§ Memorie di un giornalista

Passaggio dal Sud (3)




Gennaro Pistolese



1926-1930: quattro anni accademici alla Sapienza di Roma, Facoltà di giurisprudenza ed allora questa denominazione era esclusiva per essa.
La Seconda Università era molto lontana dal nascere e per la Prima Università il richiamo a quell'origine è sopravvenuto molto più tardi.
Fra l'altro l'università ai miei tempi si limitava ad essere solo Regia ed io ne ho personali testimonianze per la laurea, in un diploma orribile con le sue insegne di stemmi vari, di fasci e di corone d'alloro, con aggiunta l'indicazione numerica della votazione sconosciuta in altri tipi di diplomi, ed era stata regia, ma sotto i Borboni per mio nonno e successivamente con i Savoia per mio padre, nell'Università di Napoli. Mio figlio, invece, il suo diploma di laurea l'ha conseguito sotto la Repubblica.
Queste rievocazioni sono ovviamente segni dei tempi, ma anche nella loro continuità motivi di un certo orgoglio, tanto più giustificati, quanto più si ha il privilegio di richiamarsi alle proprie radici. Per quanto mi riguarda, esse sono tutte del Sud. Di un Sud che si deve vantare, oltre che doversi dolere. Ricordiamoci di questo Sud, non per recriminare, tanto giustamente come sappiamo, ma soprattutto per esserne orgogliosi.
Ma ritorniamo alla Sapienza. Essa, come oggi (pure dopo le ristrutturazioni stradali), era quasi un tutt'uno con Piazza Madama, e le vie che conducevano dal lato opposto non erano state ancora predisposte. Mi sembra che una di esse si chiamasse Via degli Staderari. Il Corso Rinascimento non era ancora nato.
In opposto, verso Piazza Navona, c'era una pasticceria delle 5 Lune che in epoche successive è divenuta con questa denominazione emblema della editoria della Democrazia Cristiana.
Ma il richiamo maggiore per quei tempi era costituito per noi studenti dal Corso Vittorio Emanuele, dove peraltro esisteva una pasticceria, che era comoda sede del rilascio, da parte dei cosiddetti anziani della facoltà, dei "papiri", dai quali risultava che le matricole avevano pagato il loro tributo di bevute e di paste per ottenerne la firma appunto sul "papiro". Ma questo il più delle volte era contestato dagli anziani e perfino dai "fagioli" (del secondo anno) che ne esigevano la duplicazione.
Oggi tutto ciò non esiste, coperto come è da un'indifferenza di anziani e matricole, privi tuttavia di questi ricordi come dei berretti goliardici, con i loro differenziati colori (verde per giurisprudenza, rosso per medicina, ecc. che dal secondo dopoguerra non hanno mai avuto a che fare con i giovani). Un ricordo gratificante, in meno per loro?
Quando in siffatta Università, per me solo Facoltà, che per la sua caratterizzazione, giurisprudenza, a detta di mio Padre, apriva più di una porta, sono entrato, gli "anziani" per la mia giovane età mi hanno sollevato di peso, una specie di "trionfo", intuendo che per loro ero una facile preda, con agevole contestazione del mio "papiro" e quindi obbligate sue duplicazioni.
Entrato, alfine, alla Sapienza, il principale richiamo fu un solenne portiere che si chiamava Virgilio, con feluca e costume ottocentesco, e pure mazza di stile, nelle frequenti occasioni solenni di allora.
Ma dietro questo Virgilio, oltre ad un discreto venditore di dispense al primo piano, Barluzzini, appariva con molta maggiore semplicità funzionale, un usciere, Chiappini, che chiamava noi di giurisprudenza avvocati durante il periodo di frequenza delle lezioni ed invece dottori subito dopo il conseguito esame di laurea. Le mance, comunque, c'entravano sempre.
Questo tipo d'usciere, lui stesso, è nel mio ricordo molto più vivo di quanto non siano e non siano stati taluni titolari di cattedra del Mio tempo.
Numerosi essi, ovviamente, sono stati, ma di tutti, ripeto di tutti, ho la fortuna di poter sottolineare la particolare, forse eccezionale, identità, allora inavvertita purtroppo perché forse ritenevamo dovutaci, ma oggi certo divenuta parte di noi stessi, solo perché allora eravamo presenti e partecipi.
Ma chi erano questi docenti?
C'era un Rettore che si chiamava Giorgio Del Vecchio, titolare della cattedra di filosofia del diritto, che nel suo ufficio aveva incorniciato il fazzoletto di Mussolini con tracce di sangue dovute ad un attentato che questi aveva subito sul Campidoglio, mostrando poi un grosso e persistente cerotto al naso.
Ma accanto a lui, Rettore, cui piaceva l'emblema dell'Università che aveva inventato e che distribuiva sempre con qualche cosa di più del sorriso ai frequenti ospiti ufficiali - da Re Fuad d'Egitto all'imperatore afghano - i grandi ed insuperati maestri del diritto e delle scienze che ne discendono: Vittorio Scialoia, Pietro Bonfante, Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra, Rodolfo Benini, Umberto Ricci, Enrico Ferri e l'elenco a siffatto livello potrebbe continuare oltre. Esso troverebbe riscontro nelle enciclopedie e nella storia del diritto, non solo nostra, oltre che nella toponomastica di Roma.
Ad un certo momento, ed ero ancora matricola, ho pensato che dovessi fare qualcosa di più; nonostante che le mie capacità fossero inferiori alle mie ambizioni.
Vidi che qualche collega più anziano di me aveva pensato ad un gruppo universitario di studi sulla Società delle Nazioni (ma siamo al 1936 ed essa allora era ancora lontana dal declino che le sanzioni all'Italia per l'impresa etiopica prima e la seconda guerra mondiale poi, definitivamente sancivano, tant'è che dopo un altro emblema è entrato in orbita, e cioè quello dell'ONU). Comunque anche questo posto era occupato, con la conseguenza per me, progetti ed ansie, di cercarne un altro.
Per questo pensai agli "Amici dell'Idea Coloniale", filiazione a suo tempo dei nazionalisti. Ad essi mi proposi come interlocutore universitario, pur da matricola, ma essi mi fecero intendere che ogni mio sforzo di recepimento universitario dei loro fini era apprezzabile, tuttavia non una matricola, ma "un'anziano" ne doveva essere, ricercandolo forse in loro stessi, l'iniziatore.
In conseguenza, dovetti darmi da fare per conto mio.
Così davo vita al gruppo universitario coloniale, con l'acquiescenza del GUF, con tanti compagni, ma allora non si chiamavano ancora camerati, di università, che a me si affiancarono (ed oggi mi domando il perché della loro fiducia ed anche delle loro stesse attese).
Il singolare in tutto ciò è che allora un gruppo universitario, a Roma, si potesse non qualificare fascista. Tant'è che quando inviai a Mussolini una stia fotografia che lo ritraeva a Lentis Magna - siamo nel 1927 - con la richiesta di un suo autografo, lui me la rinviò firmata con dedica appunto a questo gruppo universitario coloniale. Di Roma, aggiungo. Di tutto ciò potrei vantarmi, se il colonialismo già da allora non avesse dovuto intravvedere i primi segni della sua flebilità prima e dopo del suo decadimento, divenuto irreversibile all'indomani stesso delle nostre rivendicazioni imperialistiche. Con il "ritorno dell'Impero" sui "colli fatali di Roma" e con la seconda guerra mondiale si è avuto il sigillo terminale.
Tuttavia questo gruppo universitario coloniale m'è rimasto addosso per tutto il periodo universitario.
Il primo viaggio di universitari in Tripolitania, e vi si aggregarono quelli di Padova perché a Roma non riuscimmo a raggiungere il minimo indispensabile di adesioni, è del 1927. Esso costò a mio padre 400 lire. Sia Lui che io credevamo che anche gli organizzatori dovessero pagare, come gli altri.
Ma in questa parentesi coloniale della mia vita universitaria si inseriscono altri fatti, sempre con la comprensione di un Rettore, estremamente disponibile, come si dice adesso. A prescindere dalle date, la verità è che quanti dal vertice riescono a capire ed a fare prima degli altri, proprio per questo, non ti presenteranno mai il conto.
Nel salire e scendere le scale della Sapienza, mi è occorso fra l'altro di avvedermi che sulla destra dell'ingresso, c'era una lapide dedicata ad un universitario, Dino Brunori, caduto a Misurata ad una certa data del 1911 e per rintracciare i suoi discendenti dovetti ricorrere al titolare di una farmacia attorno a Piazza Vittoria. Pur non essendoci alcuna ricorrenza di decennale o di quinquennale da celebrare, promossi lo stesso una messa ufficiale nella Cappella di Sant'Ivo della Sapienza. Ad essa intervennero, inconsapevoli di cosa si trattasse, attribuendo al fatto un'attualità ufficiale che non c'era, indossando uniformi d'occasione, personalità doverosamente d'ufficio: tutto apparve a me una scena di un filmato alla Renè Claire, del tempo.
Ma di quel tempo ricordo anche altri fatti, che trovavano impreparato un Giovanissimo solo da qualche anno arrivato dal Sud, che continuava a dare l'insolito Voi all'interlocutore quando ritenuto autorevole, che si meravigliava ancora per le tante luci della città o per un traffico sempre crescente e perciò per lui insolito.
Università e città camminavano parallelamente. Ma per quanti, dopo, è stata la stessa cosa, vantandosi invece, anzi, i sopravvenuti della stessa separazione fra l'una e l'altra? Eppure oggi, le Università veramente storiche (Padova o Bologna) continuano a rinnovare la loro identità con la città, che ha scandito i loro tempi. Per parlare di Roma città sempre universale alla stessa maniera bisogna risalire a tempi da lungo trascorsi, che non appartengono neppure alle generazioni di inizio di questo secolo.
Due angolazioni (Studio ed ingresso nella città, con illusoria irruenza per questo) rivivono contemporaneamente in me.
Purtroppo devo dire che non è stata sempre prevalente sull'altra quella dello studio.
Comunque, la prima angolazione di quei tempi è stata quella dello studio.
I professori erano diversi, ma soprattutto celebri, come ho detto. Taluni fra i padri storici delle discipline che insegnavano, ma che a noi apparivano soltanto come professori, in un normale rapporto fra insegnanti e studenti, senza alcun dovere aggiuntivo da parte nostra.
Tuttavia anche oggi, da parte degli studenti, c'è chi si avvede di quanto deve in più a chi gli dà, nientemeno, la contropartita del sapere?
Ma a farceli vivi oggi sono anche alcuni loro tratti esteriori, pure di abbigliamento. C'era un Cesare Vivante, grande commercialista di tutti i tempi che indossava la redingothe, e che al pomeriggio era sulla porta dell'Aragno, il caffè principe della capitale, come ad un rituale. C'era il grande romanista Bonfante, con un quasi incolore abito blu, ma per lui siffatto colore era un obbligo di serietà. C'era un Vittorio Scialoia, anche delegato italiano alla Società delle Nazioni, ma che aveva la sola preoccupazione di apparire, non lui, ma uno dei tanti: nell'insegnamento, sempre umile, come nella stessa politica, di cui era sempre spaventato, ecc.
Erano tutti rigorosi nel modo di porgere -estremamente scientifico - nello stesso vestire, forse perché ritenevano - ed hanno secondo me visto giusto - che è vero tutto il contrario dell'abito che non fa il monaco. E ciò in quanto è proprio il monaco quello vero, che ha scelto il suo abito.
Ma di questi professori mi piace ancora ricordare qualche altro tratto.
Vittorio Emanuele Orlando girava con un bastone, chiedendo addirittura consenso con l'orgoglio del suo sguardo (a Versailles però aveva pianto, perché nelle clausole di pace non aveva sentito il nome d'Italia). C'era Cesare Vivante, più altrove che nel suo studio di Via Farnese in Roma: allora, fortuna per lui, non c'erano i telefoni cellulari. C'era Bonfante, quasi o probabilmente paralitico, come lo ricordo, ma che insegnava lo stesso e che mi disse, cosa per lui addirittura indebita, di ritirarmi dall'esame, solo perché invano contendevo al mio partner d'esame la lettura delle pandette, con la quale più o meno si esauriva la parte sostanziale dell'esame stesso. Chi per lui infatti leggeva le pandette praticamente esauriva l'esame stesso, e l'altro partner - ma con lui non mi ero preventivamente messo d'accordo - doveva tradurre dal latino e commentare. Ciò era difficile, e lui lo sapeva. Ma era un rituale, con le conseguenze, per me, erroneamente calcolate.
E con i professori ovviamente oltre alle lezioni, non tutte superfrequentate, (per una di esse il professore, quello di procedura civile, faceva raccogliere dal suo assistente i biglietti da visita degli studenti presenti e ne teneva conto, quaderno alla mano, in sede di esame) c'erano i grossi libri e frequentemente le cosiddette dispense, ricavate da appunti diligenti di assistenti che avevano raccolto il meglio delle varie lezioni, poi oggetto di esame.
Taluni grandi testi sopravvivono tuttora, qualcuno è addirittura pietra miliare delle scienze giuridiche. Come quello di Guido De Ruggero sulle istituzioni di diritto privato.
Ma dei ricordati docenti, qualcuno ha avuto spicchi aggiuntivi. Così Enrico Ferri, professore di diritto penale: una figura di tipo risorgimentale, che sembrava sceso da un quadro: era socialista, con cravatta svolazzante, ma nessuno di noi vi faceva caso, attratto più da un certo aspetto folkloristico che non dalla profondità (?) di quanto insegnava.
C'erano poi altri professori ai qua i attribuivamo importanza più per il rigore nell'esame che non per la materia che insegnavano.
Molte discipline sono così entrate ed uscite dalla nostra mente, con il sigillo di un voto che rivive nella memoria spesso più delle nozioni apprese, che successivi studi sono stati chiamati a fondamentalmente approfondire e rendere più sicuramente validi.
Il ripensamento degli ordinamenti universitari, dei piani e mezzi di studio ha quindi margini sempre più crescenti di verifiche, vagli di esperienze, impegni di progettualità. Non bastano le cicliche riforme, perché l'aggiornamento è urgente e ricorrente per le spinte e gli sbocchi che giorno per giorno vengono da una società, sempre più esigente sul piano dell'avanzamento culturale e della formazione.
Nel Mezzogiorno soprattutto quest'esigenza è molto sentita e non basta certo il frazionamento di università e facoltà, che spesse volte comporta anche un certo decadimento dello stesso magistero, a far compiere quel salto di qualità da tanto tempo atteso. Dominante in questo ambito è il più stretto rapporto fra ambiente civile ed economico ed università, già per fortuna raggiunto in qualche istituto, e ad esempio con la Bocconi di Milano, che, così largamente, e frequentemente, è riuscita a realizzare l'occupazione di chi ne esce laureato.
In questa nostra Sapienza, anche gli assistenti, quanto mai selezionati a quei tempi, erano validissimi tramiti fra studenti e docenti. Ne ricordo due, e li ricordo di più dei liberi docenti allora non molto diligenti nel ritmo dei loro corsi del tutto facoltativi per gli studenti e da questi generalmente poco frequentati.
Questi due giovani erano uno Cesare Tumedei e l'altro Aldo Bozzi.
Il primo, discepolo di Vivante, l'insuperato maestro di diritto commerciale di cui prima ho detto. Il secondo, Bozzi, costituzionalista, presidente poi dell'omonima commissione, omologa dell'attuale bicamerale.
Due grosse menti, che nelle aule universitarie hanno trovata la loro linfa vitale per gli studi e per l'ingresso e la partecipazione in una società che anch'essi - ma noi con loro speriamo - sono riusciti a formare. Ed anche fra gli studenti ci sono esempi e precedenti da ricordare. Alcuni sono divenuti rinomati avvocati, notai, diplomatici. Altri, funzionari di varie amministrazioni pubbliche; qualcuno anche docente universitario in età estremamente giovane e ci è stato anche conteso da qualche università americana. Non mancavano anche allora taluni giornalisti, pure militanti in sala stampa, ed uno di essi ero anch'io.
E poi c'erano i fuori corso, con un'importanza che essi si attribuivano facendola discendere dall'età e che ci lasciava indifferenti. Uno di questi è poi divenuto un grande giornalista, liberale, ed è fra i due o tre italiani che hanno salutato da Ciampino, dopo il referendum, l'ultimo volo verso il Portogallo del Savoia Re di maggio.
Un altro è poi divenuto ministro, se non erro dei lavori pubblici, con tiri curriculum di anni universitari non certo rapido e lusinghiero.
E poi la grande massa di studenti, fra cui anche donne, ma a quei tempi in legge soprattutto, di numero limitato. La vicina facoltà di lettere a Palazzo Carpegna ne raccoglieva invece di più, ed anch'essa aveva richiami di docenti di alto rilievo, fra cui il filosofo Giovanni Gentile, da poco creatore della riforma della scuola media, a sua volta formatore di talenti. Ed uno di questi fu Valitutti, divenuto molti anni dopo ministro dell'istruzione, ma che da giovane era stato bibliotecario dell'Istituto di Cultura fascista, presieduto da Gentile, appunto. E non so se abbia mai rivendicato questa sua lontana origine.
Le nostre pretese di studenti e nella vita quotidiana era modeste, sebbene tutti avessimo grandi ambizioni. Nostra preoccupazione era che l'abbigliamento più o meno ripetesse quello paterno, con qualche lieve variante, forse di tentata ricercatezza.
Tre sole auto con autista accompagnavano tre fortunati nostri colleghi alla Sapienza, che invece gran parte di noi sentiva poco distante dalla sua casa, tant'è che essa diveniva due volte al giorno prima ancora che sede dei nostri studi, punto di riferimento dei nostri incontri.
Queste tre auto appartenevano ai genitori di questi colleghi: Stringher della Banca d'Italia, Nelson Page dell'Ambasciata USA se non erro, D'Emilia, docente universitario.
Piedi ed anche il vezzo dei bastoni, mai più dopo ritrovati nel costume dei giovani, costituivano allora tutti i mezzi di trasporto o di appoggio. Ognuno così poteva meglio convivere con la propria città: con i tanti angoli, tutti cari, e taluni di essi sventrati, tali da far apparire l'attuale definizione di centro storico molto meno caratteriale eli quanto avrebbe potuto essere, pur nel rinnovamento richiesto dai tempi ed in alcuni aspetti plagiato dalla retorica del fasto. Neppure sempre bello.
E così quella generazione, la mia, si avviava alla laurea: nel mio caso con un dovere familiare quanto mai rigoroso da assolvere rispetto ad un padre, che, pur controllando i miei studi e tutta la mia carriera, non ha certamente avuto da essi la soddisfazione che si attendeva e certo meritava. Egli tuttavia pretese ed ottenne che il conseguimento del mio diploma di laurea avvenisse al compimento del mio ventunesimo anno di età, come era stato per lui contro i 19 anni del suo, conseguito a Napoli regnanti - ripeto - i Borboni.
La mia tesi di laurea aveva per tema "Le Capitolazioni" - ed era svolta in diritto internazionale. Il prof. Perassi che me l'aveva suggerita dichiaratamente non ne fu entusiasta, perché mi disse di rilevarne più pregi giornalistici che non un'impostazione od ispirazione (diciamo meglio pretesa) scientifica.
Era forse il primo riconoscimento giornalistico dato a livello universitario, con in più la mia soddisfazione di aver precedentemente pubblicato a puntate, e retribuita, su di una rivista il testo stesso.
D'altronde a quei tempi già lavoravo parecchio di collaborazione giornalistica e nel settembre del '30, all'indomani della laurea, ero iscritto all'Associazione Romana della Stampa.
Per me quegli anni si sono così divisi fra libri da una parte, con i quali sono arrivato ad un 100 su 110, con una carriera scolastica definita da Vivante discontinua perché contrassegnata da altissimi voti in materie rigorose e rilevanti e da ripiegamenti in materie secondarie nelle quali il voto basso era un'eccezione quanto mai insolita; e giornali dall'altra, con un attivismo organizzativo universitario, coloniale, che pensavo mi avrebbe portato chissà dove.
Tutto questo non si è verificato. Si è verificato invece di poter aver vivi questi ricordi, di poter ricordare uomini, cose, ambienti, angoli di Roma, confrontandoli con il trascorrere del tempo, di dover per ciascuno di questi elementi, animati o non animati che siano stati, della riconoscenza. Ed è una riconoscenza che il passare degli anni, la lontananza stessa delle origini accrescono sempre di più.
D'altra parte a questo punto c'è pure un sigillo da mettere. Si entra, infatti, nella vita, che pur predeterminata, fin quanto possibile, è sempre un'incognita.
La laurea apre le porte, ho detto. Ma le porte ognuno di noi deve aprirle al massimo delle sue capacità, se ci sono, e comunque pure della speranza.
Non diciamo della fortuna, rara conquista, ma dell'occasionale, che invece c'è e come, e tu non hai fatto nulla per incontrarlo, anche se alcune precause tu stesso le hai determinate, ma non sapevi con quale effetto.
Ed ecco due parentesi finali, prima di chiudere questo cielo di 21 anni della mia vita e cioè di oltre 60 anni fa. Non mi sembrano stiano male. Una è doverosamente per mio Padre. Sono incoraggiato in questo anche da quanto Enzo Biagi - forse ammonendo - ha scritto di suo Padre, nella sua ottica pure giornalistica. Anch'io ricordo il mio. Egli ha fatto nella sua vita quanto io non avrei saputo fare ed in verità non ho fatto. All'età di 48 anni -come ho scritto in precedenza - da avvocato affermato nella sua e mia natale Melfi si è trasferito a Roma, iniziando tutto da capo ed in un regime che lui non prevedeva e rispetto al quale poi è stato nettamente ostile.
Per questa sua scelta, dettata dalla necessità di avviare meglio agli studi chi scrive - e ciò, ripeto, l'ho sottolineato anche nelle precedenti pagine - e di creare migliori condizioni di vita per la propria famiglia, ha avuto un'esistenza estremamente difficile. Ho pensato perciò a mio Padre sempre come ad una medaglia d'oro, con una dovuta ammirazione che me lo facevano considerare addirittura disertore per le cose che di Lui non sempre mi piacevano. Eccomi perciò qui con Lui.
Un'altra parentesi riguarda un Maestro di quei tempi. Era Alberto De' Stefani, già primo ministro fascista delle finanze, docente che dall'università di Padova era stato trasferito alla facoltà di Scienze politiche dell'Università di Roma (e mi sembra che ne fosse Preside). Ebbene, io nella stessa Sapienza (con la quale facoltà la nostra di giurisprudenza divideva le aule), pur non essendo suo alunno, mi compiacevo della sua vicinanza.
L'ho conosciuto invece di persona, molti anni dopo, ed ho avuto rapporti di ricordi e confidenze con lui, così ché egli, circa 40 anni dopo, inviandomi con una cara lettera un suo studio - e me lo inviava in segno di simpatia per me e per la mia opera (?) - mi faceva una vera e propria lezione sulla maniera con la quale aveva realizzato il pareggio del bilancio dello Stato. Sì, pareggio del bilancio dello Stato; sì, dello Stato italiano.
Ed oggi nel travaglio da tormenta nel quale si confonde appunto il bilancio dello Stato Italiano, questi precedenti rischiano addirittura di essere sconvolgenti, anche perché quest'esperienza ricorda fra l'altro ancora una volta che la contabilità dello Stato ha a che fare pure con tante piccole cose, pero da ripensare ed anche correggere una per una allorché si manifestano.
In questa strategia del ministro del pareggio due annotazioni mi hanno particolarmente colpito, anche perché le stesse si sono ingigantite nel tempo e tra l'altro con l'art. 81 nell'armadio, senza naftalina (cosicché con le tante tolleranze e deviazioni di questi decenni, i vuoti sono divenuti le voragini che si conoscono).
Orbene, De' Stefani fra le cose che ha dovuto fare ha dovuto comprendere l'eliminazione dalla parte introduttiva della Gazzetta Ufficiale (profano della Gazzetta Ufficiale) di un'appendice letteraria romanzata che veniva inserita per dare un compenso agli autori che non si sapeva come diversamente aiutare. Ed inoltre ha dovuto licenziare 40 mila dipendenti di origine contadina delle Ferrovie dello Stato che in esse erano stati improduttivamente impiegati ad opera dei popolari e dei socialisti del tempo.
Questo era dunque un maestro universitario di quei tempi, sulla cui carta intestata figurava un motto (forse dannunziano per i nostri occhi di oggi, ma certamente insegna e dovere per se stesso), quello di "Tutto prima del tramonto".
Un tramonto che per uno come me, che esce dall'Università, è apparentemente più lontano di quanto effettivamente non sia, perché ci si arriva con tanti addendi spesso inavvertiti quanto scanditi, ma uno per uno predisposti proprio per questo tramonto.
Qualcuno ha scritto: c'era una mosca, ho sollevato una mano, è volata via: sono importante. Dalla mosca all'importanza, nell'emulazione fra cose minime ed aspirazioni, queste sempre solari, pur se deluse!
E' questa fase post-universitaria quella in cui si cominciano a fare i primi più diligenti conti con i consuntivi da una parte ed i preventivi dall'altra.
I primi, come si sa, con il cosiddetto pezzo di carta in mano ritenuti almeno soddisfacenti, i secondi ovviamente entusiasmanti pur con le tante zone d'ombra che giorno per giorno si manifestano, per remore, resistenze, rinvii, ecc. che ti facevano per forza allontanare dalla strada maestra, quando non imboccavi subito quella del famoso o famigerato ricorso all'impiego pubblico. Tanto gradito, almeno nel passato, anche alla borghesia del Sud ed oggi sempre al centro delle aspirazioni pure dei suoi ceti minori. Il progresso del Sud ha purtroppo ancora a che fare con questo nodo essenziale, con un radicale cambiamento di cultura, nel quale fondamentali siano la vocazione all'iniziativa e la conseguente mirata formazione.
In questo mio personale conteggio, due addendi me li portavo dietro come riscontro di attitudini ed iniziative manifestate e realizzate negli anni fin qui descritti, ed un altro ne dovevo aggiungere: quello dell'utilizzo del passaporto, chiamiamolo così, della laurea.
Il primo addendo è naturalmente quello del giornalismo, i cui inizi sono stati costituiti da numerose e sempre travagliate per la loro ricerca, collaborazione a quotidiani, tutti necessariamente minori per chi iniziava, ed a riviste, che al contrario per la specializzazione offerta potevano ed erano fra le maggiori del tempo: da "Gerarchia" a "Commercio" della Confederazione del Commercio, da "Economia Italiana" a "Rassegna Italiana", e così via.
Il primo articolo mi fu pubblicato da una rivista abbastanza importante per quei tempi che si chiamava "Echi e Commenti", diretta da un barone, Di Castelnuovo, che aveva il bernoccolo dell'editorialità e pubblicità: di pronto e redditizio utilizzo. Il compenso ad articolo era però, anche per generali, diplomatici, professori, ecc. per tutti, ed anche per me, di 50 lire, tal volta di 60. Con le riviste però si arrivava anche a 400 lire. Qualcuna delle riviste minori o nascente poteva anche offrirti la direzione, pure se si trattasse di un giovane, ma in questo caso, si attendevano le prove più che da un giornalista da un editore in erba, che peraltro all'atto pratico non c'era. La conseguenza ne era che la rivista non nasceva o periva dopo le prime timide prove.
Di questa editoria erano frequenti le testimonianze fra gli universitari laureati, che speravano di poter affidare il proprio domani alla carta stampata. Comunque, anch'io, con una modesta agenzia di informazioni, "L'Espansione Economica", collegata con una Rivista autorevole che si denominava "Rassegna Italiana`, riuscii ad inserirmi in quel panorama arrotondando i miei modesti guadagni.
C'erano pure allora le possibilità di consulenze pur aperte ai giovani, ed io qualcuna la racimolai, come quella della Camera di Commercio Italo-Orientale di Bari, ed allora quel mondo era una estrema novità.
Con il relativo dinamismo necessario in questa materia i miei guadagni si consolidarono, sia pure ad un modesto livello e la continuità delle mie collaborazioni, pur non garantite allora da alcun contratto, andarono avanti.
Il giornalismo in quegli anni era ad una svolta: aveva ereditato grandi testate e grandi direttori di quotidiani - e quella grandezza non si è ripetuta per questi ultimi in quel periodo -; dava vita a qualche nuovo quotidiano - uno di essi anche a Roma -, come prima il discusso e famigerato "Corriere Italiano" e poi "il Tevere", un giornale di nuova fattura, poi anch'esso tanto discusso e contestato per i sopravvenuti suo razzismo e filo nazista. Ma questo giornale nei primi anni si era messo subito in quota, richiamando grandi firme ed anche giovani alle prime armi, che non retribuiva, ritenendo che per essi bastasse, come diceva il direttore, rappresentare una vetrina di chi valeva.
L'altro addendo è quello dell'attivismo coloniale di cui prima ho detto e che si è tradotto nella fondazione di un settimanale "L'Azione Coloniale" di cui ero condirettore, essendo l'altro mio partner figlio del proprietario finanziatore.
Eravamo un gruppo di quattro giovanissimi, e fra essi oltre l'altro condirettore, Pomilio, v'erano Vittorio Gorresio anche allora forbito: in quel tempo però più come conferenziere colonialista che non come scrittore, ed un altro giovane più anziano di noi, di nascita fiorentina, che più tardi riuscì a divenire provveditore agli studi pur avendo nel suo non lontano passato predisposto in un ente di cui faceva parte un timbro con scritto "per recenzione": e perciò non ne indico il nome. Avevamo altresì un amministratore, un carissimo amico ebreo, poi divenuto produttore cinematografico.
Per la pretesa di indebita ingerenza nel giornale dell'Istituto Coloniale Fascista entrammo in polemica, anzi in guerra dichiarata con il suo presidente, un senatore e pure conte milanese: Venino; e così prendendo lo spunto da un'affermazione di Mussolini, secondo cui nel bilancio dell'Istituto stesso vi erano zone di luce ma anche zone d'ombra, ci attenemmo a queste ultime e nello stesso giorno pubblicammo quattro articoli su quattro giornali diversi di vera e propria critica e denuncia.
Il senatore ricorse alla corte nazionale di disciplina del PNF; ci fu inflitta la deplorazione solenne e fummo diffidati dall'occuparci sulla stampa del predetto istituto e dei problemi relativi. In precedenza, peraltro io ero già uscito, per sopravvenute incompatibilità direttoriali con chi il giornale stesso finanziava, dal settimanale coloniale prima citato e poi proprio da quell'Istituto Coloniale Fascista mi vennero dati incarichi direttivi, nel campo della propaganda, perché esso cambiava pagina.
Ma di quei tempi i ricordi che affiorano riguardano personaggi ed ambienti. Un giovane che cercava di stare con gli occhi aperti, con un mestiere come quello giornalistico, ne ha conosciuti diversi, ed in questa mia rapida rievocazione mostrando segni veri e prima che per gli altri per me stesso. Ho visto ed ho esposto le mie ragioni per la questione dell'Istituto Coloniale al Ministro delle Colonie del tempo, il quadrumviro generale De Bono, che durante il delitto Matteotti era stato direttore generale della polizia, poi trasferito a Tripoli quale Governatore. Non mi ha lasciato alcun segno, se non il ricordo di una camicia di seta sotto la divisa coloniale ed il linguaggio abbastanza grossolano riguardo alle dattilografe degli uffici di cui venivamo parlando.
Più rifinito al contrario è stato il Ministro Federzoni, poi presidente del Senato, poi ancora Presidente dell'Accademia d'Italia, ma del tutto emarginato e pur presente al Gran Consiglio del 25 luglio. Egli, appoggiando le mie organizzazioni giovanili, mi definiva "acino di pepe": acino per l'età, pepe evidentemente per la vivacità, che almeno allora avevo.
Altri ministri del tempo da me conosciuti erano Belluzzo all'Economia Nazionale e Fedele alla Pubblica Istruzione: il primo ingegnere e tecnico, interessato a fare anche quanto non era predisposto tecnicamente a fare nel campo affidatogli; il secondo più che altro noto per la sua redingote con le scarpe gialle.
Ma i vestiti dei ministri del tempo meriterebbero un più ampio ricordo, più vivo, certo di quello che si ricava dalle loro immagini fotografiche, tutte quanto mai solenni e storiche automaticamente.
Ma a quei tempi passeggiava per le strade di Roma, che da Via Cavour portavano a Porta Pia, anche Giolitti, con il suo tigth blu color carta da zucchero -ma lo chiamavano ironicamente la "palandrana" di Giolitti - e cappello grigio a larghissime falde, imitato anche in questo cappello dal suo fedele Soleri, cuneese, maestro prefascista ed anche dopo la Liberazione.
Orbene, Giolitti, guardato a vista da un agente che apparentemente distratto lo seguiva, amava fermarsi a parlare sorridente con un giornalaio aspirante saggio che stampava a sue spese i suoi opuscoli da analfabeta che non era riuscito a trasformarsi in autodidatta e che discettava di filosofia. I commenti di Giolitti erano tutti in un sorriso ed in qualche parola di adesione e di elogio.
C'era la politica giolittiana anche lì, mentre lo statista si appoggiava al proprio bastone, per un sostegno che questa volta riguardava la sua persona fisica e non già il consenso alla sua opera?
Ma di quei tempi altri personaggi ho conosciuto: Farinacci, ad esempio, che era stato da poco allontanato dalla segreteria del partito e che credeva di disporre a Cremona di un contraltare, critico anche vivacemente, a Roma. Ho conosciuto e frequentato Rossoni, fondatore dei primi sindacati fascisti, che credeva che la rivoluzione fascista, per lui sempre incompiuta, dovesse al fine compiersi in tutti i settori nei quali gli venivano dati incarichi compensativi.
Sono stato ricevuto con una trentina di giornalisti da Mussolini nella Sala del Mappamondo, perché nel 1931 era facile aggregarsi alle comitive stesse ed io vi andai perché il direttore di un giornale, cui collaboravo, Giorgio Pini, mi invitò ad accompagnarlo. Vi fu la solita fotografia con vari giornalisti accovacciati per terra; molti di essi erano stati segnati con il dito e riconosciuti con autocompiacimento nel nome da Mussolini. Egli era vestito con un abito bianco.
Allora gli piacevano le sue fotografie della fotografa inglese Ghitta Carrell; passeggiò nella sala con Malaparte sotto il braccio; fece un discorso che naturalmente non ricordo, anche perché nelle sue parole era più rilevante il timbro della voce, gradevole quando non rivolto alle piazze, che non i contenuti più o meno d'occasione.
Intorno a questo mondo c'erano una Roma che cominciava a crescere, anche sotto la spinta di un'architettura che volendo essere littoria è stata ed è quella che conosciamo; una cultura che da una parte si definiva fascista e dall'altra non lo era ed in alcune fasi è stata del tutto bandita; c'era un teatro, che ha avuto grandi interpreti per vari anni e taluno di essi, forse anche senza saperlo, in posizione satirica, rispetto ad aspetti del' momento, come Petrolini; c'era il cinema dei telefoni bianchi e del militarismo che pretendeva di preparare a grandi cose; c'erano le edicole, di tipo meno librario di quelle attuali, ma punti di incontro per chi attendeva che i grandi giornali alla sera arrivassero dal Nord.
C'erano gli strilloni, cui spettava anche di correre oltre che di gridare in concorrenza non solo rispetto ad altre testate, ma fra loro stessi per lo stesso strillonaggio.
Ora ci sono solo i dispensieri muti di giornali alle fermate stradali più rilevanti, con una maglietta poco emblematica e non più.
A questo punto ci sarebbe da parlare del terzo addendo: quello della sopravvenienza post lauream per la ricerca e la pratica della strada giusta, quella della vita.
Mio Padre aveva le sue preferenze e faceva con mia madre le relative sollecitazioni. Lo sbocco doveva essere per lui quello del "posto" con l'avvenire più o meno sicuro. Così che ogni anno che trascorreva senza che io lo avessi mirato e realizzato, a tale fine, mi veniva regolarmente contestato.
Ha perso un anno, ne ha persi due, ne ha persi tre, e così via. Poi si è fortunatamente ricreduto ed una carriera era cominciata, bene o male, anche per me. Siamo ormai agli inizi del 1935 ed iniziavano per me gli otto anni di quella che io amo, debbo definire per il mio inserimento nelle organizzazioni sindacali, prima dei lavoratori, poi dell'industria, vita "corporativa".
Può essere questa un'insegna di quel mio periodo, sempre con funzioni di stampa e di studi economici esplicati in appositi uffici.
Un grosso salto di qualità, si direbbe oggi, oltre tutto affascinante, con uno spazio anche mentale molto più ampio di quello, coloniale ed africano, che fino ad allora mi aveva impegnato. Tra l'altro gli africanisti nel '27 erano pochi, ma nel periodo di cui parlerò nella prossima puntata essi erano divenuti un esercito, molto, ma molto più numeroso di quello che è partito per l'Africa Orientale.
Sono questi otto anni gli anni delle avventure del regime, che mi è occorso di poter rilevare da un'angolazione particolare, e per cinque anni di essi proprio dal palazzo antistante Palazzo Venezia. Sul frontale del Palazzo delle Assicurazioni, all'ultimo piano, sotto i cosiddetti merli, cioè, avendo di fronte una piazza i cui movimenti e le cui caratteristiche erano il termometro di quello che succedeva nel Paese o ad esso veniva annunciato.
Non c'erano e non ci sono "memorizzatori" ad ampio spettro di audience per questo tipo di osservazioni o riflessioni.
La stessa storia, quella spicciola che con la serie dei dettagli culmina in quella grande, ne sa poco da questo punto di vista. E perciò oggi è di moda il testimone che trasferisce agli altri la propria testimonianza.
Le ambizioni per ciascuno di noi sono sempre tante, ma proprio questa, credo, sia fra le più utili per se stessi e possibilmente anche per gli altri.
Ne riparleremo.

(3 - continua)


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