Macrì quel periodo di temporaneo "rimpatrio" salentino: "In quel tempo ero adiratissimo; ero stato costretto ad abbandonare Firenze e le Giubbe Rosse per via d'un maledetto concorso vinto e [ ... ] m'ero ridotto nell'antica e buia stanzetta nativa a covare il pandemonium japigio e le future sorti dell'ermetismo. Pensavo di dovermene rimanere per sempre", in O. MACRI', Incontro con Parma, cit., Caratteri ecc., cit., p. 283.
48) Cfr. O. MACRI', Lettere ecc., cit., ibidem.
49) Ibidem, p. 17.
50) Mio il corsivo.
51) E' un riferimento giocoso alla teoria macriana degli 'esemplari', termine eponimo del volume più volte citato.
52) Ibidem, p. 18. Lettera (del 13.8.1942) di Spagnoletti a Macrì.
53) Cfr. nota 44.
54) Il riferimento riguarda, ovviamente, l'argomento del racconto.
55) O. MACRI', Lettere ecc., cit., p. 13.
56) O. MACRI', Tommaso Landolfi ecc., cit., pp. 9-10. Ma anche in ID., Ricordo di Eugenio Montale "fiorentino ","La Fortezza", II, 2, 1991, p. 19: "Le Giubbe Rosse [ ... ] erano una sorta di convento letterario secondo quella "religione delle lettere" che Renato Serra ci aveva trasmesso Per la nostra gioventù inerte non c'era altro spazio d'anime fraterne".
57) In "Sudpuglia", 2, 1991, p. 114.
58) Ho appreso da Macrì che altre sue liriche stagionano nel cassetto degli inediti. Sue poesie "occultate" in prosa stanno in O. MACRI', Dell'Amore (Alcuni paragrafi), in "Incontro", 10.5.1940, p. 4 e ID., Dell'Amore, in "Letteratura", 1941, pp. 66-69.
59) O. MACRI', Introduzione a V B., cit., p. 46.
60) Il riferimento attiene agli anni 'ermetici'. Sull'argomento cfr. A. L. GIANNONE, Bodini prima della "Luna", Lecce, Milella, 1982, in particolare pp. 41-66.
61) V. BODINI, Preliminare, in ID., Tutte le poesie ecc., cit., p. 90.
62) G. LANGELLA, L'essere e la parola - La stagione ermetica di Macrì, in "Studi novecenteschi", XVII, 40, dicembre 1990, p. 308.
63) Fa fede la polemica che si accese fra Macrì e Bodini nei primi anni Cinquanta. Cfr. V. BODINI, Quarant'anni di poesia, in "L'Esperienza poetica", 1, gennaio-marzo 1954, pp. 17-30 in cui B., recensendo l'Antologia di Anceschi e Antonielli, aveva punzecchiato Macrì accusandolo di chisciottismo per essere rimasto fedele alla generazione ermetica di cui "credeva" che potessero "persistere" esperienza e definizione "col semplice mutamento d'etichetta in quella di neosimbolismo", p. 24. Pronta la replica di Macrì (cfr. O. MACRI', Di un complesso "generacional", in Caratteri e figure ecc., cit., pp. 406-411): "L'ultimo caso di evasione dal corpo e dall'anima della anzidetta generazione è quello di Vittorio Bodini. [ ... ] Se altri esiste, che si è scaldato e pasciuto al cibo e al fuoco di quegli anni, che per l'esperienza ermetica [ ... ] s'è macerato e l'ha perfino diffusa in provincia e all'estero, è questi proprio Bodini. Il cui ultimo esito poetico concresce senza soluzione sulle prime prove", p. 407. Replicò a sua volta Bodini al "Capo del Personale ermetico" che si assumeva "il compito di fare il cane da pastore del gregge ermetico" contro i transfughi (leggi Quasimodo) o presunti tali: "[ ... ] Nella nostra presente inimicizia fraterna [ ... ] dirò non per fargli dispetto, né per modestia, ma solamente per ristabilire le proporzioni, che nell'esperienza ermetica io fui un personaggio di terzo e persino di quarto ordine", V. BODINI, Risposta a Macrì, in "Esperienza Poetica", 3-4, luglio-dicembre 1954, p. 77 e ss. La controreplica di Macrì non tardò ed estese il campo del dibattito al metodo delle generazioni e all'antologismo: O. MACRI', Chiarimento sul metodo delle generazioni, in Realtà del simbolo, Firenze, Vallecchi, 1968, pp. 465-472, già in "Il Caffè politico e letterario", maggio 1955, pp. 23-24 con lo stesso titolo.
64) Cfr. M. DELL'AQUILA, Bodini e una linea nuova della poesia, in AA.VV., Le Terre di Carlo V, a cura di O. Macrì, E. Bonea e D. Valli, Galatina, Congedo, 1984, pp. 65-66.
65) Ibidem, p. 63.
66) O. MACRI', Chiarimento ecc., cit., p. 466.
67) Figura referenziale e invisibile è Albertina Baldo, torinese, futura consorte di Macrì, in quel tempo sua collega, giunta nel Salento per la prima volta.
68) Sul néant della poesia cfr. A. ONOFRI, Tendenze, in "La Voce", VII, 15 giugno 1915, pp. 723-730. Sul tema mallarmeano-onofriano così scrive D. VALLI: "Questo niente è una sorta di assenza attiva [ ... ]: una condizione grazie alla quale la realtà si spiritualizza, diventa fatto di poesia". In D. VALLI, Vita e morte del "frammento" in Italia, Lecce, Milella, 1980, pp. 10- 11.


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