§ Il fuoco sotto la neve

Plenilunio matinese




Antonio Primiceri



Le scintille crepitanti salgono su ingoiate dalla cappa del camino. E' gennaio. Il freddo intenso dei Balcani mi ha rintanato in casa. Sono in cucina, la cui unica fonte di calore è il camino acceso.
Spegnere la luce e guardare il fuoco è come ritornare ai tempi dell'infanzia, quando il focolare era tutto per la famiglia. Vi è un grosso ceppo, sul quale sono adagiate "asche" di ulivo. La tremolante fiamma rischiara i muri sui quali si stagliano, come fantasmi, le nostre ombre. Ultimi guizzi di fiamma e poi le "asche" cascano, carboni vividi, per diventare cenere poco tempo dopo.
I ricordi si accavallano tumultuosi come marosi in tempesta. Quanti anni! In un'ideale passerella dal fondo del palcoscenico vengono avanti e transitano volti di persone care, amici, conoscenti, oramai cittadini del regno dei morti e del mistero.
Mio padre, mia madre, mamma Rosa, il mio amato padrino, nonni, zii e zie, cugini; ed ancora tanti e tanti altri di cui ricordo il volto, ma non il nome. Sembra una processione da Venerdì Santo, silenziosa, orante, infinita. Svaniscono tutti quanti nel nulla, l'infinito blu scuro della notte trapuntata di stelle li ingoia, dissolvendoli. Lasciano una scia: l'acre profumo della terra pregna della pioggia appena caduta, il profumo delle prime grolle del mandorlo in fiore, il conturbante effluvio delle prime violette, il sanguigno odore della mimosa...
Sono in terrazza senza accorgermene. Sulla collina di Sant'Ermete, lucente come non mai, si staglia la luna piena. Illumina tutta la valle, le case a ridosso della collina; in un gioco di luci e di ombre i suoi raggi si infiltrano nel groviglio del centro storico sino ad approdare alla facciata della chiesa madre, ove la statua ferrigna di San Giorgio sembra rianimarsi. Anzi, si è rianimata, scende, tocca terra sul sagrato, muove i primi passi. La piazza è deserta: un cane randagio, accovacciato all'ingresso del palazzo marchesale, si alza, si stiracchia, gli si avvicina, l'annusa, si inginocchia.
San Giorgio guarda la piazza: vuota, illuminata fiocamente da lampade consunte; è silenzio. I suoi Patrocinati riposano. Eppure, un tempo non tanto remoto, pervenivano sino alla sua altezza, nella nicchia, il pianto dei neonati, il brontolio del padre, la dolce nenia della madre per addormentarli. Ricorda con nostalgia la piazza brulicante di bambini nelle grandi solennità religiose ed in particolare nel giorno della sua Festa. In braccio ai loro genitori, sia in piazza sia lungo il percorso. della processione, si portavano la manina alle labbra ed inviavano alla sua immagine tanti e tanti baci. Lo invocavano, chiedevano la sua protezione, che rinnovavano i maschietti alla vigilia della partenza per il militare, e le ragazze quando si sposavano.
Tanta devozione è scomparsa. I bambini sono pochi rispetto a un tempo, ed appena puberi vengono fagocitati dalla droga, dal consumismo, dal deserto spirituale, dalla febbre di vivere.
Sconfortato, San Giorgio sta per librarsi in aria e rientrare nella nicchia. Si ferma, tende l'orecchio. Avverte, da lontano, un debole vagito di neonato. S'incammina lungo il rione "Carmine", da dove proviene il pianto; percorre un tratto di via Vittorio Emanuele, arriva al portone "de lu persiu", ove tanti secoli fa fu rinvenuta dai nostri antenati nella legnaia una sua statuetta lignea; s'incammina per via Verdi. Silenzio assoluto. Ammira il bianco nitore delle casette, che sembra madreperla alla luce lunare. Giunto a ridosso della chiesa del Carmine, vede una luce. Una nuvola di fumo bianco che si staglia eretto verso l'alto gli indica che in quella casa vi è gente; ode delle voci, ed una piena di felicità che grida: "E' maschio! Come lo chiamiamo?". Una voce forte, virile, risponde: "Giorgio!".
Il neonato, quale conferma del nome impostogli, vagisce ancora di più. Il nostro Santo, commosso, con un salto ritorna nella nicchia. Ode ancora flebilmente il pianto del piccolo Giorgio, e mormora: "Grazie, Signore! C'è ancora vita, c'è ancora speranza! Speranza di un domani migliore che è già oggi, nel pianto del piccolo Giorgio!".
La prima luce dell'alba e lo squittio degli ultimi pettirossi mi riportano alla realtà dalla fantasticheria in cui ero stato irretito. Guardo verso ovest. All'orizzonte vi sono dei puntini luminosi: sono le lampare che rientrano, festose, per la pesca notturna. La luna è al tramonto, diafana, il suo alone è caliginoso. La sua lucentezza si attenua innanzi al progredire dell'aurora che avanza prepotentemente. Verticalmente, sulla collina di Sant'Ermete, Venere emana i suoi ultimi bagliori.
E' un nuovo giorno.

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