"Non è
un viaggio a tappe, non è una via crucis, non è un roadmovie".
Gianni Amelio preferisce definire in negativo il suo ultimo lavoro.
"Non è un film a tesi, non è sull'infanzia abbandonata,
non è una succursale di Telefono azzurro". E' Il ladro
dei bambini, la storia di un giovane carabiniere calabrese che ha
l'incarico di condurre due ragazzini, fratello e sorella, da Milano,
dove lui lavora e loro vivono in uno squallido ghetto d'immigrati,
fino in Sicilia, dove saranno parcheggiati in un orfanotrofio. "E'
un film sul senso di disagio che pervade, in misura uguale, tutta
l'Italia", dice il regista. Il sentimento del viaggio però
è presente e percettibile; il film è un percorso di
rotaie e di strade, scandito dai luoghi deputati del passaggio: le
sale d'aspetto delle stazioni, gli scompartimenti e i corridoi del
treno, persino le sue anguste toilettes; l'abitacolo dell'automobile
dove si dorme un paio d'ore prima dell'alba, senza neanche spostarsi
dal sedile di guida.
E c'è un grande sole, ma per niente aggressivo, come di una
primavera inoltrata o di un inizio di estate mediterranea. Una stagione
mite che fa brillare i colori, che fa pensare alle vacanze, ai bagni
di mare, alle bibite ghiacciate. La dolcezza dei cieli sereni è
in contrasto doloroso con la violenza mai nominata ad alta voce, con
i cupi drammi della miseria e dell'innocenza violata, con il gelo
dell'indifferenza o dell'interesse superficiale e burocratico, che
percorrono come un brivido segreto e trattenuto queste tre anime naturali
e pudiche; non resistono alla vita, non si ribellano, ma scorrono
docili e sveglie in una corrente di vita baluginante, che è
come la vita nascosta e feroce di un fiume placido sotto un cielo
imperturbabile.
Rosetta, prostituta a undici anni, e Luciano, malato d'asma e barricato
dietro un muro di silenzio, non sono dei casi da prima pagina, né
gridano vendetta in quanto vittime di una tragedia sociale. E' vero
che il film di Gianni Amelio non è un film di denuncia, ma
di densa e sommessa verità. Sono un piccolo uomo e una piccola
donna con una storia alle spalle, una storia che pesa sul presente.
Certo, in quanto bambini sono più che mai commoventi, perché
il loro segreto sembra non potersi contenere in quei corpi minuscoli.
Ma non hanno bisogno di atteggiarsi a capri espiatori, così
come il film non ha bisogno di esporli come se fossero la bandiera
vivente di una disumanità sistematica. Eventualmente, la disumanità
appartiene al meccanismo, ma i singoli, tutti, gli adulti non meno
dei bambini, non sono che poveri esseri minacciati ma ancora capaci
di sorridere, di riflettere, di abbandonarsi a un gesto di tenerezza
o di solidarietà.
E se un'opera come questa, oggi, appare tanto più vera quanto
più è attenta alla vita incarnata, quanto meno vuole
essere l'enunciazione di un teorema, la spiegazione di un mondo o
la pretesa di una soluzione, lo spettatore degli anni '90 - il competente
e il critico prima di ogni altro - è costretto ad interrogarsi
sulle variazioni del gusto e della sensibilità, a cercar dì
attivare la propria cultura e memoria cinematografica, verificare
se non sia il caso di abbandonare le etichette e i discorsi involuti
a base di "-ismi" e provare a capire che cosa veramente
avviene, quanto il successo di un film può "anche"
essere lo specchio del suo tempo. Da qualche anno aleggia nell'universo
della critica cinematografica un mostro chiamato neo-neo-realismo.
E' nato, figlio presumibilmente non desiderato, sulla scia di opere
quali Meri per sempre di Marco Risi o Ultrà di Ricky Tognazzi,
che, accostandosi senza paura a certe realtà giovanili permeate
di brutalità e di malessere, recuperavano al cinema la sua
carica documentaria, senza tralasciare di andare alla ricerca di fremiti
di umanità e di dolcezza al fondo di esistenze disperate e
segnate dalla morte.
Se già è problematica l'etichetta di neo-realismo, questa
presunta rinascita, o almeno questa ennesima fioritura del vocabolario,
invece che di alta precisione specialistica finisce per essere indice
di somma ambiguità, magari involontaria (e ha ragione Amelio
a irritarsene, quando se la sente proporre a proposito del Ladro di
bambini). In realtà si capisce soltanto che vuol essere un'etichetta
meritoria, e che si applica a film legati in qualche modo a una "tradizione"
prestigiosa. Questa tradizione comprende da una parte, per esempio,
le ricerche di Visconti in direzione del recupero della grande lezione
del realismo narrativo europeo dell'800, alla luce della lettura politicamente
orientata fattane da Lukács; d'altra parte comprende anche
le teorizzazioni zavattiniane sul "pedinamento dell'individuo",
del vicino di casa, colto nel suo tempo quotidiano polverizzato in
una miriade di gesti banali, di attimi solo apparentemente vuoti.
Concezione di un neo-realismo rigoroso come un'ascesi, in anticipo
"filosofico" sul suo tempo, mai veramente realizzato al
cinema anche perché il suo ideologo fu sempre "bloccato"
di fronte alla tecnica, incapace fino all'estrema vecchiaia di compiere
il fatidico "salto" dietro la cinepresa che gli avrebbe
forse risparmiato, almeno in parte, dolorosi compromessi.
Se questo "neo-neo-" vada in una direzione o nell'altra,
se verso l'immediatezza dell'evento minimo o verso la vasta analisi
della società attraverso i suoi fenomeni, dove sia insomma
il titolo di merito implicitamente contenuto nella parola, non è
chiaro. E ha tutta l'aria di essere un dibattito accademico che non
vale più di cinque minuti d'attenzione. "Ciò che
conta è il realismo", dice ancora Gianni Amelio.
Tra i grandi realisti, Jean Renoir annoverava Shakespeare, Molière
e Charlie Chaplin. Ciò che conta è la verità,
o meglio l'emozione della verità, che è la traccia dorata
di questa inafferrabile dea.
Renoir intendeva dire che non è la rinuncia a qualsiasi ricerca
formale, o la volontà di ridurre al minimo la mediazione della
tecnica, a far percepire un'operazione come anti-intellettuale o anti-intellettualistica.
Sia il neo-realismo di Visconti, sia quello pensato di Zavattini erano
operazioni altamente formalizzate e profondamente intellettuali. D'altra
parte, è almeno da quando esiste la televisione, e sempre più
da quando la video-camera ha dovuto rinunciare alla pretesa anche
teorica, falsamente umile, di essere una obiettiva registrazione del
reale.
Anche la semplicità dello stile, l'assoluta sobrietà
del Ladro di bambini è il risultato di una scelta e il frutto
di una costruzione attentissima, tanto più attenta in quanto
il filo narrativo è tenue, quasi inesistente. E' la "conoscenza",
la cultura coniugata all'amore per le cose mostrate, a riscaldare
la temperatura "sentimentale" del film.
Amelio fa riferimento al migliore De Sica e lo dice, ma certo non
rinuncia alla propria storia di cineasta: distilla non soltanto la
propria esperienza di un uomo meridionale (Amelio è calabrese),
ma anche i propri "esperimenti" cinematografici del passato,
ricerche d'autore sin dall'inizio. La fine del gioco è un mediometraggio
televisivo del 1970, realizzato per la Rai dall' autore nuovo e allora
ventiseienne Gianni Amelio. Gli insonni delle notti di prima estate
si sono visti imbandire agli inizi di maggio questa preziosa riproposta
da cinéphiles alla tivù di Stato, ad un orario adeguatamente
selettivo: un'eco, ma anche un contrappunto al successo unanime dell'ultimo
film nelle sale italiane e al festival di Cannes. Non ha nulla dell'ingenuità
che ci si aspetta da un'opera prima: intreccia la forma dell'inchiesta
televisiva (un giornalista intervista un ragazzino ospite di un riformatorio
calabrese) con il documentario, il resoconto "su" quell'inchiesta,
sul paternalismo del giornalista, sugli equivoci della televisione,
sulla futilità di un impegno sociale rapidamente "consumato",
come si consuma un varietà o una partita di calcio nel proprio
salotto catodizzato.
Il tutto è realizzato con uno stile, questo sì, veramente
"inconsumabile", che non concede nulla ai ritmi dell'intrattenimento:
ci sono lunghe sequenze girate in tempo reale, in cui nulla avviene
se non la noia del bambino durante un viaggio in treno, mentre il
giornalista e l'accompagnatore del riformatorio sono assopiti; il
ripetersi ossessivo di certi piccoli gesti, i rituali della solitudine.
Ma proprio nel rigore impietoso di questa cinepresa si intuisce un
progetto forte, una scrittura minuziosa che sta dietro all'apparente
cattura di immagini di vita non selezionate. E infatti il giornalista
e il ragazzino sono due attori, almeno occasionali: interpretano un
ruolo, magari non lontano da una loro possibilità di vita futura
- il giornalista è Ugo Gregoretti, il ragazzino è un
vero piccolo proletario calabrese.
Allo spettatore del Ladro di bambini accade di sentirsi come un compagno
di viaggio casuale dei tre protagonisti, di vivere uno di quei risvegli
di solidarietà e d'interesse umano, fuggevoli e folgoranti,
che a volte suscitano le conversazioni imbastite in treno, o la semplice
comunione del breve spazio-tempo di uno spostamento: senza esito,
senza futuro, fra una stazione e l'altra come fra parentesi. E' uno
stato di grazia in cui si è capaci di ascoltare anche i silenzi,
di cogliere i moti di un'anima sconosciuta attraverso un fremito dei
lineamenti, l'indurirsi di un'espressione, tutte le spie dei pensieri
segreti che abitano dietro le facce che incontriamo ogni giorno. E
questa recettività è indotta da un controllo assoluto
sui dialoghi e sulle immagini, da una tecnica che diventa anche il
linguaggio di un discorso "civile", non enfatico, non urlato,
non folcloristico, sul Sud e sui meridionali.
Gianni Amelio rappresenta l'impegno e la competenza di un operatore
di cultura che rifiuta di darsi in pasto all'inciviltà dello
spettacolo e dello spettacolare, che vuole continuare ad essere nel
suo tempo e in Italia, eticamente, come promotore di dubbi e di inquietudini
se necessario.
Ed è necessario, in un universo che tende all'assuefazione,
paradossalmente minacciato dall'eccesso di informazioni.
Non è da oggi che i suoi film vanno ad agitare le acque falsamente
tranquille dove ristagnano, irrisolti, i grandi nodi del vivere sociale:
inventano un percorso di riflessione che parte dal sensazionale per
abbandonarlo subito e spingersi più a fondo, rivelando le possibili
incrinature alla base sommersa della costruzione umana, di cui i singoli
fenomeni, i 'Tatti di cronaca", non sono che la spia e l'emergenza.
In Colpire al cuore (1982) si trattava del terrorismo, in Porte aperte
(1990) dei rapporti tra l'individuo, la legge e il potere. Il ladro
di bambini descrive uno stato di marginalità e di dis-integrazione
che fiancheggia e percorre l'Italia degli anni '90, un lento dissolversi
del tessuto morale, che rischia di penetrare subdolamente le coscienze
e il quotidiano. Il ritorno al Sud non è affatto un recupero
di energie vitali: i mitici paradisi della natura e della naturalezza
del vivere sono sempre più ristretti e minacciati da ogni lato,
in balìa di un'angosciante precarietà. Il viaggio è
invece il rivelarsi sempre più definito di un malessere che
parte da lontano, dal cuore stesso delle metropoli, Milano e Roma.
Mentre i protagonisti ritrovano con fatica, nel più profondo
di se stessi, la possibilità e il piacere della comunicazione,
del rapporto, della responsabilità reciproca, il paesaggio
intorno a loro, nelle sue variazioni, non cessa di essere ostile o
indifferente nella sua assurdità; e si ha la sensazione di
muoversi fra le rovine di un disastro già avvenuto, senza rumore
e senza rimedio: i quartieri popolari inabitabili a Milano; la tangenziale
che quasi entra dentro le case a Roma; la stordita, indifferente convivenza
con i senza-tetto dei giardini pubblici; la speculazione edilizia
che ha massacrato le coste meridionali: quella grandiosa degli alberghi
mastodontici, semivuoti e inutili come monumenti all'arroganza, e
il suo frutto miserrimo, la case private pullulanti senza ordine e
senza vincoli. Segnali dell'incoscienza, della mancanza di punti di
riferimento che regolino i comportamenti, del sentimento di abitare
in un giungla dove gli unici valori paganti sono l'egoismo e la prepotenza.
Il senso di disagio e di deriva, di un futuro pericolante e irrisolto
che pesa sui protagonisti, ha dunque un segno tutt'altro che metafisico:
i due piccoli siciliani del film, se sono "anelli deboli"
di una catena sociale, sono però le vittime inconsapevoli di
una inquietante normalità. La loro condizione di disadattati
si radica profondamente nella realtà e nella storia degli errori
commessi da una classe dirigente che si è trovata a gestire
i destini di una nazione molto prima di aver elaborato, per se stessa,
una coscienza civica.
Ha ragione il regista, non si tratta di un film sul Sud: le ferite
aperte sono più ampie. E non esiste una "questione meridionale"
da affrontare in modo sconnesso con una generale questione italiana,
con una questione morale che, accantonata o derisa o rimossa per decenni,
doveva per forza prima o poi esplodere come una mina vagante, determinare
lo sfascio del castello di carta a cui si era ridotta e avvilita,
nella consapevolezza dei manipolatori come dei manipolati, l'antica
credibilità delle istituzioni, l'idea stessa della koinè,
della partecipazione alla vita pubblica. Questo però non è
esattamente il film Il ladro di bambini, accolto da lunghi applausi
al festival di Cannes. Il Premio speciale della giuria, che ha ratificato
un gradimento unanime e indiscusso, sarebbe difficile da capire se
si trattasse solo della descrizione di un italianissimo degrado. Il
fatto è che la capacità comunicativa di quest'opera
funziona a più livelli.
C'è il film abitato da Rosetta, Luciano e il carabiniere Antonio,
tre volti bellissimi, di un fascino esotico, antichi come le pietre
lavorate da generazioni di coloni arabi e greci; la storia del lento
e dubbioso schiudersi della fiducia e dell'affetto fra loro, raccontata
con un linguaggio cinematografico puro e rilassato, una cinepresa
che non filtra e non blocca, ma fa da veicolo trasparente alle emozioni.
Ed è un prodotto di qualità, giustamente apprezzato
alla vetrina internazionale della Croisette; ha i numeri, e già
lo dimostra, per diventare l'oggetto di un culto generalizzato, grazie
anche alle misteriose alchimie del mercato, al tam-tam che amplifica
il successo, alle vibrazioni raccolte e rilanciate dai mass-media.
C'è poi un possibile secondo grado di percezione, che forse
riguarda solo e soprattutto il pubblico italiano, e che potrebbe anche
restare sotto il livello della consapevolezza. E' la sensazione di
bruciante con~ temporaneità, di chiarezza dello sguardo sull'Italia
com'è realmente, come non sempre, pure vivendoci, riusciamo
a vederla. Gli occhi, confusi da troppe cartoline, da troppa retorica
delle immagini belle o brutte, turistiche o da cronaca nera, avevano
perso la loro funzione di collegamento fra le cose e la mente. Amelio
ci restituisce questa "funzione dello sguardo" senza violenza,
solo con la scelta precisa dei luoghi fotografati: mai protagonisti,
solo ambienti, sfondi, scenari; che ci appaiono così uguali
a ciò che conosciamo, che amiamo o odiamo senza neanche saperlo,
eppure così diversi da ciò che credevamo di conoscere.
E' la rivelazione della coscienza di un'Italia che ci circonda e ci
penetra, della nostra coscienza assopita per abitudine o per pigrizia.
Ciò che commuove più intimamente è l'onestà
di questo cinema, la pacata saggezza del suo autore: poiché
è un fatto inusuale che lo spettatore si senta trattato come
un adulto, chiamato in causa su una base di razionalità e invitato
ad attivare il cervello attraverso il cuore. Gli "effettacci"
della seduzione cinematografica hanno una tradizione antica quanto
il melodramma (e cioè molto più antica del cinema stesso),
e possono essere usati anche con le migliori intenzioni.
I "neo-neo-realisti" come Risi e Tognazzi, che peraltro
i meccanismi del grande artigianato cinematografico italiano li hanno
introiettati tra le pareti di casa, hanno lavorato anch'essi sull'attualità;
va loro riconosciuto il coraggio vitale di aver aperto le finestre
sulla strada invece di continuare a rimestare i malesseri privati
della loro generazione in crisi. i loro film sono stati apprezzati,
ma non si è potuto amarli. Restava comunque il senso indistinto
di una manipolazione, per quel loro "colpire basso,, che era
sì un attacco viscerale all'indifferenza di un immaginario
sotto anestesia, ma anche, ammettiamolo, una strizzata d'occhio al
mercato e al cinema popolare.
Non si rinuncia senza rischio all'elemento melodrammatico, alla storia
d'amore senza speranza, al sacrificio finale dell'eroe carismatico.
Niente da dire: è circa un secolo che il cinema funziona sulle
infinite variazioni di questi moduli; senza voler risalire più
indietro, alle radici antropologiche dei generi spettacolari. E' sempre
esistito un modo non cialtronesco, anzi un mirabile equilibrio di
camminare sul filo della doppia esigenza di comunicare un messaggio
personale, forse importante, e di dare al pubblico ciò che
esso può riconoscere: di trovare uno spazio tra le urgenze
autoriali e quelle dell'industria. Ma questo margine di ambiguità
non sembra interessare a Gianni Amelio, il quale si ostina a presumere
un pubblico di interlocutori che siano cresciuti rispetto alla potenziale
l'età psicologica" di dodici anni che gli antenati hollywoodiani
attribuivano allo spettatore medio.
Se questa ostinazione gli ha creato qualche difficoltà nel
misurarsi con le regole della grande distribuzione, Amelio è
però sempre riuscito a non essere un autore emarginato; e questo
proprio in virtù del suo "non sentirsi" emarginato,
della sua solare, umanistica fiducia nella forza dell'intelligenza.
Ha coltivato inoltre il suo indiscusso talento visivo, la facoltà
di osservare e di costruire raccontando "da cineasta", realizzando
opere ineccepibili dal punto di vista della cura formale, capaci di
aprirsi nel proprio conto uno spazio di apprezzamento e anche di mercato,
magari d'élite ma in fluida comunicazione con altre fasce di
pubblico più allargate. Lo dimostra la sua costante disponibilità
nei confronti della televisione, medium popolare per eccellenza.
Vorremmo che il successo del suo Ladro di bambini fosse molto più
che un altro episodio rilevante per gli studi sociologici sui "fenomeni"
culturali (che restano comunque interessanti): vorremmo che fosse
il segnale inequivocabile che Amelio ha avuto ragione. Ragione di
mantenersi fedele a se stesso, ragione di credere nel suo lavoro.
E soprattutto ragione di aver fiducia nel pubblico, in una generale
capacità di progredire anche nel discernimento del buon cinema,
dei buoni film da andare a vedere. Se "il mercato" si rivela
"maturo" per questi film, lasciando agli operatori economici
del settore l'onere delle conclusioni che vorranno trarne, noi possiamo
sperare di non essere destinati unicamente a far parte di un mercato
universale, ma di essere chiamati come interlocutori altrettanto maturi
in un discorso di civiltà, di cui il cinema sia uno dei veicoli
e gli intellettuali, anche attraverso il cinema, uno dei promotori.
Chiunque ami il cinema sente ogni tanto la necessità di difendere
un l'alto profilo" dell'oggetto del suo amore. Ci sono molti
modi dì farlo, e i più efficaci sono i meno snob, i
meno arroccati, i più serenamente dialogici. Gianni Amelio
ha dato a tutti un saggio di questa efficacia armata di pazienza.
Nel finale di Porte aperte il giudice e l'agricoltore, l'uomo di pensiero
e l'uomo naturale, fanno il bilancio di una loro comune, effimera
vittoria che è anche una sconfitta, poiché non ha cambiato
il mondo. Il processo d'appello cancellerà la loro sentenza
in favore della vita, la pena capitale sarà comunque applicata.
Eppure un seme è stato gettato, e la natura vorrà che
germogli prima o poi, inatteso, come una bella sorpresa o un'idea
luminosa e solo apparentemente casuale.
Il ladro di bambini, il suo successo, è un po' così:
anche se i film non cambiano il mondo, possiamo riconoscere e festeggiare
il frutto, tutt'altro che casuale, dei semi sparsi pazientemente,
fiduciosamente, dall'intellettuale e dal contadino. Dalla semplicità
e dall'intelligenza di Gianni Amelio. Un frutto che ha trovato finalmente,
si spera almeno, la sua stagione ideale.
Nota - Le dichiarazioni
di Gianni Amelio sono tratte da un'intervista, a cura di Giovanni
Bogani, pubblicata in "Vivilcinema", mensile d'informazione
cinematografica della FICE (Federazione Italiana Cinema d'Essai),
anno V n. 40-41, marzo-aprile 1992.