Le più
recenti notizie provengono dall'Austria e dalla Svizzera e si aggiungono
a una serie incredibilmente monotona: quasi ovunque in Europa, da
quasi tre anni, la disoccupazione sta aumentando e i posti di lavoro
liberi stanno diminuendo. Fuori dall'Europa, nei soli Stati Uniti
c'è un assorbimento netto (peraltro limitato) di disoccupati;
anche negli Stati Uniti, però, continuano a calare i posti
di lavoro presso le grandi società, a cominciare da quelle
internazionalmente più note.
Per cercare di comprendere bene la natura e l'entità del fenomeno,
abbiamo provato a tracciarne una mappa, derivante dalla nostra banca
dati (vedi tabella).

Va detto subito che i numeri sono nettamente errati per difetto; un
gran numero di notizie, infatti, non giungono alla grande stampa internazionale,
dalla quale attingiamo per alimentare le nostre schede elettroniche.
A questo normale difetto strutturale bisogna aggiungere che la pubblicità
negativa che può derivare da una riduzione di personale induce
sovente le imprese - e i sindacati - a non dare risalto a questo tipo
di notizie.
Per amore di completezza, dobbiamo poi aggiungere che le riduzioni
annunciate hanno diversi tempi di attuazione (talora 4-5 anni, talora
pochi mesi) e un diverso grado di cogenza (possono essere ordini immediatamente
esecutivi oppure dichiarazioni di intenti da precisare in seguito).
E che l'indicazione per Paese si riferisce a quello d'origine delle
società indicate, mentre i tagli possono essere distribuiti
in tutto il mondo.
E' un quadro riduttivo e dai contorni sfocati, dunque, al quale è
però bene guardare perché se ne possono ricavare indicazioni
preziose. E la prima è la dimensione del fenomeno: oltre un
milione di posti di lavoro è stato perduto, generalmente in
maniera definitiva, in quarantasei mesi. Il ritmo medio è quindi
di quasi venticinquemila posti al mese, ma con tendenza a forte accelerazione
nel corso dell'ultimo anno (oltre trecentomila posti tagliati da gennaio
a ottobre).
Settore per
settore, la mappa dei tagli e delle ristrutturazioni
Ci è parso abbastanza sorprendente che il settore più
colpito fosse l'elettronica (vi abbiamo inserito però anche
le comunicazioni, con trentamila tagli annunciati da Deutsche Telekom,
cinquantamila della giapponese NTT, quindicimila delle americane US
West e ATT che gestiscono i servizi telefonici pubblici); un salto
tecnologico, un'innovazione di processo e una congiuntura sfavorevole,
tutti e tre intensi, spiegano la cosa. E' probabile poi che questo
settore "nuovo" presenti minori difese corporative, consentendo
così tagli più incisivi.
Tra le imprese più direttamente coinvolte nella produzione
di hardware, spiccano gli 85 mila posti di lavoro in corso di eliminazione
all'Ibm (oltre a ventimila già eliminati nei primissimi anni
Novanta), gli undicimila complessivi in Giappone tra Fujitsu e Toshiba,
i quindicimila della francese Bull. Ventimila esuberi sono stati annunciati
dalla tedesca Siemens; in Italia, al totale di quindicimila contribuiscono
prevalentemente Olivetti e Italtel. E si potrebbe aggiungere che queste
perdite sono state almeno parzialmente compensate da aumenti di occupazione
in piccole imprese di software, di distribuzione e assistenza.
L'industria dell'auto, che in questo momento sta vivendo la crisi
più spaventosa, si colloca soltanto al secondo posto, ma non
ha certo beneficiato di questa compensazione occupazionale con un
settore complementare. I grandi tagli dell'industria americana sono
distribuiti in un arco di tempo più lungo (Chrysler cominciò
a contrarre la propria forza di lavoro in maniera significativa fin
dai primi anni Ottanta) e la cosa è ancora più vera
per la Gran Bretagna.
I dati americani colgono quindi la "coda" di un lungo processo,
al cui inizio pare invece trovarsi l'Europa; le riduzioni più
consistenti sono quelle francesi (Renault spicca con un annuncio recente
di trentamila posti in meno) e tedesche (recentissima è anche
la ristrutturazione di quarantamila unità annunciata da Daimler-Mercedes,
mentre Volkswagen è ferma a quindicimila, grazie al progetto,
alternativo al licenziamento, della settimana di quattro giorni).
La Spagna è stata colpita più duramente dell'Italia,
anche perché la sua industria è controllata dall'estero;
in Italia, però, com'è noto, sono imminenti annunci
che tutti temono. La crisi dell'auto ha naturalmente coinvolto i fornitori;
tra questi, le grandi imprese appartengono soprattutto al settore
pneumatici (indicato tra le varie) dove i tagli maggiori hanno interessato
Michelin (settemila) e Goodyear.
Per il settore aereo (aerotrasporti più costruzioni aeronautiche)
si sono verificate condizioni analoghe, con l'aggravante di un fattore
esogeno: la guerra del Golfo, che portò a una netta, strutturale
inversione nella tendenza fortemente crescente della domanda di viaggi
aerei quando le imprese si accorsero di poter spesso sostituire -
con forte risparmio di costi - le comunicazioni elettroniche allo
spostamento fisico dei manager.
Nasce di qui una forte tendenza negativa per le linee aeree, prima
negli Stati Uniti, con l'uscita di scena di alcuni grossi nomi, e
successivamente in Europa dove i quattromila tagli previsti da Air
France hanno causato la prima seria difficoltà al governo Balladur;
pressoché tutte le linee aeree hanno annunciato tagli al personale
nel corso del 1993 e l'impressione è che altre, consistenti
riduzioni seguiranno tra breve. La crisi si è ripercossa anche
sull'industria aeronautica; per quest'ultima, il calo di ordini civili
si somma a quello di ordini militari dopo la fine della guerra fredda.
Le cadute nel campo dei trasporti hanno riguardato altresì
le ferrovie europee (a cominciare da quelle italiane, con un programma
per il taglio di diecine di migliaia di posti).
Paiono relativamente leggere le perdite di posti negli altri settori
industriali (chimica, siderurgia, industria mineraria e industria
petrolifera). Per la chimica l'incidenza della manodopera era già
stata fortemente ridotta e il settore è stato relativamente
poco toccato dalla recessione; per industrie minerarie e petrolifere,
la riduzione di attività interessa soprattutto consociate nel
Terzo Mondo che difficilmente "fanno notizia" e quindi sfuggono
alla nostra osservazione. La siderurgia, al contrario, fa molta notizia
e perde molti posti di lavoro soprattutto in Europa. L'area Cee infatti
è più esposta alla concorrenza dell'acciaio dei Paesi
ex socialisti, un prodotto questo che spesso costituisce la loro unica
esportazione valida. Passando ai servizi, banche e società
finanziarie hanno ridotto abbastanza fortemente i loro addetti in
America: è una conseguenza delle fusioni che hanno interessato
questo settore e della fine degli anni rampanti della speculazione;
forse anche però di innovazioni tecnologiche che fanno delle
attività connesse con il denaro un settore che ha minor bisogno
di manodopera ma ha invece maggior bisogno di capitali. Anche in questo
caso, si ha l'impressione che per l'Europa nuove perdite di posti
(magari senza licenziamenti) siano all'ordine del giorno.
Recente e per ora confinato all'America, risulta il fenomeno dei licenziamenti:
la grande catena Sears & Roebuck ha in corso un programma di tagli
di cinquantamila dipendenti, collegato alla chiusura dei punti vendita
più piccoli e all'uscita dal settore delle vendite per corrispondenza.
Due conclusioni provvisorie: la recessione pare aver talora innescato,
talora accelerato un processo di mutamento tecnologico largamente
inarrestabile. Per continuare ad esistere, le grandi società
devono diventare molto meno grandi in termini di manodopera, ed accettare
spesso la perdita di importanza relativa dei settori che in passato
avevano dominato l'economia (industria dell'auto, degli armamenti,
dell'hardware elettronico).
La speranza non è di salvare questi posti, per i quali si può
soltanto pensare a chiusure ordinate, bensì di recuperarne
altri in attività diverse, di minori dimensioni. E quasi certamente
non saranno più "posti" solidi, sicuri, ben delineati,
bensì attività più mobili, dai contorni meno
precisi. E' questo uno degli scotti che dobbiamo pagare al cambiamento.
I rimedi, e
il loro costo
Quante ricette attraversano l'Europa della disoccupazione. Formule
alla tedesca, alla francese. Tagli di orario, di salario, più
tempo libero, meno tasse, più contributi pubblici.
C'è di che far impallidire la fantasia delle parti sociali
italiane, ancora ferme al contratto di solidarietà o al blocco
dei salari. Impressiona la moderazione, anzi la saggezza del miracolo
italiano: saltano le indicizzazioni, ma il patto resiste alla svalutazione;
si sancisce un'intesa legata a un tasso d'inflazione programmato,
ma si negano sponde politiche al rivendicazionismo salariale.
E, almeno in parte, tanta moderazione dà i suoi frutti: cresce
l'export di regioni e settori sensibili al commercio internazionale.
Tengono piccola e media industria. La grande emorragia di posti nella
provincia non c'è stata. S'intravede, dopo una caduta fortissima,
la ripresa degli investimenti e un maggior utilizzo degli impianti.
E c'è chi accumula scorte, per sfruttare la domanda internazionale
ancora depressa delle materie prime.
Ma, ahimè, non basta. L'economia italiana purtroppo è
alla vigilia di nuove tensioni sul fronte del lavoro:
- il terziario non assorbe più manodopera. Anzi, soprattutto
nel settore pubblico, suona l'ora di una ristrutturazione profonda,
all'insegna della competitività;
- le privatizzazioni rischiano di portare con sé, secondo i
primi calcoli, tagli per circa mezzo milione di posti di lavoro;
- i grandi gruppi privati stanno per presentare un conto pesante,
sempre in materia di occupazione.
Anche in Italia, insomma, c'è fame di lavoro. E voglia di esibirsi
in fantasie, nuove proposte. Ma su un punto c'è accordo: la
ricetta, o le ricette, devono almeno avere respiro continentale. Non
solo perché la disoccupazione è problema europeo: soprattutto
perché industria, agricoltura e servizi devono ragionare almeno
in termini di continente, quanto a prezzi e competizione. E forse
è ancora poco. Basti citare un esempio ormai classico, il centro
emissione biglietti Swissair spostato a Bombay, per sottolineare il
carattere globale dell'economia, il disagio di un'eventuale fortezza
mercantile europea. E' inutile pensare a dighe capaci di proteggere
l'industria europea dalla pressione di produttori a minor costo. Ridurre
l'orario, creare o almeno mantenere i posti di lavoro, non si può
fare a scapito dei profitti. Eppure, il malessere europeo è
causato da un disagio comune. Tutte le proposte nascono segnate da
un pessimismo maltusiano: in futuro si dovrà produrre "lo
stesso" numero di auto a minor prezzo, o raggiungere il pareggio
vendendo "meno auto" ad un prezzo, probabilmente, meno remunerativo.
L'Europa non si illude: né il mercato americano, Nord o Sud,
né l'Asia paiono offrire sbocchi a merci, servizi, know how
europeo. Il mondo rifiuta i meccanismi del protezionismo agricolo
Cee; ha decretato la sconfitta sui mercati delle auto europee di fronte
al made in Japan o al risorgente made in Usa. A parte la chimica (ma
qui incombe la frontiera della biotecnologia) o la farmaceutica (un
po' sotto processo in tutto il mondo) l'Europa non sembra più
in grado di esprimere primati tecnologici.
Il mercato interno è fermo e va difeso, quello internazionale
dà poche soddisfazioni. L'Europa sente minacciata la sua identità
tecnologica e quella intellettuale (vedi difesa del cinema dall'invasione
Usa). Soprattutto, il continente vede minacciata la grande conquista
del secolo, la sicurezza sociale.
Il confronto sul lavoro esce così dagli equivoci. Più
mobilità e flessibilità, meno vincoli per le aziende
oppure più protezione al posto di lavoro, magari a scapito
del salario nominale o reale? E ancora: più tasse e contributi
per assicurare un impatto morbido alla grande ristrutturazione o più
libertà d'impresa, magari a costo di sofferenze più
acute per aree geografiche, ceti sociali o generazioni?
Pare questa la questione chiave dei prossimi anni. Di là dalla
fantasia c'è da scegliere tra modelli di sinistra o di destra.
Senza dimenticare che l'Europa non vive in una sfera economica riparata,
ma deve interagire con la concorrenza esterna e un sistema tecnologico
dagli sviluppi imprevedibili.
Basti pensare agli scenari dell'industria Usa, in ristrutturazione
continua. Oltreoceano si annuncia una ripresa (177 mila posti a ottobre)
dell'occupazione, seppur modesta, quasi tutta dovuta alla flessibilità
dell'occupazione, al terziario meno sviluppato.
I grandi gruppi però continuano a tagliare e si sperimentano
le novità della rivoluzione informatica che consente a sempre
più imprese (Ibm e General Electric in testa) di programmare
il lavoro a domicilio per un numero crescente di lavoratori. Un lavoro
a minor costo, pagato peggio che in passato, anche per la minor forza
contrattuale dei lavoratori. E contro questi rivali forse la fantasia
non basta. Anche se qualcosa per ridar fiducia ai consumatori bisogna
farlo, e in fretta.
Artigiani,
è il fisco il nemico
Il fisco italiano non fa paura agli artigiani. E' questo uno dei risultati
ricavabili da una ricerca dal titolo Esiste (di nuovo) un mercato
sommerso a Torino? svolta dal Centro Einaudi per la Camera di Commercio
di Torino. Nel corso della ricerca, che ha l'obiettivo di accertare
se sia in corso un processo di parziale risommersione dell'economia
torinese, sono stati intervistati 125 operatori di settori considerati
"a rischio" ed è stato loro chiesto quali ritenessero
essere gli svantaggi di esercitare la loro attività in forma
sommersa anziché nel rispetto delle norme: meno di un operatore
su cinque (16,9 per cento) ha ritenuto che il rischio di essere scoperti
dal fisco, ed essere così costretti a pagare una multa, costituisse
uno svantaggio di cui tener conto.
Corollario della incapacità del fisco di perseguire gli operatori
sommersi è il fatto che un intervistato su tre (32,3 per cento)
abbia dichiarato che "non esistono svantaggi" nell'operare
in nero: l'unico freno alla decisione di sommergersi può essere
costituito dall'ambizione di ampliare la propria attività (il
21,8 per cento ha citato questo fattore come svantaggio della sommersione).
Anche più grave appare il fatto che più del 50 per cento
degli intervistati formuli un giudizio benevolo nei confronti degli
operatori sommersi, affermando di comprenderne le ragioni ed attribuendo
la responsabilità del loro comportamento illegale alla esosità
del fisco, incapace comunque di perseguirli. Questo anche nel caso
in cui all'intervistato veniva ricordato come gli operatori sommersi
costituiscano un danno per la sua attività economica, sotto
forma di sottrazione di clientela, attratta dai prezzi più
bassi che chi opera fuori dalla legalità può praticare.
Il nemico, si deduce dalle risposte, è un altro ed è
comune ad operatori regolari e sommersi: il fisco (il 51 per cento
degli intervistati ha citato l'aumento del carico fiscale" tra
le cause responsabili della crisi).
I dati inducono ad alcune riflessioni: in condizioni normali, per
chi opera nella legalità il nemico, tra fisco ed operatore
sommerso, dovrebbe esser il secondo e non i primo; inoltre il fisco
dovrebbe comunque disporre degli strumenti per, se non terrorizzare
i potenziali evasori, almeno far considerare loro il rischio di accertamento.
Si ricordi come i programma "manette agli evasori" sia stato
una delle cause del processo di riemersione negli anni Ottanta. Oggi
invece non è così: il fisco è considerato dagli
operatori un nemico dell'economia, in quanto, pur essendo in grado
di accertare dove ci sia produzione di reddito e dove no, non è
in grado di svolgere con efficienza il proprio compito.
Ne è prova la tassazione delle attività artigianali
fondata sulla minimum tax, che anziché accertare il reddito
lo presume: essa costringe gli operatori minori a pagare un carico
fiscale non giustificato e permette a quelli maggiori di evadere in
tutta tranquillità la differenza tra reddito prodotto e reddito
presunto. Si aggiunga la possibilità per i primi di cancellarsi
dalla Camera di Commercio per non pagare la tassa, continuando l'attività
a livello sommerso senza rischio di scoperta, a volte percependo anche
una pensione: ed è facile previsione l'ulteriore "perdita"
di posti di lavoro nell'artigianato.
Idee
Come ti finanzio
la piccola impresa
Viene dagli
Stati Uniti la proposta di un nuovo titolo obbligazionario
Si chiamano "small
and medium enterprises backed securities" (Smebs), e sono la
più recente innovazione in materia di finanziamento delle piccole
e medie imprese (Pmi). La loro regolamentazione è all'esame
del Senato degli Stati Uniti, che potrebbe in breve tempo consentire
l'emissione di questo particolare tipo di obbligazioni.
Tra banche e piccole imprese non corre buon sangue, neppure oltreoceano.
Le prime ritengono di essere troppo esposte; le seconde lamentano
di pagare il denaro troppo caro e, comunque, di esser soggette a razionamenti
del credito, in quanto il sistema bancario preferirebbe affidare le
grandi imprese, nonostante che queste spesso non offrano garanzie
di soliditá o stabilità migliori delle Pmi. Con le Smebs
si potrebbe porre fine ad una discussione che dura - senza soluzioni
- da decenni.
Si tratterebbe, in sostanza, di permettere alle banche di smobilizzare
parte del loro portafoglio crediti verso le Pmi, trasformandolo in
obbligazioni a reddito variabile da emettere sul mercato finanziario.
Queste obbligazioni, le Smebs appunto, avrebbero flussi variabili
nel tempo, secondo le condizioni dei prestiti concessi dalle banche
emittenti alle imprese. Naturalmente, in caso di insolvenze le sofferenze
graverebbero sull'obbligazionista, protetto da questa evenienza solo
per una parte: una sorta di franchigia esposta tra le condizioni di
emissione.
Le Smebs non sarebbero dunque titoli "senza rischio" ma
permetterebbero al risparmiatore medio di partecipare in qualche modo
agli utili dell'attività bancaria. Questi dovrebbero essere
maggiori, in media, dei tassi di interesse senza rischio offerti,
per esempio, dalle obbligazioni di Stato. Oltre tutto, sono sempre
meno gli Stati che possono offrire ai loro sottoscrittori la tripla
A di Moody's. Vi sarebbero vantaggi non solo per i risparmiatori,
ma anche per gli emittenti (le banche), per il sistema delle Pmi,
per i mercati obbligazionari.
Le banche - Il
settore bancario potrebbe disintermediare parte del portafoglio di
impieghi, liberando liquidità per aumentare l'offerta di credito
al sistema, in particolare, verso il settore delle Pmi; la disintermediazione,
infatti, farebbe gravare sui bilanci dei sottoscrittori una quota
del rischio dell'attività bancaria. Il reddito che le banche
ritraggono dall'esercizio del credito verso le Pmi proverrebbe, nella
sua maggior parte, dall'attività di selezione di un maggior
numero di imprese affidabili, dal collocamento e dalla negoziazione
delle Smebs, anziché dal puro margine di interesse. Un'ampia
negoziabilità delle Smebs nei mercati di Borsa costituirebbe
l'incentivo per gli operatori bancari ad effettuare una accurata selezione
delle imprese da affidare. Infatti, la possibilità per una
banca di raccogliere sottoscrizioni di Smebs si baserebbe sulla storia
dei risultati conseguiti dalle emissioni precedenti. Questo disincentiverebbe
anche gli istituti di credito dall'emettere Smebs che siano il risultato
della semplice aggregazione di crediti troppo rischiosi, al puro fine
di alleggerire la propria posizione dalle sofferenze pregresse.
Le piccole e medie
imprese - Le Pmi potrebbero disporre di una offerta di credito maggiore
e con meno vincoli quantitativi e arriverebbero ai mercati obbligazionari
"in pool", magari senza avere singolarmente le dimensioni
minime necessarie per accedervi. Per essere inserite nei pacchetti
di crediti destinati al mercato finanziario, esse sarebbero inoltre
incentivate a offrire maggiori e migliori informazioni alle banche,
poiché queste ultime si baserebbero su una selezione più
attenta ai criteri economici, quali l'esistenza di progetti di sviluppo
d'impresa, piuttosto che non ai criteri giuridici, quali le garanzie
reali o fideiussorie.
I mercati obbligazionari
- Questi strumenti integrerebbero l'offerta, anche perché sarebbe
presumibile attendersi un'ampia varietà di emissioni diverse
nell'ambito delle stesse Smebs. A distinguere le Smebs sarebbero non
soltanto le "ditte" degli emittenti: vi sarebbero Smebs
distinte per durata dei crediti e per finalità degli stessi,
con specializzazioni settoriali e/o specializzazioni geografiche.
Sarebbe inoltre possibile costruire ed offrire Smebs con diverse denominazioni
valutarie oppure con una denominazione multivalutaria. Come si vede,
le Smebs amplierebbero notevolmente i mercati finanziari permettendo
ai risparmiatori - famiglie o investitori istituzionali - di investire
in un comparto nuovo che, insieme ad un certo rischio, non mancherebbe
di offrire anche redditività attese superiori a quelle medie.
In Italia, il settore delle obbligazioni societarie è particolarmente
depresso, anche per via dell'ampia prevalenza degli strumenti del
debito pubblico sulle obbligazioni ordinarie. Per le Smebs, dunque,
sarebbe probabilmente difficile ritagliarsi un proprio spazio. Ma
le cose non sono destinate a rimanere immutate per sempre. Banche
ed imprese sono da tempo alla ricerca di una qualche forma di collaborazione
che vada oltre il credito ordinario. Le Smebs rappresenterebbero un
buon punto d'incontro tra la richiesta di maggior fiducia da parte
delle Pmi e quella di minor esposizione al rischio da parte dei banchieri.
Perché non provarci, dunque?