§ Mafia & mafia

Ma chi ha imbarbarito questo Paese?




T. C.



C'è un intervento militare in Sicilia nell'atto di nascita dello Stato unitario italiano. Anzi, quest'intervento militare addirittura precede il marzo 1861 e la ratifica parlamentare dell'avvenuta Unità sotto la corona dei Savoia. E' l'intervento di Nino Bixio nella tenuta Nelson a Bronte il 4 agosto 1860, dopo la dichiarazione dello stato d'assedio che porta a fucilazioni e ad arresti in massa. Solo che, ad essere fucilati ed imprigionati in nome dell'ordine pubblico, non sono mafiosi e criminali. Sono contadini, povera gente di campagna, sollevatisi per rivendicare quello stesso diritto alle terre che l'esercito garibaldino aveva promesso di garantire, prima che la realpolitik cavouriana facesse prevalere la scelta di sposare invece gli interessi dei grandi agrari.
Quel primo intervento dell'esercito a Bronte si può considerare emblematico - e programmatico - del rapporto che il nuovo Stato unitario stabilisce con la gente di Sicilia, e del blocco sociale che dominerà il Paese. Lo Stato sceglie di stare con i latifondisti, contro i contadini, a cui viene negata la riforma agraria, e negli anni lascia che cresca e proliferi una forza che mantiene l'ordine con il tramite dei campieri, in campagne lontane dal potere centrale e a volte anche dalla persona del feudatario. Allora, chiedere a chi scrive che "oggi il Sud sta imbarbarendo l'Italia" di quanta barbarie sia stato invece capace il potere centrale, domandare al professor Miglio com'è possibile che la gente di Sicilia "se la sbrighi da sé" in una situazione prodotta da altri, potrà anche sembrare un modo di attizzare la polemica Nord-Sud. Ma è necessario farlo, se ci si vuol mantenere in una prospettiva storica utile a capire che quanto accade in Sicilia solleva problemi derivanti dal processo di formazione dello Stato italiano, e riguardano dunque l'intero Paese.
"Solo grazie alla mancata riforma agraria dell'Italia del Risorgimento la mafia potè mantenere il proprio potere nelle campagne, e diventare controparte del potere politico, non identificandosi con esso, ma in un do ut des utile per tutti e due", è la notazione che Napoleone Colajanni pone al centro della sua analisi sulle origini rurali della mafia e sulle responsabilità statuali. E d'altra parte, ripercorrendo rapidamente la storia degli interventi militari in Sicilia, si può notare che sull'impegno di lotta alla mafia i governi post-unitari sembrano privilegiare nettamente l'azione di repressione contro i contadini. Ancora nel 1894, viene proclamata la legge marziale. C'è molta miseria nelle campagne, dopo che la politica doganale del primo governo Giolitti ha penalizzato l'agricoltura del Sud. E' allora che sorgono i Fasci dei lavoratori, allo scopo di protestare contro le scelte governative. Ed è allora che i proprietari terrieri sollecitano l'intervento dello Stato, arrivando persino a domandare, in un'assemblea di agrari a Caltagirone, che sia proibita l'istruzione popolare. E Francesco Crispi accoglie l'appello (lei latifondisti, quando torna al governo dopo lo scandalo della Banca Romana che travolge il primo gabinetto Giolitti. Ed è allora che l'esercito torna in Sicilia, conferendo pieni poteri al comandante del Corpo d'Armata di Palermo, poiché, come dice Crispi, "infondere nell'animo delle plebi che il possesso degli attuali proprietari sia violento, che esse abbiano diritto alla divisione delle terre, importa lo stesso che alimentare il pensiero del delitto". Secoli di carcere vengono inflitti agli animatori dei Fasci siciliani e a contadini arrestati sulla base di semplici sospetti, mentre si usa la manica larga con chi è coinvolto negli scandali bancari.
Intanto la mafia può proliferare, può ampliare il suo giro d'affari e rafforzare il suo ruolo di mediazione politica: c'è un volume dell'antropologo Anton Blok, "La mafia di un villaggio siciliano", che descrive bene tale processo tra il 1860 e il 1960 in un paese a cui si da il nome di Genuardo. Così il Fascismo eredita una situazione in cui alle cosche rafforzate si intrecciano le clientele nittiane e orlandiane, determinando una miscela d'ingovernabilità in Sicilia. E al nuovo regime è subito chiaro che l'intervento nell'isola si pone come un banco di prova, come un test: sia per accreditare di fronte all'opinione pubblica la propria capacità di controllo dell'ordine pubblico, sia per avvalorare un'immagine di sé diversa da quella del precedente regime liberale, definito "imbelle e rinunciatario". E ancora la Sicilia ha a che fare con un ingente spiegamento di forze militari, il più forte che abbia mai visto, e questa volta contro la mafia: è l'intervento guidato dal prefetto Mori, la cui logica si può riassumere nella frase: "Se i siciliani hanno paura dei mafiosi, io li convincerò che io sono il mafioso più forte di tutti".
"Siamo davanti a un servitore dello Stato nella sua continuità, ma anche ad uno di quei "tecnici" nittiani che videro nel totalitarismo la grande possibilità di mettere a frutto le loro competenze senza i vincoli del sistema parlamentare", è l'opinione dello storico siciliano Salvatore Lupo, autore di una monografia sul Fascismo nel volume einaudiano della Storia della Sicilia. E Arrigo Petacco, nel suo "Prefetto di Ferro", ricostruisce con ampiezza l'occupazione militare promossa per dieci giorni da Mori nel paese di Gangi: "La sua prima trovata consiste nel far spargere la voce che gli ostaggi di Gangi stanno subendo in carcere ogni sorta di maltrattamenti e che, in particolare, "gli sbirri si fottono le donne dei banditi". Più mafiosi dei mafiosi: e sfidandoli sul loro stesso terreno, innescando una competizione sul piano dell'onore, Mori celebra la sua vittoria con uno storico discorso nella piazza di Gangi, dopo aver fatto arrestare 450 persone, di cui 300 per favoreggiamento. E ancora dal '26 al '28 effettua moltissimi arresti a Bagheria, a Misilmeri, a Piana dei Colli, e addirittura undicimila arresti nel solo 1928, potendo contare sull'appoggio della magistratura, e soprattutto sul procuratore palermitano Giampietro, concorde con Mori sulla metodologia d'intervento. C'è da dire che, dal 1 'autobiografia di Mori, emerge una visione organica della mafia, che ne rivela una profonda conoscenza: per esempio, il Prefetto di ferro mette l'accento sulla necessità di potenziare i livelli investigativi, e non solo quelli militari; si dice a favore del trasferimento in massa dei mafiosi dalla Sicilia °("Levato dall'isola e trapiantato altrove, solo, il malvivente siciliano si perde facilmente"). Gli argomenti, le misure da prendere, insomma, erano gli stessi sui quali ancora oggi si dibatte: e non è certo di conforto notare che non si sia fatto alcun passo avanti su questo terreno dall'epoca fascista.
La "cura Mori" - che produsse non pochi abusi, con gli arresti di intere famiglie dalla presunta appartenenza mafiosa - fu considerata un gran successo, il che non impedì alla mafia, nel dopoguerra, di presentarsi ancora più forte. Quanto al prefetto, la sua carriera finì, sì, in gloria con la nomina a senatore del Regno: ma fu una giubilazione, escogitata per eliminare Mori che, prendendo alla lettera l'invito di Mussolini di colpire "in alto e in basso", aveva accusato il potente federale di Palermo, Alfredo Cucco, di complicità con la mafia.
Storie di collusione tra potere politico centrale e potere mafioso diventate, purtroppo, di repertorio nella più recente vita italiana, in modo più evidente dalla vicenda di Salvatore Giuliano in poi. E queste storie entrano nella cronaca tremenda dei nostri giorni, con la mafia al potere nelle città degli speculatori fondiari, del traffico di droga, degli assassinii dei magistrati. Ci entrano come biglietto da visita di uno Stato che, dopo il 1860, non fu all'altezza del suo compito di fronte ai problemi del Sud. Ci entrano come risposta alla dolorosa domanda: chi ha davvero la responsabilità di aver imbarbarito il Paese?

Mafia & mafia / Come una cortigiana

La mafia di Mori

Il brano è tratto dall'autobiografia di Cesare Mori "Contro la mafia ai ferri corti", edita da Mondadori nel 1932. illustra le idee sulla strategia di lotta alla mafia del "Prefetto di ferro".

Credo che polizia, in se stessa, sia soprattutto psicologia; nella funzione, civile milizia; nel fatto, azione.
Taluno riteneva pericoloso eccitare la popolazione alla reazione diretta contro la malvivenza ed incardinare su di essa un 'azione che dovrebbe essere funzione esclusivamente statale.
Io penso invece che la lotta contro la malvivenza - specie quando questa è soverchiante anche per difetto di manifestazioni reattive ambientali - non sia tal cosa cui la popolazione debba rimanere estranea o semplicemente spettatrice.
Che si debba punire chi minaccia, è giusto, è doveroso ed è necessario; ma io, non comprendo, ad esempio, perché non si debba provvedere - sia pure in forma ed in proporzione diversa - anche contro chi, senza concreto ed adeguato motivo, alla minaccia cede.
Quando, ad esempio, chiamando in linea la popolazione la incitavo alla denuncia leale ed aperta, alla testimonianza coraggiosa, alla reazione diretta, qualcuno protestò sottomano dicendo che io la spingevo alla delazione.
Convengo che dal suo punto di vista aveva ragione. Negli ambienti e per la mentalità di mafia, infatti, la testimonianza dinanzi alle Autorità è delazione e tanto più è delazione quanto più è leale, aperta e coraggiosa.
Quando, purtroppo, si dovettero vedere autocarri carichi di sciagurati avviati alla espiazione di un passato di colpe, qualcuno - che non si era sdegnato mai al passaggio dei dolorosi cortei funebri nei quali troppo spesso si affermava la disfrenata attività della malvivenza - protestò pel doloroso spettacolo che ... diffamava la Sicilia.
Ma mentre contro costoro si levava, come dissi già, la severa parola del Duce, io pensavo alla curiosa inversione cui si pretendeva arrivare identificando la Sicilia coi suoi fuorusciti dalla legge e dall'ordine morale e gabellando per diffamati coloro che della Sicilia erano stati i veri diffamatori.
Anche in questo, però, nessuna meraviglia, perché, come abbiamo veduto, una delle caratteristiche della mafia è appunto l'inversione etica.
Così si attese che l'azione repressiva si adeguasse all'attività dilettuosa da reprimere, per gridare alla esagerazione.
Effettivamente ai lontani ed agli ignari l'azione in se stessa poteva apparire forte. Ma nessuno immaginava che l'attività criminosa da reprimere fosse giunta agli eccessi cui era arrivata. La mafia, però, lo sapeva e vi giocava prospettando al solito le cose per inversione.
Si gridò all'arbitrio, all'abuso, all'ingiustizia; ma è sempre stato e sarà sempre così. Quando mafia e malvivenza sono in ballo, incominciano deliberatamente di là. Tanto, non ci perdono nulla. Dato poi, e non concesso, che siano in buonafede, esse giudicano istintivamente le azioni altrui alla stregua delle proprie concezioni morali e... giuridiche: vale a dire, anche qui, per inversione.
Si gridò anche - ma questa fu esclusivamente la mafia e chi per essa - alla persecuzione, magari per residui riflessi elettorali o di politica localista. Ed anche qui non è il caso di meraviglie. La mafia è una vecchia cortigiana che ama strofinarsi cerimoniosamente e sommessamente alle Autorità tentando adularle, circuirle e... narcotizzarle.

Mafia & mafia

I nemici di Cosa Nostra siciliana

LEONARDO VITALE
Inizio della collaborazione: 1973, Palermo
Famiglia di riferimento: Palermo - Porta Nuova
Risultati: rivela per primo che Totò Riina guida Cosa Nostra e viene condannato per le sue confessioni. Uscito di carcere nel 1984, è ucciso.

GIUSEPPE DI CRISTINA
Inizio della collaborazione: 1978, Caltanissetta
Famiglia di riferimento: Badalamenti - Inzerillo -Bontate
Risultati: il boss di Riesi, tenta inutilmente di mettersi in contatto con i carabinieri. Pochi giorni dopo viene ucciso per ordine dei Corleonesi.

TOMMASO BUSCETTA
Inizio della collaborazione: 1984, Palermo.
Famiglia di riferimento: Badalamenti - Inzerillo -Bontate
Risultati: è il pentito più importante per la sua grande esperienza in Cosa Nostra, nella quale milita dai tempi di Lucky Luciano. Il suo contributo è fondamentale, fra l'altro, per il maxiprocesso di Palermo. I Corleonesi gli uccidono dieci parenti, compresi due figli. Vive nascosto e protetto negli Stati Uniti.

SALVATORE CONTORNO
Inizio della collaborazione: 1984, Palermo
Famiglia di riferimento: Inzerillo
Risultati: collabora alle indagini che porteranno al maxiprocesso. I Corleonesi gli uccidono trentacinque parenti.

ANTONINO CALDERONE
Inizio della collaborazione: 1987, Catania
Famiglia di riferimento: Badalamenti - Bontate
Risultati: collaborazione molto ampia sulle attività dei Corleonesi, che gli hanno ucciso il fratello Giuseppe, capomandamento di Catania, per insediare nel posto di comando il loro fedelissimo Nitto Santapaola. Fra gli altri incarichi, i Calderone avevano quello di proteggere le aziende dei cavalieri Costanzo.

FRANCESCO MARINO MANNOIA
Inizio della collaborazione: 1989, Palermo
Famiglia di riferimento: Bontate
Risultati: esperto nella raffinazione della morfina base, ha riferito ai magistrati su una quantità di argomenti, dai legami tra mafia e politica al narcotraffico, all'assassinio di Roberto Calvi. I Corleonesi gli hanno ammazzato il fratello e, dopo l'inizio della collaborazione, la madre, la sorella, una zia.

ROSARIO SPATOLA
Inizio della collaborazione: 1989, Palermo
Famiglia di riferimento: Campobello di Mazara
Risultati: collabora con Borsellino, continuando anche quando il magistrato passa alla Procura di Marsala. Le sue rivelazioni riguardano in modo particolare le cosche della Valle del Belice, sulle quali aveva cominciato a parlare anche Rita Atria, suicida dopo l'assassinio di Borsellino.

VINCENZO CALCARA
Inizio della collaborazione: 1992, Trapani
Famiglia di riferimento: Castelvetrano
Risultati: ha accusato Nitto Santapaola e Antonio Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, dell'omicidio di un altro sindaco, Vito Lipari. La Corte d'Appello di Palermo non gli ha creduto, e ha annullato gli ergastoli. Prima di pentirsi aveva ricevuto l'incarico di uccidere Paolo Borsellino.

LEONARDO MESSINA
Inizio della collaborazione: 1992, Caltanissetta
Famiglia di riferimento: San Cataldo
Risultati: Borsellino se ne stava servendo per avere notizie sulle cosche della Sicilia centro-meridionale, soprattutto sulle famiglie dell'Agrigentino, e per approfondire la "pista tedesca", quella che spiegherebbe gli omicidi del giudice Rosario Livatino, del maresciallo Guazzelli, e forse dello stesso giudice Falcone.

JOE (GIUSEPPE) CUFFARO
Inizio della collaborazione; 1989, New York
Famiglia di riferimento: John Galatolo (Cosa Nostra Usa) e Francesco Madonia (Cosa Nostra Siciliana)
Risultati: rivela gli intrecci fra Sicilia e Stati Uniti e gli interessi col cartello dei narcotrafficanti di Medellin. Ricostruisce la rete dei nuovi boss di Cosa Nostra, dai Madonia ai Fidanzati, dai Galatolo ai Carollo, e consente l'arresto del colletto bianco milanese Giuseppe Lottusi, riciclatore di ingenti quantità di denaro sporco. E' sotto protezione dell'Fbi.


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