§ Nostoi

Forse ora la pioggia




Antonio Errico



- Io conoscevo ogni arte della guerra, sapevo incitare le schiere alla battaglia, conoscevo le astuzie, gli inganni, sapevo penetrare di notte nei campi nemici.
Però da bambino non riuscii mai ad imparare come si guariscono le zampe ferite delle rondini che quand'è primavera precipitano sfinite sulla spiaggia.
Io sapevo domare i cavalli, calcolare il peso di spade e di scudi, potevo colpire anche al buio, sapevo decifrare le tracce su qualunque terreno.
Ma in un campo di grano non mi addormentai mai, non presi mai sonno stringendo una mano, e un sapore di donna non sapevo com'era, non passai mai notte ricordando un respiro.
Io sapevo cosa fosse un guerriero, come dovesse morire un guerriero, però un uomo no, non sapevo come dovesse morire. Un guerriero non ha sogni, non ha ansie, memorie, non ha indugi, rimpianti, paure, non è stato mai figlio e mai padre, non sa che siano la gioia o il dolore.
Queste cose le avevo sempre sapute.
Ma che un uomo potesse tremare, che potesse pregare, pensare di fuggire, tradire il suo onore, la sua gloria, questo non lo sapevo.
Quando vidi Turno lì, di fronte a me, capii d'essere un uomo.
Me ne accorsi così, all'improvviso, mentre giocavo alla guerra.
Non so cosa pensai in quel momento. Forse che l'estate era già arrivata, che la briglia era rotta, che il coraggio non bastava, che non è dal coraggio che si riconosce un guerriero, o che il sole era rosa, o che non era vero, che stavo soltanto sognando, che avevo tempo ancora per correre via, per scappare; o pensai forse al mare, a mia madre, al suo colore degli occhi.
Non lo so. Ma ricordo che Turno in quel momento mi parve un guerriero.
Mi guardai intorno. Guardai i compagni, i nemici, tutti intorno aspettando una morte. Guardai il cielo un'altra volta. Negli occhi passò il tempo che non avrei mai più avuto. Fui io a lanciare per primo il giavellotto. Ero bravo.
Pallante aveva vinto sempre ogni sfida.
Lo vidi sfiorare il braccio di Turno e piantarsi in un tronco d'ulivo.
Poi fu Turno a lanciare. Volò la sua lancia nell'aria, gemendo, smosse il vento, volò nel silenzio, fu terrore, bagliore, baleno.
Traversò la distanza, sfondò il mio scudo di bronzo e di ferro, si fermò nel mio petto. Ormai adesso non ricordo se ho sentito dolore. Forse no. Forse no. Ma ricordo un calore che m'infuocava le tempie, poi un freddo, poi un gelo.
Poi il cielo fu di polvere, d'erba rossa, macchiata di sangue.
Non so cosa pensai in quell'istante: pensai forse ch'ero un uomo davvero, pensai forse a un sorriso, una voce, o a un candore di neve, un colore, forse a un sogno che non ero riuscito a sognare.
E tornavano cavalieri in un tramonto, e ogni battaglia era già finita, e grida risuonavano, le grida; sui balconi crescevano i gerani; le coppe erano piene fino all'orlo; ardevano fuochi immensi nella sera, sporcavano il biancore della luna.
Pensai che avrei potuto avere anche fortuna. La fortuna è la dea d'ogni guerriero. Ma Pallante era un uomo. Solo un uomo.
Sentii la voce di Turno su di me: urlava qualcosa contro i miei compagni, contro mio padre Evandro, contro Enea.
Era lui il vincitore.
E io avrei voluto dirgli non violarmi, che questa morte sia morte di uomo, non voglio nessun onore di guerriero, voglio quella pietà che spetta a un uomo. Lasciami questo freddo, questo ardore, la voglia che ho di piangere, ti prego, fa' che ritorni da mio padre, uomo. Abbassami le palpebre, ti prego.
Avevo il cuore aperto come melagrana. E un fiore tra le dita. Ma lui urlava.
Mi tolse il balteo d'oro, la mia spada.
Non m'importava più: io ero un uomo: io avevo tristezze nostalgie perdono, mi tornava tutto il tempo in un pensiero: ero vecchio e bambino. Morendo nascevo.
Lui era un guerriero.
Sentivo il suo piede sopra la mia schiena. Ebbi pietà di lui. Pregai.
Poi strinsi più forte il fiore.
- Vieni, vieni. Siediti. Parliamo un poco. Tu hai più tempo adesso. Io ho molto tempo. Certi giorni mi annoio però in fondo mi piace questo non aver nulla da fare, questo tempo disfatto, indifferente, smisurato.
Una volta, di notte, mi facevano quasi paura tutti questi orologi che segnano ognuno un'ora diversa.
Poi mi ci sono abituato, forse perché ho capito che nessun orologio può segnare il tempo giusto o perché non m'importa più sapere l'ora, se non aspetto nessuno, non mi aspetta nessuno.
Tutte le volte che aggiustavo un orologio mi domandavo come fosse possibile pensare che piccolissimi pezzi - una corona, una ruota, un ingranaggio, le lancette dei secondi, dei minuti, delle ore - possano misurare la nostra vita, regolare le nostre passioni, le nostre sensazioni, le malinconie.
Vedi, basta poco, nulla, qualche secondo di più o di meno, basta una mia distrazione, un impercettibile tremore della mano perché tu viva in un tempo spostato, in un tempo che non è il tuo.
Pensi che quel dolore che provi, quei passi che senti allontanarsi o tornare, quel rumore improvviso, quel figlio che nasce, tutto quello che accade accada in un'ora che è tua.
Non è così: accade nell'ora che la mia distrazione o il mio tremore ha deciso.
Il tempo che abbiamo è dominio del caso o degli dei. Non lo so.
A noi comunque no, non appartiene. Noi abbiamo in dono solo l'istante che viviamo: un respiro debole, inconsapevole, che l'istante dopo può abbandonarci.
Noi abbiamo paura del tempo. Ci fa paura il sole che tramonta, il muro che si scrosta, il volto che si perde, la voce che si tace, l'inchiostro che scolora, la memoria che ci ingombra. Per questo inventiamo strumenti che ci diano l'illusione di poterlo controllare, di poterlo possedere in qualche modo.
Nessuno meglio di un orologiaio può capire quanto sia superfluo un orologio.
Ecco, guarda: guarda il pulviscolo nella lama della luce che penetra dalle imposte. Prova a misurarne il flusso. Oppure prova a misurare quanto tempo il suono di una mia parola rimane in questa stanza. 0 a misurare quanto dura una tua attesa, una tua ansia.
Guarda. Il tuo orologio è qui, Enea. Non l'ho aggiustato. Ogni tanto pulisco il quadrante col fiato.
Segna un'ora lontana che tu hai scordato. Cosa facevi in quell'ora? dormivi, sognavi, era alba, era estate?
Se io lo rimettessi in funzione adesso, tutto ricomincerebbe da questo istante, come se nulla fosse accaduto, come se tutto il tempo passato non fosse altro che una fantasia e noi non altro che fantasmi.
Sarebbe come cancellare tutto: morti, città, ricordi, i nomi, i luoghi. Non temere, Enea, non voglio disseppellire il nostro passato.
Ma tu devi capire cosa può pensare un orologiaio paralitico, con le dita che sembrano rami secchi, che vive tra orologi impazziti che gli impongono il loro tempo ritardato, anticipato, dilatato, il loro ticchettio ansimante, moribondo o frenetico e rabbioso.
Devi capire, Enea, quest'uomo che misura il suo tempo soltanto con i battiti del polso o col rumore delle tarme dentro i mobili, devi capire il suo terrore, la sua vertigine, la ruggine che gli vedi intorno.
Era il mio mestiere aggiustare gli orologi, ridargli vita, dare ad essi un respiro regolare. Era, come dire?, un sortilegio, un'arte superba e suprema.
Ne riconoscevo i guasti come si riconosce il respiro di febbre o di sogno di chi ti dorme accanto.
E' molto triste, sai, vedere all'improvviso le sfere immobili, sfiancate. Resti a guardarle e ti accorgi che ti manca il loro ritmo.
Allora pensi al battito dei polsi che senti sui braccioli della sedia. Non c'è differenza. So che è difficile spiegare.
Se qualcuno di voi ha pratica di rotte, se qualcuno di voi èmai rimasto stretto di giorno e notte a ruota di timone, se mai scrutò le stelle per capire qual è la direzione, soltanto quello forse può capire cosa racconterò.
Non c'era vento. Andava la nave lenta ma sicura. La luna era fioco lume nella nebbia.
Era notte di fantasie, malinconiosa, era notte di veglia quieta, memorante, notte che uno ha voglia di sognare, che ha voglia di scordare.
Qualcuno cantava a poppa un canto triste.
Il timone era leggero: lo tenevo soltanto con le palme della mano.
Si avvicinò un compagno a una cert'ora a dirmi: Palinuro, tu che più di noi conosci il mare, dimmi cosa racconta questa notte?
Il mare non racconta, gli risposi. Siamo noi che raccontiamo al mare. Il mare non ha tempo, non ha voce, è specchio scuro fondo silenzioso che chiude dentro sé ogni sussurro, ogni urlo, i segreti delle storie che noi gli confessiamo.
Raccontagli qualcosa tu, se vuoi; lui la conserverà dentro il suo vuoto con tutte le altre storie che ciascuno per una volta almeno ha raccontato.
Lui mi rispose: ho voglia di tornare. Ho voglia di casa e sonno.
Non mi piace questo silenzio, la foschia, questo cercare una terra sconosciuta, un nuovo regno.
Avremmo dovuto costruire sopra le macerie, restare a Troia prigionieri, schiavi, ma con i nostri morti, inventando un domani.
Palinuro, che senso ha mai questo navigare, mentre passa un giorno e una notte e poi ancora un giorno e una notte, e l'arsura ci mangia le labbra e il sale ci rode la pelle; navigare per quanto, per dove, Palinuro, per quale incerto approdo, per che sorte?
Ho voglia di tornare.
Così disse, e io non gli risposi.
Pensavo: navigare, ha senso solamente navigare, la meraviglia, l'ostacolo, l'incanto, il viaggio interminabile, un pensiero d'altro viaggio, il tempo sconosciuto, il terrore del naufragio.
Ha senso navigare senza meta, solo per sogno, per oblio, bisogno di scordarsi, di scordare, per non giungere mai in nessun porto.
Così pensavo mentre s'alzava il vento e il mare un poco s'ingrossava. Mentre la nave andava.
Se qualcuno di voi ha pratica di rotte, se qualcuno di voi sa come la stanchezza all'improvviso ti rapisce gli occhi, allora capirà quello che a stento ora riesco a dire.
Forse fu per fatica o forse per mafia, opera di un dio o di un demone, consolazione o inganno, il sonno che mi avvolse come dolcezza di un profumo mi lusingò come fosse sorriso di un'amante.
Ricordo che pensai devo svegliarmi, devo sciogliermi da questo turbamento, ma scendevo, sprofondavo in un vortice di tempo, in un pauroso abisso d'incoscienza.
Il sonno mi sembrò corpo di madre, eco di voce antica, richiamo, risuonanza, mi sembrò dura catena e volo leggero, la fine ed il principio d'ogni cosa.
Mi avvinse, mi stregò, mi trascinò lontano, oltre di me, oltre il mio pensiero, dove svanisce tutto e tutto è vago, nulla, possibile e impossibile, inconsistente, eterno.
Confuse vita e morte, il reale e il suo contrario, fu smarrimento e poi ritrovamento, fui vecchio e fui bambino, morivo e rinascevo. Non volli più svegliarmi da quel sonno.
- Non posso aggiustarlo il tuo orologio, Enea. E comunque non vorrei anche se potessi.
Il suo tempo è memoria, è il destino, è la nostra coscienza, è il nostro ostinato restare qui a domandarci ancora ragioni, è il nostro vegliare sui merli di notte perché il nemico non turbi più il sonno di chi ricordiamo, di chi pretende di non essere scordato fin quando a noi sarà concesso ricordare.
Adesso è tardi. Hanno acceso le luci. Mi ha fatto piacere rivederti.
Torna pure se vuoi, qualche volta. Ritorna. Tra poco finirà questo sferragliare di tram. Tra poco il quartiere non avrà più voci. Torna pure se vuoi, qualche volta. Ma prima di uscire per favore accendi quel lume davanti ai ritratti sul comò.
Torna pure se vuoi, qualche volta a rivederli.
Il tempo sta cambiando. Forse pioverà. Scusa la mia tristezza. Non scordarti i giornali. Devi affrettarti. Salutami Ascanio.
Come dici? è lontano? dove lontano... anche lui nel ricordo... dici ... anche Ascanio... Ma era solo un bambino... Quanto tempo è passato?
Chi è rimasto, Enea?
Si è fatto tardi. Forse pioverà. A quest'ora nessun treno parte più per dove vai. Si è fatto tardi. Sta già piovendo.
Puoi dormire qui, se vuoi, stanotte, Enea. Chiudi la porta.

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