Mentre scende
dalle serre supersanesi - curve decise, macchie di alti fusti - uno
fonde nel sole, procede come in una colata al calor bianco e pronostica
tele con case e muri abbaglianti, mari intensi, colline con fiori
aridi. Ci sono tanti idilli in cornice, nel Sud, da togliere fiato
alla Storia. Del resto, il paesaggio di Terra d'Otranto è quello
netto e civile che ci viene incontro: perdutamente chiaro, nessun
cono d'ombra nella pelle, d'una serena armonia che le perfide periferie
spesso neanche scalfiscono. E neanche più, a far contrasto,
le donne in nero e gli uomini liofilizzati dall'arsura, come nei consueti
clichés d'oltre Eboli. Se questo Sud avesse avuto un Prévert!

Ha avuto, invece, un Bodini. Allora quegli orizzonti trasparenti e
quelle case bianche e la gioventù griffata sono la maschera
che vela il Sud più autentico, con i suoi morti che tornano
a questa terra-limite, a questo confine del mondo: a Finisterre e
al suo faro che fruga inutilmente un mare illimite e deserto, e che
per essere faro e non metafora soltanto deve declinare l'occhio a
quelle ombre vaganti e dargli corpo con la luce.
La luce, appunto. Quella che balugina dalle quinte d'un gran campo
bruciato (ed è notte) e che lascia presagire un lunapark: ma
lontano, e quasi irragiungibile; o soltanto sognato, là dove
culmina il gran campo, alla riva estrema della vita. O quella che
d'improvviso va via, e fa buio nella stanza di uomini e donne seduti,
e quasi abbracciati in circolo, attorno al tavolo, e così immoti:
in silenziosa solidarietà familiare o animale o vicinale, dei
diseredati - insomma - e dei deboli, archetipi d'una storia più
tragica che grande. O quella degli "esterni", delle vie,
delle corti, degli scorci di paese, degli angoli delle case: su toni
di colore densi, senza sbavature, di taglio netto, come le vite -
le vicende - che sottendono. Quasi marginali. Ecco allora che il contrappunto
con la visionarietà del lunapark è nella gente - questa,
sì, reale - in attesa di un probabile treno su un binario secondario,
da cabotaggio contadino; o su un binario morto, che non potrà
portare da nessuna parte: per quelle visibili traversine soltanto
essendo state predestinate queste anime gogoliane, per il loro tracciato
corto, invalicabile, senza ritorno. E se ironia c'è, in queste
tele, è solo "amara", com'è propria di chi
sa dominare la materia che plasma. Penso ai parchi pubblici come pretesto
per il discorso: alberi tosati in sagome umane, in geometria variabili,
e in questo loro snaturamento stagliati nel cielo come paesaggio metafisico
visionario e allucinante. Con una rattenuta vena di rivolta (una nuvola
d'ira, si potrebbe riecheggiare) che è l'unica traccia umana
nel contesto di una stolta ingegneria vegetale.

Sanapo medita a lungo sui temi. Ma non dipinge di getto. Disegna le
tele con l'urgenza dell'idea da fermare, dell'istante da fissare,
e lì, in quei momenti, dà varco alle sue più
profonde emozioni. La sua officina è prima di tutto un luogo
di tele abbozzate, di segni intuiti, di disegni precisati. La gratificazione
è in questa fase creativa: che è momento d'invenzione
essenziale e puro. Ed è anche snodo sofferto del suo messaggio.
L'altra fase, quella della resa coloristica, lasciata a tempi meno
incalzanti e più distesi, scioglie definitivamente l'ispirazione
iniziale e conclude l'intimo e personale viaggio d'ogni quadro. Che
tuttavia resta legato a un mondo a suo modo onirico, pur senza mai
staccarsi dalla realtà che condiziona e vincola gli uomini
e le loro storie. Può sembrare, questa, una contraddizione.
Ma tale non è, o può non essere: perché se per
queste vite da tre soldi, in fondo al loro tunnel, d'improvviso balugina
una luce...