§ Folclore fantastico tradizione

Gli uomini delle grotte




Eugenio Imbriani



L'attuale inadeguatezza della definizione di stampo romantico di cosa sia il popolo costituisce un problema per la disciplina che deve studiarne le cosiddette tradizioni. In altri termini, le categorie che hanno procurato schemi utili per la comprensione di situazioni e di contesti del passato (dialettica tra le classi, egemonia e subalternità, stratificazione sociale e culturale ... ) mostrano la corda, naturalmente perché anch'esse prodotti storici, nell'analisi dei folklore nel mondo contemporaneo.
In genere i punti di riferimento a cui si ricorre quando si parla di contesto folklorico sono la cosiddetta civiltà contadina e, nella società preindustriale, i pauperes, gli ignoranti, gli emarginati, e gli aspetti della cultura popolare coerenti con quell'universo: discorso tanto più accettabile quanto più ci si colloca da una prospettiva storica. I fenomeni folklorici direttamente osservabili sono altresì percepiti, al di fuori di quelle categorie di cui parlavamo, come decontestualizzati, privi di una coerenza funzionale che prima era molto più facile leggere (a meno che, come molti fanno, non si preferisca ancora vederli come figli di una antropologica permanente arcaicità).
Penso che coloro che praticano la ricerca sul campo si debbano preoccupare di descrivere ciò che osservano e registrano, che si possa evitare di vedere orge alimentari dove ci sono sagre; penso all'opportunità di considerare questi fenomeni comunque nel contesto in cui vengono osservati per cercare di comprendere il senso forse nuovo che hanno acquisito.
Non c'è da meravigliarsi della consunzione del tarantismo pugliese, e nemmeno che la tarantella sia trasportata sui palcoscenici dai gruppi folkloristici e che diventi il nucleo portante della musica rap mediterranea (purché non ci si prenda in giro con l'ideologia del ritorno alle radici).
Vorrei proporre un invito a considerare il folklore affiancando al concetto di tradizione, di cui parlerò più oltre, una categoria che non appartiene al dizionario teorico disciplinare ricorrente, il fantastico, i cui contorni sono stati precisati da Roger Caillois nel 1965: Al fantastico è dunque rottura dell'ordine riconosciuto, irruzione dell'inammissibile all'interno della inalterabile legalità quotidiana, e non sostituzione totale di un universo esclusivamente prodigioso all'universo reale" (1).
La concezione del fantastico che appartiene al senso comune è talmente comprensiva che, infine, definisce ben poco: in genere si considera fantastico tutto ciò che in qualche modo si allontana dalla realtà - a parte l'inflazione del ricorso al termine.
Esiste, secondo Caillois, un fantastico convenzionale, oppure un fantastico banale (come quello delle religioni che vivono nell'atmosfera del miracolo).
Il fantastico di Bosch, per esempio, appartiene a un discorso coerente, rappresenta un universo caratterizzato da sistematicità. Le figure costituite da miscugli tra l'inerte, il vivo, il costruito popolano un mondo, che più avanti verrà definito grottesco infatti, racconta Chastel, la scoperta delle grotte dell'Esquilino, cioè delle sale sotterranee della Domus Aurea di Nerone, hanno risvegliato l'attenzione degli appassionati e degli artisti tra gli anni 1480 e 1490. Gli esploratori ricopiavano le decorazioni murali sui taccuini e ne trasferivano i motivi nella loro pittura; la moda della decorazione a grottesche si fece immediatamente viva, per la singolarità e la bizzarria delle figure e per l'aura di antichità che le avvolgeva; tuttavia, anche qui, la bizzarria è regola: "perché dietro il pretesto dell'antichità si manifesta un principio stilistico totalmente opposto a quello che esige e fonda nello stesso tempo l'ordine classico. Possiamo mostrarne l'originalità attraverso due leggi, che determinavano ieri come oggi il fascino irresistibile delle grottesche: la negazione dello spazio e la fusione delle specie, la mancanza di gravità delle forme e la proliferazione insolente degli ibridi" (2); si tratta di un universo "così ben capovolto, sconnesso, scompaginato (come un puzzle dopo una mescolata ai pezzi), che l'insolito non vi ha più posto perché è ovunque. Ma l'insolito non esiste, non appare, se non trasgredisce e non incrina all'improvviso una regolarità ben stabilita e che sembrava imperturbabile" (3). Come ha scritto giustamente Henri-Jean Martiri a proposito dell'arte romanica: forme antichissime, "attinte alla memoria collettiva, fanno sorgere tutta una fauna di leoni, di tori, di grifoni, di centauri, che si ritrovano fin sugli scudi dei cavalieri. E tutto questo sotto il dominio di concezioni molto dotte, destinate a rendere visibile l'ordine armonico del mondo, che fanno dell'architettura e delle arti figurative come della musica e della liturgia dei procedimenti iniziatici (G. Duby, Le temps des cathedrales). Ossia un'estetica chiusa ed introversa destinata ai dotti. Ma anche una profusione di rappresentazioni dove tutto è linguaggio e pedagogia, dai peccati capitali scolpiti sui capitelli dei chiostri al Dio troneggiante in maestà e alla rappresentazione dei misteri divini inseriti nei timpani delle chiese, o anche alle scene della Scrittura e della vita dei santi, come pure all'immagine della maestà divina che si può contemplare negli affreschi delle absidi e dei cori trasformati in giganteschi album" (4).
Semmai più interessanti, secondo Caillois, sono gli Ambasciatori (alla National Gallery di Londra) di Hans Holbein: il teschio a figura deformata al centro del dipinto diviene intellegibile solo da una prospettiva che parta da un osservatore che si trovi sotto il quadro, a destra di esso: quando il teschio è visibile scompare il resto del dipinto, e cioè la ricchezza, la bellezza, la vanità delle cose; e dietro il teschio, in fondo alla diagonale, la figura seminascosta di un Crocifisso; il ricorso all'anafora in questo caso sposta e rende plurimo l'angolo visuale, e disloca, proprio fisicamente, l'osservatore. Lodi particolari per l'Allegoria del Purgatorio di Bellini (1495). In generale, tuttavia, durante il Rinascimento il fantastico non è fantasia, ma è inerente alle conoscenze che simboli, emblemi e rebus traducono.
Nella mitologia, poi, il fantastico non nasce dalla presenza del soprannaturale, ma dal suo contrasto con la concezione di un ordine immutabile, tutto sommato recente nella psicologia occidentale, "e che esclude il prodigio di una mutazione o di un transfert, di un passaggio o di una fusione fra la pietra e l'animale, fra la pianta e l'uomo. Lo stesso avviene per l'iconografia cristiana, in cui l'universo del sacro è così nettamente separato dal secolare. Vi regnano il miracolo e la grazia, i miraggi di Satana, i mostri dagli artigli sfoderati e le diavolesse nude che inducono in tentazione gli eremiti. Ora, la regola è inflessibile: niente di ciò che è oggetto di fede può apparire fantastico. Il fantastico scaturisce di nuovo dall'irruzione, in questo mondo visto con rispettosa devozione in cui il raccoglimento è di rigore, di un elemento di frivolezza che diventa sacrilegio" (5).
Caillois non parla di fatti della cultura popolare, ma questa è un'osservazione pertinente anche riguardo ad essi. La si confronti con quanto scrive G. R. Cardona a proposito della possibilità di uno studio antropologico della nostra società: "Quando si studia invece una società complessa si ha l'impressione di uno stato di continuo squilibrio tra frammenti di un sistema e frammenti di un altro, tra conservazione e innovazione: il vecchio è ormai fossilizzato e non più trasparente e vissuto, il nuovo è acquisito troppo in fretta e quasi a forza; l'impressione che se ne ricava è simile a quella che producono certi palazzi cresciuti su se stessi per aggiunta di strato a strato, nei quali l'arco medievale è ancora ben visibile, ma murato nella parete e magari ha accanto la porta moderna in metallo o il balcone a sbalzo in cemento armato" (6).
Partendo, dunque, da Caillois, definiremmo folklore quei modi di vita riscontrabili nelle comunità, quei fenomeni culturali che si possono considerare in qualche misura differenti, o, meglio ancora, incoerenti e contraddittori in rapporto al sistema di vita nazionale di cui si fa espressione il ricercatore. Poniamo il caso che il richiamo alla tradizione non sia essenziale alla definizione; ciò rende forse lo studioso più libero riguardo all'oggetto, obbligandolo però all'attenzione al contesto rispetto al quale il fantastico è fantastico. Si potrebbe facilmente citare, come esempio, l'inverecondia degli antichi Carnevali, delle feste dei folli e dei pianti funebri.
Mi fermerò brevemente sui dipinti ex voto: la quotidianità del sacro, la "normalità" del miracolo o comunque della richiesta di grazie, rendono quelle tavole attestazione e riconoscimento di una potenza che è efficace. Quelle stesse tavole viste con l'occhio dello studioso, dell'osservatore esterno, rappresentano uno scandalo proprio per la banalizzazione e la facilità del ricorso al sacro e della concezione di esso. A seconda del diverso punto di vista, dunque, anche ciò che da alcuni è concepito secondo la categoria della normalità diviene fantastico, eccezionale per altri. La rappresentazione del sacro delle tavole ex voto non è fantastica agli occhi dei produttori di esse, lo è solo per chi riesce a notare uno scarto tra quotidianità e miracolo. Il folklore è stato scoperto in questo modo.
Ex voto pittorici recenti (per esempio nel santuario dei santi Cosma e Damiano a Oria, in provincia di Brindisi) contengono la rappresentazione di generici e impersonali Cristi e Madonne, non le figure miracolose e ben caratterizzate iconograficamente dei santi taumaturghi: recuperando un'immagine pacifica e distante dell'essere sacro si separano dalle più antiche narrazioni dipinte delle grazie ricevute, in linea con una religiosità maggiormente convenzionale. Così le vecchie tavole, le tabellae che hanno la fortuna di essere discutibili in quanto oggetti magici, che appartengono alla religione itinerante dei pellegrinaggi e alle stranezze connesse, conservano ai nostri occhi a maggior ragione una connotazione fantastica.
Sul terreno della poesia popolare, inoltre, ben più di un secolo fa Ermolao Rubieri (Storia della poesia popolare italiana, 1877), individuando tra i valori di essa un "fare fantastico", segnalava che i canti popolari italiani non sempre sono familisti religiosi patriottici, come vorrebbe la retorica romantica, ma spesso oscillano tra miscredenza e superstizione e sono contrari al servizio militare.
Infine, non è possibile esimerci dal dovuto omaggio alla Scienza nuova (1725-1744) di Giambattista Vico. Il filosofo napoletano, pur collocandosi in un atteggiamento assai poco moderno nei confronti del pensiero dei contemporanei, ha tuttavia proposto numerose riflessioni molto anticipatrici: tra di esse l'incertezza dei modelli scientifici prodotti dai fisici e, ciò che più direttamente ci interessa, la diversità degli uomini e delle loro produzioni: "s'aggiunge qui la boria de' dotti, i quali, ciò ch'essi sanno, vogliono che sia antico quanto che '1 mondo" (7); Vico storicizza le tradizioni volgari, e affida i miti a un'età in cui l'umanità è assai poco raziocinante: "così ora ci è naturalmente negato di poter entrare nella vasta immaginativa di que' primi uomini, le menti de' quali di nulla erano astratte, di nulla erano assottigliate, di nulla spiritualezzate, perch'erano tutte immerse ne sensi, tutte rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite ne, corpi: onde dicemmo sopra ch'or appena intender si può, affatti immaginar non si può, come pensassero i primi uomini che fondarono l'umanità gentilesca"; condizioni analoghe si sono riprodotte, per la nota teoria dei ricorsi, in epoche più recenti: viene in tal modo affermata l'irriducibilità del pensiero mitico ai canoni di una metafisica "ragionata ed astratta". A prescindere dalle implicazioni che i filosofi contemporanei hanno tratto da siffatte posizioni, si può ricavare un contenuto morale da questo discorso: se vocazione elettiva dell'antropologia è la comprensione dell'alterità, tuttavia è bene che il suo compito non riesca compiutamente: "il programma di antropologizzazione non solo è limitato - scrive Remotti - ma deve saper accettare i propri limiti; non si può esaurire, portare a totale compimento; non si può, in altre parole, antropologizzare tutto. E questo non soltanto per difetto e limitatezza degli strumenti, ma anche per merito e virtù di quel "noi" che - in forme, modi, contesti diversissimi - si ostina con la sua opacità a rimanere tale, a non trasformarsi in "altri". Come possiamo ben apprendere da filosofi come Rousseau o come Wittgenstein, l'opacità è un fatto vitale; e gli antropologi devono rassegnarsi a pensare che gli uomini - qui e altrove, nelle nostre società complesse come nelle società apparentemente più semplici - sono sempre (e per fortuna di tutti) qualcosa d'altro, di diverso, da quegli "oggetti antropologici" che l'antropologia insegue e costantemente ricostruisce" (8). Evidentemente, dicevamo, se il fantastico diventa criterio per una definizione del folklore, diventa folklore tutto ciò che in una società veste i caratteri della sorpresa, dell'incoerenza: ma questo può valere per una grande scoperta scientifica come per il mondo della moda... La confusione rischia di diventare generale; è certo una soluzione che consente al demologo di compiere indagini sulle forme del sapere del mondo contemporaneo e sui comportamenti particolari di gruppi definiti di persone, come, per fare solo un esempio ricorrente, i tifosi, ma necessita di altri appigli concettuali che limitino lo spazio sociologico dell'indagine.
Secondo me, una definizione del folklore non può fare a meno del concetto di tradizione, purché ci si intenda sui termini: in comunità in cui la comunicazione si muove lungo l'asse portante dell'oralità, in cui l'analfabetismo diffuso è l'elemento caratterizzante, la trasmissione del sapere operativo è affidata all'apprendimento dei gesti in via imitativa, attraverso, cioè, la ripetizione di ciò che si guarda; sia l'acquisizione dei nomi delle cose che dei movimenti tecnici adeguati avviene, quindi, attraverso l'ascolto e l'osservazione, non tramite la ricerca di definizioni o la narrazione verbale. La necessità, propria della nostra cultura, di cercare, invece, le parole conduce a dare un nome a questo meccanismo, e il più giusto è, appunto, tradizione: essa significa, quindi, una tecnica di apprendimento, ovviamente tutt'altro che perduta oggi, ma che nel passato ha assunto il ruolo di una pedagogia esclusiva. In base a questa opzione, il folklore è scienza storica più che sociologica (9).
Tradizione, allora, non, o almeno non solo, come la piccola tradizione descritta nell'età moderna da Peter Burke e da Piero Camporesi, ma piuttosto secondo l'espressione demartiniana (10): nell'analisi dei fenomeni folklorici non bisogna dimenticare l'intreccio di eventi storico-culturali e la complessità delle vicende che nel corso dei secoli li hanno influenzati e modificati; e tuttavia il modo di apprendimento e diffusione delle tecniche - per esempio, quella del lamento funebre - è governato poco crocianamente dalla lunga durata, legato com'è alla ripetizione. Il demologo, insomma, e torno al concetto iniziale, non può fare a meno di lavorare sui contesti.


NOTE
1) R. Caillois, Nel cuore del fantastico, Feltrinelli, Milano, 1984, p. 92.
2) A. Chastel, La grottesca, Einaudi, Torino, 1989, p. 17.
3) Caillois, cit., p. 23.
4) Henri-Jean Martin, Storia e potere della scrittura, Laterza, Roma-Bari, 1990, p. 139.
5) Caillois, cit., p. 82.
6) G. R. Cardona, Etnolinguistica delle società complesse? in Antropologia delle società complesse, a cura di Tullio Tentori, Armando, Roma, 1990, pp. 99-100.
7) G. Vico, La scienza nuova, con introduzione e note di P. Rossi, Rizzoli, Milano, 1982, p. 175; le due successive citazioni sono alle pp. 265 e 261.
8) Francesco Remotti, Noi come i selvaggi, in Antropologia delle società complesse, cit., p. 98. Non a caso egli parla di antropofagia degli antropologi nel saggio Dai Wanande agli antropologi; cibo, essere e antropofagia, in Homo Edens. Regimi, miti e pratiche dell'alimentazione nella civiltà del Mediterraneo, a cura di Oddone Longo e Paolo Scarpi, Diapress, Milano, 1989.
9) Esemplare, da questo punto di vista, la posizione di F. Mirizzi, nel suo recente Tra la Fossa e le lame. Territorio, insediamenti, cultura materiale nell'Alta Murgia, Congedo, Galatina, 1990.
10) E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Boringhieri, Torino, 1983.


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