§ Dalle "Memorie"

Liborio Romano non piemontista




Gaetano Maggiore



In un articolo pubblicato nel Radio-Corriere TV del 20/26 Ottobre 1985, intitolato "La battaglia sul Volturno", Liborio Romano, prefetto di polizia nel regno borbonico di Francesco II, viene definito "capo della camorra".
L'ingiurioso appellativo è dovuto al fatto che il politico salentino reclutò dei camorristi nella polizia cittadina.
Per capire le ragioni di questo reclutamento bisogna tenere presenti le condizioni storiche nelle quali Romano si è trovato costretto ad operare. Scrive, infatti, il fratello Giuseppe, deputato: "Preghiamo il lettore di voler considerare quanto singolare e difficile era la condizione delle cose nei novanta giorni in cui egli ebbe il potere, dal 28 giugno al 22 settembre 1860" (Memorie, pagg. 33). (1)
La situazione nel Regno di Napoli nel momento a cui ci riferiamo è disperata, di completo sfacelo, Romano ebbe la nomina durante la notte tra il 27 e il 28 giugno 1860, qualche ora dopo che era stata sedata una rivolta popolare scoppiata a Napoli la sera del 26 giugno, quando soltanto da qualche giorno il giovane Re si era deciso a parlare di Governo Costituzionale, sperando di salvare la monarchia.
Nel regno di Francesco Il era la prima esplosione del malcontento generale della città partenopea, la quale era sobillata, fra l'altro, da ambiziosi esponenti della corte reale, che vagheggiavano il colpo di stato. La sommossa era stata preoccupante.
"Erano a furia di plebe scomposti da capo a fondo tutti gli ordini dei funzionari di polizia, investiti i commissariati, disarmate e ferite le persone che vi erano addette, manomessi gli archivi, arse le carte ... ; certe notizie, che i "lazzaroni" vagheggiavano l'idea del saccheggio, tenevano in gran trepidazione l'intera cittadinanza; la maggior parte dei negozi erano chiusi, i forestieri fuggivano, i cittadini riparavano alle vicine campagne, niuno sapeva a quali casi era destinato il suo domani" (Memorie XIII).
In questo momento la spedizione dei Mille ha conquistato quasi tutta la Sicilia. Garibaldi è già da un mese a Palermo, dove è entrato il 27 Maggio, dopo solo 16 giorni di azione dallo sbarco a Marsala. Se non marcia subito verso Napoli è soltanto perché sta provvedendo a consolidare il suo potere ripartendo le terre demaniali tra i contadini in rivolta.
A Napoli intanto arrivano continue notizie di sollevazioni popolari, di sindaci e impiegati comunali uccisi, di terre occupate dai contadini, proprietari e borghesi fucilati, specie nei paesi intorno all'Etna.
Il Consiglio dei Ministri del 23 giugno aveva riconosciuto che la rivoluzione era ormai "trionfante e sussidiata da tutta Europa", che l'esercito in Sicilia era stato vinto e disarmato, che la Marina era travagliata dal fermento rivoluzionario", che la diplomazia era stata abbandonata, che la dinastia era disperata.
A ciò si aggiunge il fatto che l'Italia tutta Unciatasi nelle vie della rivoluzione e sotto il vessillo della Casa di Savoia minacciava e ad ogni ora faceva più grave il pericolo della cadente dinastia".
Il re stesso era talmente preoccupato della situazione che, con lettere scritte di proprio pugno, aveva manifestato al presidente del Consiglio e al Ministro della guerra l'intenzione di lasciare la capitale non solo "per meglio provvedere alla difesa dei propri diritti", ma anche "per prevenire i disordini e il saccheggio" della città, motivazione, questa, che il re metterà in evidenza nel Proclama del 5 settembre, quando comunicherà al popolo la decisione di lasciare Napoli (Memorie, XLV, LIII).
Erano appena trascorsi 17 giorni dalla rivolta popolare di giugno quando la mattina del 15 luglio ne scoppia un'altra ancora più grave, perché fomentata dalla Guardia Reale: "...videsi, racconta Romano, nella medesima ora e in sette diversi punti (della città), la guardia reale scorazzare in piena uniforme per quei luoghi; manomettere e ferire i pacifici cittadini, invadere farmacie e altri magazzini, rompere le vetrine, porre a sacco e a ruba gli oggetti che si trovavano riposti, e sfogare soprattutto la brutale ira loro contro i ritratti di Garibaldi e di Vittorio Emanuele".
Per intervento di Romano in persona e della "poca forza di polizia che trovasi organata", "l'ordine fu ristabilito e Napoli salva dal più terribile eccidio" (Memorie -XXVII-).
L'emergenza della situazione si evidenzia ancora meglio se pensiamo che :
1) di qui a cinque giorni (il 20 luglio) Garibaldi vincerà la battaglia di Milazzo e completerà la conquista della Sicilia;
2) che tutte le provincie del continente saranno conquistate in soli 19 giorni di marcia trionfale, e cioè dal 19 agosto, passaggio dello stretto di Messina, alla mattina del 7 settembre, ingresso a Napoli di Garibaldi;
3) che la monarchia borbonica alla data di nomina del Romano avrà solamente 71 giorni di esistenza travagliata, e cioè dal 28 giugno al 6 settembre, quando il Re esce da Napoli, dove più non farà ritorno.
La capitale, intanto, è come una grande polveriera che può scoppiare da un momento all'altro, straziando la città e la cittadinanza nell'inferno di una guerra civile.
Oltre alle cospirazioni e ai disordini alimentati in particolare da qualcuno della corte, che "aveva organizzato nella reggia una fucina di cartucce e di bombe", vi era la massa dei 'lazzaroni', "plebei rivoltosi, dominati da istinti sanguinari", che formavano la classe più bassa e più numerosa della popolazione, e non avevano "né arte né parte". Tra gente che viveva alla giornata, di mance, di elemosine, di irrisorie retribuzioni per piccoli saltuari servizi e che, indotta dall'ozio e dalla fame, poteva essere con facilità trascinata a partecipare a tumulti, a saccheggi e violenze di ogni genere". (Encicl. Monograf. Loescher, Vol. B/15). Essi erano pronti a saccheggiare la città, come avevano fatto nel 1799 e nel 1848, e a tale scopo avevano preso in fitto i magazzini, in vari quartieri, per deporre il bottino.
Vi erano, poi, i camorristi, dei quali Romano dice chiaramente quello che sono - una specie di uomini arditi e risoluti, che sprezzano le leggi dello Stato, vivono per intesa, di nequizie, e di ogni forma di violenza sul prossimo e odiano la polizia, perché ostacola senza tregua i loro disegni criminosi.
"Anch'essi i camorristi, dubbiosi e incerti, aspettavano il momento di profittare - dice Romanodi qualsivoglia perturbazione avvenisse". (Memorie - XVII, nota -).
In mezzo a tanto disordine e pericolo, Romano ebbe un'idea risolutoria: giovarsi dell'opera dei camorristi per tenere l'ordine; a mali estremi, estremi rimedi. I camorristi, interpellati, accettarono l'invito a entrare nella polizia e si misero a disposizione per la salvezza del paese. Sconcertati dalla inaspettata decisione più che dalla imponenza della nuova difesa, i lazzaroni desistettero dai loro disegni criminosi e Napoli fu ancora una volta salva dal saccheggio e dalle stragi da essi premeditate.
"Si condanni ora il mezzo da me adoperato - dice Romano - mi si accusi di aver introdotto nella forza della polizia pochi uomini rotti ad ogni maniera di vizi e di arbitrj. Io dirò a cotesti puritani, i quali misurano con la stregua dei tempi normali i momenti di supremo pericolo, che il mio compito era quello di salvare l'ordine; e lo salvai col plauso di tutto il paese" (Memorie XVII).
Alla tutela dell'ordine pubblico Romano dedicò tutte le sue energie, tutta la sua attenzione migliore. Le considerazioni sull'argomento si ripetono spesso, almeno una trentina di volte, nelle circa novanta pagine delle Memorie, documenti a parte E ciò sicuramente perché, essendo convinto che l'unificazione d'Italia era cosa ormai scontata, sentiva "l'imperioso dovere" di prodigarsi per evitare spargimento di sangue.
"L'uomo di stato, aggiunge altrove, deve rinvenire negli stessi elementi del disordine quelli dell'ordine. Ci sono circostanze in cui si è obbligati a condurre il disordine per contenerlo, diceva Mirableau".
Del resto non si è regolato forse allo stesso modo il Governo Italiano coi fuorilegge "pentiti" di varia natura?
Ma qual era, in effetti, la polizia di cui Romano era stato nominato Prefetto? Una polizia, ci dice l'Autore delle 'Memorie' "composta di tristi sgherri e di vili spie", 'Tatti segno alla pubblica esecrazione", è a questi elementi esecrabili che Romano sostituisce i "migliori" tra i camorristi disposti a riabilitarsi; né la nuova polizia organizzata da Romano era formata di soli camorristi; vi era in maggioranza "gente onesta", raggranellata 'Tra gente più fedele e devota ai nuovi principi e all'ordine", e "l'elemento camorrista" era presente "in proporzioni che, anche volendolo, non potea nuocere". (Memorie, XVII).
E i camorristi, infatti, non nocquero, ma giovarono allo scopo; si può dire, in confidenza, che l'estrosa decisione di Romano li mise nel sacco insieme ai lazzaroni. Fu la difesa organizzata da Romano che assicurò l'ordine pubblico, del resto voluto anche dal Re, che salvò Napoli dalla guerra civile; e c'è finalmente chi lo riconosce: "La plebe napoletana - si legge in una storia della Campania - è stata tenuta sotto controllo nell'estate del 1860 grazie alla saggia decisione di affidare la Guardia Nazionale alla Camorra (una camorra ancora plebea e garibaldina già nel 1848)" (F. Barbagallo, Vol. 2°, pag. 356).
E il mantenimento dell'ordine favorì in modo forse determinante, ma certamente notevole, anche l'impresa dell'unificazione italiana, come si dirà più avanti, attraverso l'ingresso pacifico di Garibaldi a Napoli.
E' vero che i camorristi-poliziotti non trassero gran giovamento sotto l'aspetto della riabilitazione sperata da Romano, ma è vero altrettanto che essi per la durata del loro compito sanatorio riuscirono a tenere una condotta che in certi momenti destò meraviglia.
"Sfogatisi abbondantemente nei primi giorni" con vendette private, "essi si rivelarono successivamente integerrimi paladini della legge e tutelarono il passaggio dei poteri dopo la partenza di Francesco 11. Presero persino a difendere i vecchi commissari violenti" (A. Baglivo, Camorra, S.p.A., Rizzoli, pag.55).
Ed ebbero giustamente l'approvazione di Romano.
Quando, però, proclamata l'annessione del Regno delle due Sicilie al Regno d'Italia, i camorristi, inorgogliti dai loro meriti, riprendono ad abusare del loro potere per fare violenza tra i cittadini, Romano provvede con fermezza a ripulire la polizia allontanando, con apposita ordinanza, i camorristi violenti. E' un'ingiustizia, da condannare severamente, che il nome di Liborio Romano venga associato semplicemente a quello di camorra: il promotore della petizione con la quale si invocava da Ferdinando II il patto costituzionale, il "tribuno Romano", come ebbe a chiamarlo, sia pure sorridendo, Francesco II, definito camorista. Eppure Giovanni Bovio, filosofo e patriota, aveva ammonito in proposito: " ... niente più difficile ad uno scrittore di giudicare quell'uomo"; "quando nella storia scoppia sul capo di un uomo politico il terribile conflitto tra la morale e la politica", allora bisogna considerare se in certi momenti storici "non venga in qualche parte a rimutarsi il contenuto della morale e della politica, sicché dal conflitto stesso emerga più evidente la loro unità finale", e cita a sostegno una sentenza di Tacito, "sulla quale", secondo il filosofo, "riposa tutto il sistema macchiavellico"; "tutte le grandi imprese hanno qualcosa di iniquo che è imposto dalla pubblica utilità".
Ma non è questo il solo caso di incomprensione che riguardi Romano.
Il fatto che egli abbia favorito l'ingresso di Garibaldi a Napoli e abbia accettato il potere da lui, dopo essere stato Ministro del Re, ha dato luogo a giudizi non meno pesanti, sia tra i contemporanei che tra i posteri. Fu accusato, per es., di "indelicatezza" e di "smodata ambizione", accuse che egli respinse recisamente.
Le difficoltà eccezionali in cui venne a trovarsi Romano dopo la partenza del Re sono fotografate in una frase del filosofo Bovio: - "un ministro doveva nel medesimo tempo dare il commiato al suo principe e aprire la reggia al vincitore" (Memorie, Prefazione). "Doveva", dice Bovio. Per i poteri che Romano aveva ricevuto da Francesco II, egli aveva il dovere di rimanere al suo posto, di provvedere all'ordine pubblico per evitare che la capitale fosse ridotta a un mucchio di rovine. Ed egli agisce secondo il mandato del Re. Per dimostrare la coerenza con se stesso, Romano chiama a sostegno il Proclama reale, dove è detto che il Re si allontana da Napoli per garantire la capitale "dalle rovine e dalla guerra; salvare i suoi abitanti e le loro proprietà, i sacri tempi, i monumenti e gli stabilimenti pubblici, le collezioni d'arte e tutto quello che forma il patrimonio della sua civiltà e della sua grandezza, e che, appartenendo alle generazioni future, è superiore alle passioni di un tempo" (Memorie, LIII).
Anche se il Ministero a un certo momento "non potè resistere né più lusingarsi di salvare la dinastia", racconta Romano, esso "non trascurò mai di compiere il suo debito in ogni ramo dalla pubblica Amministrazione", "E sopra tutto, continuò a serbare l'ordine, e la più perfetta tranquillità della capitale, nonostante le mene dei partiti avversi alla dinastia e al governo, il generale scontento e l'infuriare della rivoluzione". (Memorie XXXIV).
E quando Romano vede compiuta l'impresa dell'occupazione pacifica di Napoli, dichiara soddisfatto la sua gioia con questa considerazione: "Così si compiva in queste meridionali provincie una rivoluzione, che quasi preparata con settanta anni di ogni maniera sacrifici, che tante volte soffocata nel sangue dei più illustri cittadini, avea sempre ripreso il suo lavoro con indomita costanza, e dando esempi di sublime. I sacrifici e il sangue versato erano già troppi, ora veniva la gioia del fatto compito" (Memorie LXI).
A questo punto, Romano, secondo i suoi denigratori, avrebbe dovuto congedarsi da Garibaldi; egli era di questo parere, ma richiesto dal Dittatore e sollecitato da amici, di cui fa vari nomi, accetta di fare parte del nuovo Ministero, sempre come ministro dell'interno e della polizia, e siccome incaricato di formare il Gabinetto era egli stesso, vi incluse anche "i più devoti al conte Cavour" nel tentativo di meglio conseguire il vagheggiato accordo tra il Dittatore e Cavou? (Memorie, LXV). Rivelatosi poi "incompatibile un ministero responsabile e un dittatore militare, Romano e i colleghi si dimisero tre giorni dopo.
Il cap. LXIV, più che un rendiconto o una difesa, è tutto una vibrante protesta che Romano rivolge in modo particolare ai suoi colleghi di governo, i quali dopo avergli fatto "tante premure di accettare il potere" e non aver sdegnato "di seder al fianco di un così indelicato collega" disapprovarono poi concordemente la sua accettazione; egli precisa inoltre che questa non è stata determinata da ambizione, perché "dopo tre soli giorni" presento a Garibaldi le dimissioni "per una semplice questione di dignità, ossia per l'ingerenza che prendea negli affari la segreteria della dittatura", e perché da taluni si faceva animosa guerra alla sua persona per furente ambizione del suo ufficio. Quest'ultima parte della motivazione è riportata quasi testualmente dalla lettera di dimissioni sopra ricordata e vale di sostegno all'affermazione di Romano di essere "alieno da ogni ambizione e vieppiù dai soliti intrichi per soddisfarla" (Cap. XCI). Egli afferma che ha ritenuto suo dovere accettare il difficile compito, pur sapendo di esporsi alle solite malignazioni, "per operare quella gran transizione coi minori mali possibili" (Memorie, LXIV). La citazione è riportata anche nel Noviss. Digesto Italiano alla voce "camorra".
E poi, dice Romano, "a por da banda i molti esempi che potrei trarre dalla storia, io non so persuadermi, che il solo fatto di servire la dinastia che succede, dopo d'aver servita quella che cade, sia di per sé cosa disonesta, se altri fatti disonesti tale non lo dimostrino".
"E molto meno m'induco a crederlo, quando si tratta di un ministro che serve il paese non già la dinastia, la quale serve ancora essa, o almeno servir dovrebbe, il paese medesimo. Imperocché allora, il ministro, continuando a prestar l'opera sua alla patria, compie con ciò il primo e più onesto debito del cittadino. E chi pensa altrimenti, mostra di credere che i popoli siano fatti per la dinastia, non già queste per bene di quelli, onde non hanno ragione di essere quando nol facciano".
Romano non poteva certo avere dimenticato che la persecuzione dei Borboni contro di lui si era fatta sentire anche con Francesco II, tanto vero che nel settembre 1859, appena un anno prima dell'uscita del Re da Napoli, egli, unitamente al fratello Giuseppe, era stato colpito per l'ennesima volta da ordine di arresto e costretto a latitare in attesa di momenti migliori. Né avrà dimenticato il recente ammonimento del Re a badare alla testa. Ma a parte queste supposizioni, egli è convinto che la sua militanza politica è necessaria per la causa dell'Unità d'Italia. Accettando il potere, egli dice, "io mi proposi tre grandi scopi: quello di richiamare l'attenzione di Garibaldi sulle conseguenze di una precipitata marcia su Roma, la quale avrebbe provocato l'intervento francese e l'occupazione di Napoli da parte di Napoleone; l'altro, di porlo d'accordo con Cavour; il terzo d'impedire che l'idea dell'unità non trascinasse il dittatore a distruggere prematuramente l'autonomia amministrativa di queste provincie, prima che una legge la quale s'ispirasse alle tradizioni, ai bisogni, ed alle condizioni del popolo italiano, non fosse stata gravemente ponderata e discussa dal parlamento.
Io pensai e penso tutt'ora che il marciare allora sopra Roma ci avrebbe fatto piombare addosso tutte le forze dell'impero francese, e avrebbe compromesso la nostra unità" (Memorie, LXIV).
Né questa valutazione è del solo Romano. Vi erano "anche timori non ingiustificati - leggiamo altrove -per i propositi di Garibaldi di proseguire da Napoli su Roma, con l'inevitabile rischio di un intervento diretto francese che avrebbe avuto incalcolabili conseguenze per la nuova Italia" (Gra. Diz. Enc. UTET, voce Cavour).
Napoleone infatti teneva pronte all'uopo le navi dell'impero nel Golfo di Napoli.
Troppo facile sarebbe voler dire oggi, a fatti conclusi, che avrebbe potuto fare altri quello che fece Romano. Si è detto che la felice conclusione dell'occupazione di Napoli è dovuta all'estroso tipo di difesa che Romano aveva organizzato: - una guardia cittadina con elementi camorristi; il fatto che essa non venga ritenuta legittima, dimostra che altri, forse, non si sarebbe servito di questo espediente.
Al momento della visita di Vittorio Emanuele II a Napoli, "i piemontesi scoprirono con orrore", - scrive Montanelli -, che (nella polizia) erano stati reclutati i più autorevoli caporioni della camorra", ma fu con questo tipo di polizia che Romano in persona, riuscì a mantenere l'ordine pericolante quando ad un certo momento "nelle straducole dei rioni popolari cominciò a echeggiare il grido: "Viva Franceschello". E il pericolo doveva essere molto serio; infatti "Cavour venne avvertito che quanto prima il Re fosse tornato a Torino, tanto meglio sarebbe stato per tutti" (I. Montanelli, L'Italia del Risorgimento, Rizzoli, pag. 644).
Altro elemento a favore di Romano è la sua popolarità, la quale certamente fu la base dell'intesa coi camorristi, il sindaco D'Alessandria, il generale De Sauget; il re stesso, riconoscono concordemente che l'uomo più popolare di Napoli è Romano; e Garibaldi, dopo averlo constatato di persona, si felicita con lui "della popolarità di cui gode" e aggiunge che "bisogna valersene, e continuare a servire il paese" (Memorie, LIX, XLIX, LXII).
L'elezione di Romano a deputato ottenuta in almeno otto collegi è una conferma che non lascia dubbi: è storia. Se il Re lo chiama dalla latitanza in cui Romano si trovava a causa dell'ordine di arresto dell'anno precedente e gli affida la Prefettura di polizia, e successivamente il Ministero dell'Interno e della Polizia Generale, è solo per convinzione che l'uomo più adatto a fronteggiare la situazione è Don Liborio.
Alle elezioni di gennaio '61, Romano viene eletto con 400.000 voti al Parlamento dell'Italia unita, e questo successo gli sarà causa di nuove ostilità. Cavour, infatti, gonfio di "orgoglio e istintivo senso del dominio", non dimentica la posizione di contrasto assunta da Romano durante le trattative per l'annessione "incondizionata" di Napoli al Piemonte, non perdona chi si mette contro di lui, chi può fare ombra alla sua figura - e la sorte di Garibaldi insegna! - e perciò lo ignora nella formazione del governo del Regno d'Italia.
Romano, temprato in avversità molto peggiori; non cambia atteggiamento, e prende posto alla camera "nel centro sinistro", all'opposizione.
Inviso a Cavour e a 'quasi tutta la camera", Romano vide minacciata persino la validità della propria elezione a deputato. Chi lo salvò con un atto di coraggio fu l'onorevole Bixio, che "protestò contro le sottigliezze avvocatesche" e sottolineò che "quando un personaggio è mandato alla camera da quattrocentomila cittadini, è incontrastabilmente l'espressione di una volontà che debb'essere rispettata". (Memorie XCI).
Da parlamentare egli continua la sua politica di promozione delle province napoletane, rimarcando le ingiustizie che vengono perpetrate ai danni della povera gente del Sud, vilipesa come lui.
Si può dire che la "Questione Meridionale" è nata con lui.
Il racconto delle sue memorie finisce con queste parole: - "quel che più ora preme" è prevenire "i pericoli della questione sociale che, non curata, travolgerà governi, uomini e cose, come a niuno è dato di prevedere, e che a tutti incombe il supremo debito di scongiurare".
Rimedi sicuri a questo fine egli suggeriva l'occupazione dei senza lavoro, l'attivazione delle opere pubbliche, in modo particolare strade e ferrovie, la ripartizione delle terre demaniali tra i contadini, cose che aveva iniziato a fare egli stesso quando aveva potere. (Memorie XXXVIII, LXI, LXXXIV).
Di tutto questo, ed altro, Liborio Romano parlò in una lunghissima lettera a Cavour, in data 15 maggio 1861, nella quale, dopo avergli esposto le gravi condizione delle province meridionali, egli dimostrava, con profonda conoscenza della psicologia umana, che da quelle condizioni sarebbero derivati assai presto - come di fatti avvenne - pericoli seri per la sicurezza dell'ordine e dello Stato.
"Né dubito - dice Romano - che (il Conte), ai mali da me accennati avrebbe dato riparo, se indi a pochi giorni da morte immatura non fosse stato rapito alla patria" (Memorie, XCIV).
Infatti, convinto che Romano aveva ragione, Cavour si proponeva di provvedere in merito e dimostrare "ciò che possono fare dì quel paese (il Napoletano) dieci anni di libertà", non ingiuriando la gente, ma governando "con libertà", moralizzando, educando l'infanzia e la gioventù. (L. Troisi, Il sud fra cronaca e storia, Loffredo, Napoli, pag. 13).
Cavour, purtroppo, morì alcuni giorni dopo la lettera di Romano e il suo proposito fu ignorato dai governi che seguirono, i quali anzi, a causa di una politica fiscale spinta all'eccesso per motivi di bilancio, resero ancora più grave la situazione: aumentarono, infatti, le imposte indirette e l'1.1.1869 aggiunsero un'altra tassa, quella sul macinato, detta "imposta della fame" (pagata per 15 anni), nonostante le vigorose proteste dell'opposizione in Parlamento e le violente rivolte scoppiate tra la popolazione in varie parti d'Italia.
Racconta Giuseppe Romano, suo fratello, che Liborio, trasferitosi a Patù il 1° gennaio 1867, con "la morte nel viso", non si interessò più di alcuna faccenda domestica. "Leggeva solo giornali; si crucciava dei crescenti mali del paese; e non cessava di scrivere lettere a molti deputati dell'opposizione, esponendo loro a quale abisso si spingeva il paese" (Memorie pag. 32-33).
I fatti dimostravano, a breve distanza, che le sue preoccupazioni erano giuste, fondate.
Secondo le "Memorie", "le implacabili ire dei consorti e la stampa venduta" hanno falsato la figura di Romano facendolo credere un uomo ambiguo, opportunista o anche peggio. Senza dubbio sarà prevalsa, come sempre, la verità del vincitore che ha il potere di dominare uomini e cose e di "governare" tutto secondo i suoi fini. Romano, che purtroppo ha subìto le tristi conseguenze di questa specie di 'verità", racconta le sue "Memorie" sperando che un giorno "potrà così giudicarsi degli avvenimenti e della (sua) politica, sopra i fatti, e non già per l'eco delle passioni, che, ora adulatrici e servili, ora codarde e oltraggiose, falsano sempre il vero" (Memorie, Premessa).
Tra i più ostinati denigratori del suo operato, Romano evidenzia, i così detti consorti, e ci dice in proposito: "... un giornale che si stampa in Londra col titolo "Rivista delle Scienze sociali", scrive così: La Consorteria è una associazione neo-pittagorica che senza esame e per calcolo d'interesse idolatra le istituzioni e le leggi, gli uomini e le cose del Piemonte. Il maggior numero di codesti uomini è di origine piemontese, od è divenuto tale per assimilazione, atteso il loro lungo soggiorno a Torino. Tutti costoro, nello stesso scopo di rendersi necessari e di conservare sempre nelle loro mani il potere, hanno stiminatizzato i nomi più distinti tra i meridionali per probità e per sapere dicendoli ignoranti e corrotti (Il mio rendiconto politico, 1960, pag. 110). (2)
Giustamente, perciò, è stato detto che "La classe politica meridionale della prima metà dell'ottocento ha subìto nella storiografia postunitaria il medesimo destino che l'unificazione nazionale ha riservato al mezzogiorno: prevalsero sul piano politico ed economico gli interessi settentrionali: sabauda o, comunque, "nordista" rimase sempre la ricostruzione dell'epopea risorgimentale... I politici meridionali furono apprezzati positivamente solo se agirono per linee conciliabili con la strategia politica subalpina, con ruoli subalterni.
Ogni diversificazione e ricerca di autonomia venne considerata opposizione alla stessa causa nazionale" (F. Renzo, Un uomo politico salentino: Liborio Romano). Non poteva certo piacere all'egemonia piemontese chi aveva favorito l'impresa di Garibaldi; chi si era opposto all'annessione incondizionata di Napoli al Piemonte, anche se poi la ragione del più forte prevalse ugualmente; chi aveva accusato `il governo centrale", il governo dell'Italia unita, di essersi ridotto "ad un partito, ad una fazione, ad una consorteria ostile alla gran maggioranza delle nostre province"; di voler "piemontizzare l'Italia, trattar le province meridionali come paese conquistato, governarle per mezzo di un partito ligio ai soli interessi del Piemonte, e così spremerne quanti più vantaggi e quattrini poteansi, senza curarsi né delle opere pubbliche né della pubblica sicurezza.... (Memorie, LXXVII).
Tra con questo animo - scrive Montanelli - che i "fratelli" del nord si disponevano all'integrazione con quelli del sud" (I. Montanelli, L'Italia del Risorgimento, Rizzoli).
Emerge, da quanto detto, come Romano sia stato un personaggio di primo piano sia nella Storia di Napoli, sia nella Storia del nostro Risorgimento; e pertanto sarebbe opportuno che i nostri giovani lo conoscessero dai 'Tatti", da un confronto delle varie fonti storiche. Solo oggi potremmo dissolvere, forse, i vecchi pregiudizi tramandati da una cultura di parte, "piemontista".
A distanza di oltre un secolo dall'Unità d'Italia, è tempo di un giudizio sereno, obiettivo, giusto. Qualche voce autorevole in questa direzione vi fu anche al tempo del patriota salentino: "A preparare il giudizio, scrisse Giovanni Bovio, valgono le Memorie politiche, scritte da Liborio più a titolo di confessione che di narrazione" (Memorie, Prefazione); e nonostante le riserve che il filosofo evidenzia circa il valore delle confessioni politiche, "pur questa di Liborio Romano, egli dice, sembra tutta credibile per le seguenti ragioni: per i documenti" ond'è confortata, non pochi né lievi; per un'aria d'ingenuità talvolta infantile, dalla quale appare il cultore insigne degli studi giuridici piuttosto che l'uomo politico; e, in ultimo, per i fatti che vennero più tardi ad illustrare le parole" (Op. Cit.).
Il giudizio che va dato a Romano deve tener conto, pertanto, dei fatti, che l'illustre salentino ci ha tramandato nelle Memorie politiche "Leggete queste Memorie, io dico... Leggete, dico", suggerisce Bovio. Non è il critico, è il filosofo che parla, il ricercatore della verità, che ripetendo l'esortazione a leggere le Memorie, sembra dire chiaramente: seguite questa via e troverete la verità che cercate. E la verità è questa: un'indiscussa grande passione di Liborio Romano per la sua terra, per la gente del meridione, per l'Unità d'Italia, per gli ideali del Risorgimento italiano, per la quale passione sin da giovanissimo dovè soffrire persecuzioni, confino, carcere, esilio: meriti, questi, per i quali almeno qualcuno dei grandi dizionari enciclopedici gli attribuisce l'appellativo di "patriota".
Spesso la prova più certa dell'onestà di un uomo politico è la sua sfortuna, se questa non è spiegabile in altro modo, e certamente fortunato non fu, calunniato persino "da chi meno dovea".
La sua famiglia fu l'Italia, una scelta pagata cara per tutta la vita, essendo stato, egli dice, unitamente al padre, ai fratelli, ad altri parenti, "fin dal 1820, bersaglio della reazione poliziesca che li accompagnò fino al 1860" (Memorie, XI). Ma egli non recedette.
E quando ebbe potere, lo usò per il nobile fine, dimostrando all'occorrenza il coraggio delle decisioni difficili, necessarie, però per il pubblico bene. L'Italia unita, libera, indipendente, al di sopra di tutto, anche - perciò - dei sovrani borbonici, senza dubbio non amati.
La lettura delle Memorie politiche ci dice questo. Nella lettera, su ricordata, a Cavour, troviamo scritto fra l'altro: "Le parlerò liberamente, francamente, e nel solo scopo di giovare come so e posso alla causa della patria, che è stata, è sarà sempre in cima ai miei pensieri. Nel discorso "ai miei elettori", scritto quattro anni dopo, quando Romano, era vicino ai 70 anni e in condizioni di salute malferma, troviamo la stessa fermezza di propositi: "Mi ritraggo da un oringo, vi è detto, che sento di non poter bene assolvere. Continuerò non pertanto dal mio gabinetto e sino all'estremo mio respiro e propugnare i principi che sono stati e sono il desiderio più vivo della mia vita". E, infine, dopo aver indicato ben otto categorie di candidati indegni di essere eletti, prima tra questi i consorti, Romano prende commiato dai suoi elettori con questa raccomandazione: "Chiamate a rappresentanti della Nazione gli uomini intemerati per onestà di tutta la vita - di costanti virtù domestiche e cittadine - di provata fede politica unitaria - che alla dirittura della mente e al senno pratico uniscano la purezza del cuore. Sia però nelle vostre elezioni prima la probità poi il sapere".
Io "confido che i fatti - scriveva - risponderanno ai calunniosi carichi mossimi contro da chi meno dovea; e che, dopo la concitata popolarità tra i miei concittadini largamente goduta nei giorni in cui stetti al potere, vorranno, fatta luce e tornata la calma, concedermi una benevola ricordanza" (Memorie, Premessa).
Ciascuno è "libero... di giudicarmi come più crederà", egli dice, l'io aggiungerò solo che rientrai nella mia vita privata... con la coscienza di aver sempre cercato il bene del mio paese. Se non riuscii a conseguirlo, come io desiderava, fu per la pochezza del mio ingegno..., non mai per difetto di devozione alla Patria, e ai più larghi principi della vera libertà e della giustizia", "i soli rimedi ai pubblici mali" (Memorie, CII).
Una persecuzione sofferta unitamente al padre, ai fratelli, ed altri parenti, per 40 anni, essendo stato egli senza tregua "bersaglio della reazione poliziesca dal 1820 fino al 1860" (Mem. XI), tra confino, carcere, esilio, non dispone a credere?


NOTE
(1) G. Romano, Memorie di L. Romano, Giannini e Figli, 1894 - Napoli.
(2) Rivista delle Scienze Sociali del 12 dicembre 1863: Italia del Sud nel 1863


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