§ Stato e criminalità

Se l'Italia perde il Sud




Alessandro Galante Garrone



Quel che ha scritto Giovanni Falcone non è una solenne apostrofe di bella ma inutile retorica, e neanche un patetico grido di angoscia, ma il virile richiamo di chi ha speso anni e anni della propria vita, esponendola - come tutti sanno - a un rischio mortale, per combattere la mafia sul campo, radunando attorno a sé le forze più risolute della magistratura e della polizia, e che aveva saputo creare un efficace strumento di azione, al di là delle inveterate lungaggini burocratiche e dei torbidi legami tra mafia e politica.
Uno strumento malauguratamente osteggiato e indebolito.
Alla luce di queste vissute e spesso tragiche esperienze, ci sembrano pienamente accoglibili le conclusioni a cui egli giunge.
Il primo, urgente, improcrastinabile problema non è quello di dar mano a leggi eccezionali, e, ancor meno, destinate a qualche regione del Sud, ma piuttosto di "finalmente iniziare a imporre l'ossequio della legge ordinaria, e garantire già oggi la presenza dello Stato attraverso una delle sue funzioni primarie: la giustizia".
Il dilemma non poteva essere esposto con più perentoria e convincente chiarezza. Si tratta, insomma, di garantire fin da oggi la presenza dello Stato là dove essa sembra ormai dileguarsi nel nulla; e garantirla non con le solite "fughe in avanti", con le "inutili polemiche dettate dall'emozione del momento", bensì con immediati interventi basati sull'esistente, che attende soltanto di essere compiutamente e seriamente "razionalizzato". Questo ci pare il dovere che incombe su tutti, dal primo all'ultimo cittadino.
Detto questo, dobbiamo domandarci: ma perché proprio nelle regioni meridionali lo Stato è ormai quasi inesistente? Non c'è nulla di esagerato in questa nostra realistica constatazione. Ricordo un episodio di alcuni anni fa. Leonardo Sciascia mi aveva scritto amichevolmente, confutando un mio articolo intitolato "Lo Stato comincia da noi". Mi diceva (e cito a memoria, con qualche approssimazione): "Sì, certo, lo Stato comincia da noi; anzi, per me, comincia addirittura da me stesso. Ma che cosa è ormai diventato questo Stato nella mia Sicilia, e che cosa ho io a che fare con esso?". Oggi devo riconoscere che Sciascia aveva qualche buona ragione dalla sua.
E così il discorso si sposta. Ma perché proprio lì e non nel Trentino, o nel Piemonte e Valle d'Aosta, o in Lombardia? E' un discorso che, a volerlo fare in termini di riflessione storiografica (tante volte affrontato, da Gaetano Salvemini e Giustino Fortunato a Giuseppe Galasso), ci porterebbe troppo lontano. Limitiamoci a questi nostri tempi, lasciando da parte le stantie rampogne di un antimeridionalismo quasi razzistico, oggi risfoderato a nuovo da caotici e rozzi schieramenti politici del Nord Italia, che offendono l'intelligenza critica e la dignità civile di tanti cittadini pensanti. Basterebbe l'esempio di uomini come Falcone e Borsellino a ridicolizzare per sempre certi assiomatici giudizi, mi si passi la parola, disgustosi. E non si tratta, si badi bene, di pochi degnissimi individui, di eccezioni "che confermano la regola". Avete visto alla televisione le ragazze di Taurianova, avete sentito la protesta di tanti giovani siciliani, e calabresi e napoletani? A questi cittadini dobbiamo tutti unirci in un sentimento di solidarietà profonda. Non sono terre coloniali, alle quali si debba portare la luce di una superiore civiltà. Siamo fatti tutti della stessa pasta umana, nel bene e nel male. Certe tendenze criminali possono più facilmente allignare nelle aride contrade del Sud, ottenebrate da secolari oppressioni e miserie. Ma altre tendenze delittuose, di natura magari più subdola, occulta e sofisticata, e non meno degradante, si insinuano nelle banche e nei grandi complessi finanziari del Nord. Le diversità fra loro dipendono da ragioni storiche e socio-economiche. Sono tutti problemi, gli uni e gli altri, che sempre più coinvolgono l'intera compagine nazionale.
Dobbiamo, dunque, insieme sentirei impegnati in questa lotta da cui dipende l'avvenire del nostro Paese. Si pensi, per un momento, alla legge Rognoni-La Torre, e a quel che ne dice Falcone. La stessa intitolazione di questa legge - che congiunge i due bei nomi di un lombardo e di un siciliano -sembra simboleggiare quell'unità nazionale che dobbiamo rafforzare giorno per giorno. Non dimentichiamo che la stessa Resistenza armata, conclusa nell'Italia del Nord, è cominciata con le giornate di Napoli. E pensiamo anche ai tanti operai e artigiani meridionali immigrati al Nord, dei quali abbiamo potuto ammirare la laboriosità, l'intelligenza, l'onestà. Sia infine consentito a questo vecchio giudice piemontese di dire grazie a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.


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