§ L'inedito

Le nuove cavalle




Antonio L. Verri



Dalla gassenzimmer ne uscimmo in tre: io, Sally e Hallucigenia.
Chi è Hallucigenia? Hallucigenia è un esserino di un paio di centimetri che cammina reggendosi su sette paia di spine rigide e con sulla schiena sette tentacoli che finiscono con l'essere sette bocche.
Incontrammo altri amici. Solo uno di loro si unì a noi: era Opabinia, corpo vagamente cilindrico, sette centimetri, cinque occhi e una specie di proboscide. E noi fummo felici per questi nostri amici, che avevano organi in sovrannumero e forse si cibavano con radici di giglio, e forse erano in sintonia con luna e maree. La loro bellezza? La loro bellezza è quando cominciano a marcire, a sfinirsi. La bellezza è quando per loro cominciano a parlar le rose...
Ci trovammo improvvisamente in Una radura vastissima, piena di buona neve. Davanti, una montagna lucente. In lontananza una macchia scura, forse degli alberi. A non più di cento passi una casa di mattoni rossi, verso dove ci stavamo dirigendo. Io e Sally, con Hallucigenia e Opabinia che tentavano di tenere il passo salticchiando su quei pani di neve. Sembravamo delle comparse che passavano sullo sfondo di una scena piacevole e leggera.
Raggiungemmo finalmente la casa di mattoni rossi. C'era una sola finestra. Guardava verso quegli alberi in lontananza e aveva gli stipiti verdi. Salimmo sul parapetto. Noi quattro. E come da una tolda fantastica cominciammo a far capriole. L'avevamo sempre desiderato. In quelle lunghe giornate alla luce dei lampi verdi della gassenzimmer avevamo sempre pensato ad Un Posto come questo. Bianco, lucente, con solo quella macchia scura in lontananza, forse solo degli alberi. Noi quattro da questa tolda fantastica, preoccupati solo a fare scombinatissime capriole sulla neve. Tutto il giorno. Per tanti giorni. Scioccamente e allegramente. Accentuando anche qua: un po' come facevamo - altri giochi, però - nella nostra stanza a luci verdi nel cuore di Zurigo.
Il parossismo fu tale. Eravamo solo dei pani di neve. Il nostro rinfrancarsi fu tale...
La montagna sbavava una lava bianca, lattiginosa. Noi plaudevamo al suo corso che produceva figure di luce sottile, e intanto ci disponevamo dalla solita finestra con stipiti verdi per le nostre quotidiane capriole. Noi, immagini bianche, che per puro prodigio, o solamente per supposizione, celebravamo l'eterna nostra giornata con questo continuo, illimitato mischiarsi alla neve... Un peu du ciel habitait ces corps!
Un gros porteur trapassava felicemente le nubi, scrutato dalla lucente montagna. Noi guardavamo. Uno di noi disse che la montagna si nutriva del luccicore dei suoi prismi puri, della luce chiara del suo cielo, e che forse prima era un facilisco, non era una montagna. Oppure che era una montagna, ma che era stata tagliata di netto dopo aver corso chissà per quanto tempo.
Il grosso oggetto volante continuava stupidamente a trapassar le nubi. Un sipario così in alto. E come -ronzando, spiegando le ampie ali - gagliardamente tornava in scena!
Furono di nuovo accese capriole. infinitamente morbida quella neve. Spessa Così morbida. Antica e succosa come una grattachiecca. Un gran silenzio rotto solo dalle nostre grida di incitamento. Da soffocanti gridolini.
Veniamo da una stanza per gasati, disse l'altro. Sotto, la terra ammucchiava le sue tartine, i suoi perni logici, teneva al caldo la dimora del millepiedi, gli esili gruppi, i mille probabili timori. Sotto fremeva la vita in mille forme, le scritture proprio nel mentre che si scuotono, le palpebre, i succhi, la bocca...
La neve spessa che protegge i diversi, gli esemplari imprecisi, le ondulazioni, le pieghe rugose, i soffi...
Molte volte sostavamo sulla base di quella finestra che poi ci avrebbe visto piroettare. Guardavamo la montagna severa e bianca. Uno di noi avrebbe detto: chissà quanto altro di quel che di solito abbiamo intorno è rimasto confettato tra quelle lastre. Forse tra quelle lastre vive addirittura qualcosa che non abbiamo mai conosciuto, qualcosa di sontuoso, qualcosa che non si è mai saputo realizzare. E poi: sa vedere la montagna -rapida, lucente - il nostro grande fondo?
Io non so se tutto quel nostro dafare aveva un fine preciso, né se in realtà stavamo seguendo le tracce di una mappa visionaria, o se tutto quel che accadeva era dovuto alla presenza un po' insolita di questi nostri amici, oppure al fatto che Sally preferiva i colori chiari, sul marcire, che rendevano così mossa e irreale la stia figura. Delusi perché non saremmo mai riusciti a capire lo scorrere del tempo, quelle scritture e simboli serrati nel cuore di questa montagna, che non decifreremo mai e che forse narrano di come saremo inghiottiti, in quale modo vile.
E se il nostro fuoco e le nostre notti, e i nostri desideri, fossero chiusi in una pannocchietta poliedrica? Magari in tiri corpo di assoluta quiete, ma di fulgore intensissimo, un corpo senza alcuna necessità, forse tiri corpo di sole parti boccali, un corpo a tutto estraneo, vorace, che staziona sotto le città, o si allunga nei loro canali, e che a volte sibila lievissimo, come lo possono solo udire le nuove cavalle.
Intorno alla casa di mattoni rossi, prima che la neve coprisse tutto, ne ero quasi certo, c'era una serie di fosse, e in ogni fossa dei libri celebrativi mangiucchiati da pesci rosa, sulla destra i resti di una grossa fabbrica, un immenso cantiere, e della gente che spiava da un palazzo in degrado. Bisognava provare in molte maniere.
Continuavamo ad accendere sfrenate capriole. Sally diceva che visti da lontano sembravamo una nuvola sottile che spazzava la neve, e che le nostre smodate piroette producevano figure così lievi e di tale candore che potevano coincidere con i nostri desideri. Di tutti noi. Noi quattro. Hallucigenia, Opabinia, Sally ed io.
Mentre noi si piroettava, mentre saliva la nostra frenesia, mentre niente d'intorno poteva distrarci, mentre niente ci aggravava, mentre niente ci opprimeva, mentre le nostre urla di allegria a stento tenevano dietro al nostro delirio, ci accorgevamo di stare a produrre, incessantemente, delle lievissime figure così stupendamente simili a noi. Dei ritornelli, degli jingle, dei calchi bianchi erano sbozzati dal nostro moto rotante. Forse nascevano dai nostri polpacci una volta impressa la spinta.
In quella bianchissima radura, in quella immensa radura di gigli senza radici, noi, col nostro impeto, con le nostre sregolate capriole, con organi in sovrannumero, con le domeniche fuori posto, producevamo tantissimi altri di noi, convulsi, licenziosi, calchi candidi e leggeri, giocosi. Anche se con essenza d'ombre.
In forma fisica eccellente, in una giornata piena di un numero infinito di perfette capriole, noi potevamo riprodurre milioni di altri come noi, così simili a noi che era da escludere qualsiasi possibile idea, anche lontanissima, di mutazione genetica.
Hallucigenia contava quelle figure come a lei conveniva. Opabinia, con una grande tristezza nei suoi cinque occhi, era ferma - dato che anche noi ci eravamo fermati - in un cantuccio della casa di mattoni rossi. Noi, io e Sally, non ci avvicinavamo: eravamo convinti che certe enormità - e quelle tantissime figure in cui ci specchiavamo erano una enormità - tendono a dissolversi se avvicinate troppo rudemente.
Il nostro aspetto, se pur nobile e sobrio, non aveva la straordinarietà di quello della nostra amica Hallucigenia, della quale vantavamo il bell'incontro e la bella tenuta durante tutte quelle serie di capriole. Quindi affidare a lei la conta di quei tanti noi stessi ci parve la cosa più naturale di questo mondo.
Era una fredda giornata d'inizio primavera. C'era una neve poderosa. in lontananza sempre la macchia scura. Forse alberi. Sopra di noi una lucentissima montagna che ogni tanto - così ci pareva -sentivamo assestare. Titanica, solitaria, severa.
Solidificava ogni giorno in prismi puri. Era una nostra regina.
Fidavamo moltissimo in Hallucigenia, quel suo lavoro lo ritenevamo importante e necessario. Noi, cessato per un attimo di piroettare, guardavamo ad Hallucigenia come all'unico tra di noi che poteva farci uscire fuori da questo disagio, da questa faccenda anche un po' fastidiosa: la presenza in questo posto, così vasto e silenzioso, di tante figure a noi del tutto uguali, simili in tutto, mute, vitali, forse soffiate chissà in quale modo, forse annuncianti chissà che stolidezza. E che quasi quasi cominciavano a guardarci in cagnesco.
Non sappiamo come, né perché, ma io e Sally avevamo risolto che solo contandoli questi lievi nostri calchi, lievi ma insidiosi, nati in un modo così insolito, solo contandoli, forse, sarebbero spariti. In un tempo altrettanto rapido si sarebbero dissolti.
E Hallucigenia non era più quell'esserino di due centimetri che tutti conosciamo, quella piccolissima cosa con escrescenze e organi in sovrannumero che, per tenerci dietro, era costretta a salticchiare sulla neve. No, assolutamente, Hallucigenia era diventata, per effetto delle nostre attese, il Grande Uccello Bianco, nemico dei lunghi serpenti e forse di questi inconsueti simulacri che fino ad un attimo prima avevamo così abbondantemente prodotto. Insostituibile per noi, eravamo arrivati a riconoscerle sacralità, interezza, incorruttibilità. Anche perché l'improvviso terrore di quelle ombre a noi così simili era stato tale che non le vedevamo più come singole figure, come quelle tantissime proiezioni nate dal polpaccio di quei quattro scalmanati compagni che da una finestra con gli stipiti verdi, in una radura bianchissima, avevano continuato incessantemente a far capriole.
Non le vedevamo più come repliche, ahimé, non più come singole comparse, bensì come un grande corpo ingoiante, come corpo intero e immobile. Inviolabile. Tutti assieme i calchi di Opabinia, di Hallucigenia, di Sally e miei, come un unico grande corpo con ampie parti boccali, un terribile organismo, saldo, incrollabile, una rotondità così oscena, una grande insidia, una speciale insidia, del tipo di quelle con cui eravamo soliti familiarizzare nella gassenzimmer...
Le nuove cavalle che scrutano le città, e le assaltano e le divorano, non hanno bisogno che delle fanciulle, scostandosi il velo dal capo con le mani, indichino la via. Le nuove cavalle, figlie di questi tempi, si nutrono di oscurità ai margini dei canaloni o nei pressi del Limmat quando gonfia e annerisce - in quelle occasioni il fiume trasmette il suo umore alla città per bocca dei poeti.
Le nuove cavalle amano vivere le ombre quando è larga la luna: c'è chi le vede risalire il fiume come stelle un po' opache o chi le vede enigmatiche come luminosi poliedri. Cavalle spinte nella densa aria delle notti di Zurigo, che così lentamente percorrono, con il capo un mazzocchio, mentre la luna le colma di desiderio e le spara gioviali nel cuore delle forme.
Forse Piazza Central era solo parte di questa sconfinata radura zeppa di neve, forse quello che avevamo sempre chiamato il Grossmünster non era che una scheggia di uno dei prismi di questa immensa e severa, e lucente montagna; e le voci, le scritte sui muri, i cartelloni sulla Bahnhofstrasse, l'uomo delle tre ciotole, il titano che si stravaccherà sulla Niederdorf, i ragazzi che provavano l'arco guardando il Limmat, le vernici in Stampfenbachstrasse, forse non erano che sirene, ovattate cavalle allungate sul loro continuo desiderio. Le nuove cavalle.
Come tutto diventerebbe insignificante se non tornassero più...

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