§ Mafia & mafia / Il regno del Sud

Italia senza Vespri




F. A.



Per i lettori di Michele Amari, per i fedeli dell'opera di Verdi e per le generazioni educate sui banchi delle scuole risorgimentali, la Guerra dei Vespri, scoppiata a Palermo il 31 marzo 1282, fu una "guerra italiana" contro le prepotenze francesi, una sorta di prova generale per le guerre di indipendenza che il Paese avrebbe combattuto cinque secoli dopo. Ma i francesi erano soprattutto provenzali, i siciliani d'allora non erano "italiani" e le prepotenze fiscali dell'amministrazione di Carlo d'Angiò non erano più intollerabili di quelle a cui gli abitanti dell'isola furono soggetti in altri momenti della loro storia. Il malumore cominciò a diffondersi quando i deputati di re Carlo si misero alla ricerca di armi nascoste e i disordini scoppiarono quando pretesero di perquisire le donne, molte delle quali - scrisse Giuseppe Pitré alla fine dell'ottocento - andavano "coperte al modo saracinesco".
Forse la vicenda non fu diversa, nei suoi momenti iniziali, dai "riots" di Los Angeles e di New York dei mesi scorsi. Ma i tumulti palermitani divennero rapidamente una minacciosa tempesta popolare. Spinti da furia xenofoba, gli insorti uccisero soldati, invasero monasteri, massacrarono monaci, sbudellarono donne che erano state "ingravidate dagli angiovini".
Furono migliaia, si disse, gli uomini e le donne che caddero nei giorni seguenti sotto i colpi di una plebe inferocita, colpevoli di parlare italiano con accento straniero. "Solamente i successivi sviluppi politici -scrive Denis Mack Smith nella sua Storia della Sicilia medioevale e moderna - resero possibile esaltare un orribile massacro come uno degli avvenimenti più gloriosi della storia siciliana".
Sono gli sviluppi politici, per l'appunto, uno dei temi centrali del testo che Giuseppe Galasso ha scritto per la grande Storia d'Italia dell'Utet, da lui stesso diretta, sul periodo angioino e aragonese del Regno di Napoli.
La guerra dei Vespri - ci ricorda implicitamente Galasso - non fu "italiana", ma europea e siciliana. Fu europea perché non vi fu sovrano dell'Europa di allora - da Edoardo d'Inghilterra a Pietro d'Aragona, dall'Imperatore di Costantinopoli al pontefice romano, dal re di Francia agli credi della monarchia sveva - che non abbia cercato di tirarne le fila e di sfruttarne le vicende per organizzare a proprio vantaggio gli equilibri politici del continente. Fu siciliana perché l'esplosione popolare portò alla superficie e cristallizzò "una certa idea della Sicilia, della sua completezza e sufficienza come spazio politico e istituzionale". Nasce con i Vespri, in altre parole, il "sicilianismo"; e poiché i tumulti di Palermo scavano un fossato politico e culturale fra l'isola e la parte continentale dello Stato, comincia nel 1282, secondo Galasso, la storia del regno di Napoli e della nazione napoletana.
Quel regno, soprattutto nella forma trasmessa agli angioini dalla monarchia romana e sveva, fu certamente la maggiore e la più ambiziosa fra le costruzioni politiche italiane di un'epoca durante la quale si andarono gradualmente formando nel resto d'Europa i grandi Stati territoriali. Quando sconfisse Manfredi a Benevento il 7 marzo 1266 e fece il suo trionfale ingresso a Napoli nei giorni seguenti, Carlo d'Angiò conquistò un grande Stato mediterraneo e uno dei maggiori protagonisti della politica internazionale. Fu duro e avido, non soltanto con i suoi sudditi siciliani, ma fu anche energico, intelligente e ambizioso. Nel ritratto del re in trono scolpito da Arnolfo di Cambio, che si conserva a Roma nel Palazzo dei Conservatori, Carlo ha un largo mento, un grande naso, due rughe profonde che gli scavano le guance sino ai lati della bocca, un portamento forte e altero. Con lui e soprattutto con Roberto d'Angiò il regno divenne l'alleato privilegiato della Chiesa di Roma, prese la testa del partito guelfo contro i partigiani dell'Italia ghibellina, mise le mani sul regno d'Ungheria, fu una potenza europea e mediterranea.
Galasso è troppo storico per lasciarsi indurre a inutili fantasticherie sulle cose che sarebbero potute accadere e non accaddero. Ma è troppo napoletano per non costringere il lettore a contemplare con ammirazione e qualche interrogativo la grande costruzione statale che gli angioini ereditarono dagli svevi e trasmisero agli aragonesi. Se mai vi fu in Italia, in quegli anni, una città che avrebbe potuto recitare per l'intera penisola la parte che Parigi, Londra e più tardi Madrid, ebbero per Francia, Inghilterra e Spagna, quella città fu Napoli.
Le cose andarono diversamente. Alla morte di Roberto d'Angiò, nel 1343, il regno - scrisse uno storico napoletano - "venne in man di femmina". Se il volto dipinto da Roberto di Oderisio nella chiesa dell'Incoronata a Napoli è effettivamente quello della regina, Giovanna fu molto bella, con un mento civettuolo, lunghi occhi a mandorla, grandi sopracciglia, e un naso leggermente "all'insù".
Ma la misteriosa morte del suo primo marito nel castello di Aversa, i suoi quattro matrimoni, la sua scomunica, e il suo stesso assassinio nel castello di Muro in Lucania per mano di uomini che ubbidivano agli ordini del suo successore, segnano l'inizio della decadenza politica del regno. Della "guerra delle due rose", che sconvolse più tardi l'Inghilterra, rimangono almeno le grandi cronache shakespeariane. Della grande crisi dinastica che inizia con l'avvento al potere della regina Giovanna - ci ricorda Galasso - rimane purtroppo la pessima immagine di cui il regno di Napoli godette da allora nell'immaginazione politica europea.
Mentre le città dell'Italia centro-settentrionale e soprattutto Venezia continuavano a dare prova di grande vitalità politica ed economica, mentre dai torbidi politici europei nascevano i grandi stati territoriali che domineranno la scena nei secoli seguenti, Napoli cominciava a scivolare lungo la china di uno splendido, secolare declino. Nel commentare quelle vicende, Galasso ritorna ancora una volta melanconicamente alla guerra del Vespro, all'avvenimento che aveva infranto "l'originaria unità meridionale e siciliana della monarchia". Con altri fattori - la crescente potenza del baronaggio, la peste, la "lunga depressione demografica e produttiva dei secoli XIV e XV", il declino economico - quella "guerra di secessione" mise forse fine a ciò che sarebbe potuto diventare, se la storia si facesse con i 'se", un sogno italiano.

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