§ Panorama italiano / Comportamenti

Il tempo delle responsabilitą




Luigi Cappugi



In America raccontavano questa storiella ai bambini. Un vecchio emigrante europeo, ai tempi in cui gli emigranti passavano da Ellis Island, appena sbarcato a New York entra in una cafeteria perché vuole mangiare. Si siede a un tavolo e aspetta. Nessuno lo serve perché non ci sono camerieri, si tratta di un self service. Finalmente qualcuno gli spiega come lì funzionano le cose: uno si deve alzare, mettersi in fila, decidere ciò che vuole e alla fine passare alla cassa e pagare il prezzo di ciò che ha scelto. Il senso è chiaro: la vita è come una cafeteria-self-service, tu puoi volere tutto (o quasi), (a volte) anche il successo, ma sai che comunque devi scegliere, devi agire, e poi devi passare alla cassa e pagare il. conto. Se te ne stai seduto, nessuno ti porta niente. Se non ti muovi, se non vuoi pagare il conto, non avrai niente.
La storia ha duramente condannato i valori opposti (che, storicamente ed emblematicamente, hanno trovato la loro più piena realizzazione nel socialismo reale) a quelli banalmente illustrati nella storiella appena raccontata.
In tutto il mondo il socialismo reale è considerato un'esperienza da non ripetere, come il fascismo, come il nazismo. Anche se la percezione generale sembra ancora essere quella di un male infinitamente minore delle due grandi piaghe degli anni Venti e Trenta, ho la sensazione che bisognerà meditare con una certa calma prima di stabilire graduatorie. Il socialismo reale è comunque - almeno a parole - ormai respinto. E ciò per ragioni etiche, per motivi economici, perché portatore di un'ideologia totalitaria che ormai tutti rifiutano. E tuttavia, nei Paesi che non hanno vissuto direttamente questa esperienza, come il nostro, il socialismo reale ha ancora profonde radici nella cultura, nell'utopia che alimenta alcune formazioni politiche, nella prassi del sindacato, nelle consuetudini delle amministrazioni centrali e locali, nelle aule di tribunale, nelle attese di larghi strati di popolazione, nutrite delle generose promesse dei politici (perché, come è detto nel capitolo "De liberalitate et parsimonia" de Il Principe, "lo spendere quello d'altri non ti toglie reputazione, ma te ne aggiunge; solamente lo spendere il tuo è quello che ti nuoce").
Nessuno vuole qui dire che la colpa di ogni male sia imputabile nel nostro Paese al socialismo reale e alla sua ideologia. E', al contrario, la mortificazione, direi la repressione - che colpisce il senso di responsabilità e l'assunzione di responsabilità nella vita sociale, [coloro che fanno" rispetto a "coloro che parlano e criticano senza mai fare o voler fare" - che è causa di decadenza e di lento precipitare nell'abisso del socialismo reale. E' la "cultura dell'opposizione" che perennemente emerge ad ogni occasione e con ogni pretesto, e che ha finito per alimentare la crescita di una "cultura di governo", a tutti i livelli, arrogante e inetta. E' il perenne coro di "no" che seppellisce ogni sforzo di coloro che vogliono risolvere i problemi e che sentono il dovere di assumersi la responsabilità di fare; che mortifica ogni buona volontà, ogni tentativo di scuotere alla radice la malapianta degli sterili ipercritici.
Se ci caliamo nella realtà produttiva, troviamo innumerevoli esempi di cultura da socialismo reale. Proviamo a costruire un modello che rappresenti tale modo di pensare. Avremo un triangolo di comportamenti: un lato formato dai cittadini-dipendenti, un lato formato da cittadini-cittadini, un terzo formato da cittadini-capi, cioè da quelli che dovrebbero avere la responsabilità.
I dipendenti, anche se non lo vogliono ammettere, vogliono lavorare il meno possibile, in quanto semplicemente o sono abituati a lavorare in modo totalmente o parzialmente deresponsabilizzato o hanno visto fino a ieri il proprio vicino arricchirsi con le ruberie, il secondo lavoro, l'evasione fiscale, la pensione baby della moglie: il miglior modo che si è pensato di adottare per reagire è stato, quasi sempre, quello di incrociare le braccia. il tutto con il conforto del sindacato, che non si è preoccupato dei meriti, non ha investito - in tanti anni di lotte, scioperi, manifestazioni - in coloro che volevano dare un contributo positivo e costruttivo all'evoluzione dei rapporti con il governo e con l'imprenditoria, ma sempre, invece, ha cercato di ottenere ore di lavoro in meno o alcune decine di migliaia di lire al mese in più.
In questo modo i dipendenti hanno finito per vedere nel "posto" soltanto un sacrosanto diritto, non preoccupandosi del corrispettivo che doveva, comunque, essere fornito in cambio di un salario, troppo spesso spropositato sia rispetto alla prestazione che al costo aziendale sostenuto.
Su un altro lato del triangolo, i cittadini-capi che si sono per anni preoccupati, sempre più spesso, solo di se stessi, del modo di arricchirsi, di come mantenere e guadagnare potere, di come galleggiare tra le proteste dei dipendenti e la demagogia dei sindacati dei diversi livelli, le pretese dei rispettivi capi o colleghi. Il tutto con in mano due strumenti a disposizione, i soldi e le norme.
Nei comportamenti dei cittadini-capi non troviamo, salvo le solite e lodevoli eccezioni, alcun obiettivo di miglioramento della produttività. Né la situazione è migliore se guardiamo all'uso delle leggi come strumento di difesa del potere degli apparati. Un sostanziale disprezzo per la fatica e per i diritti altrui caratterizza norme assurde, spessissimo contraddittorie tra loro, sempre mirate a costruire vantaggi per i singoli, o le singole microclassi. Basti per tutti l'esempio degli aumenti di stipendio, dove il "galleggiamento" in alcuni casi è stato, per molti anni, addirittura legge o consuetudine: non c'era nemmeno più bisogno di chiederli e contrattarli, tanto arrivavano da soli, spesso grazie agli aumenti di stipendio dei dipendenti o semplicemente attraverso l'effetto di trascinamento di altre categorie.
Tra l'altro, nessuno di questi presunti capi sembra essersi preoccupato di stabilire collegamenti tra retribuzioni, carriere e risultati. Gli aumenti, le promozioni, i finanziamenti a copertura delle spese -nelle quali fra l'altro troppo spesso si confonde il conto capitale con il conto esercizio - arrivano perché non costano nulla a chi deve deliberarli, anzi consentono di acquisire consenso, di incrementare quel sentimento a metà strada tra collusione e omertà, che è il vero macigno cui ci troviamo di fronte. Poiché non vi è nessun legame fra retribuzione e risultati, non vi è alcun incentivo a ottenere risultati. Il finanziamento arriva sempre o, meglio, tutti sono convinti che deve arrivare sempre. Non c'è alcuna analisi seria del perché si spende, dove si spende, quanto si spende, quanto si potrebbe spendere di meno. Ovunque troviamo situazioni dove vasti ceti sociali, di ogni livello, sono riusciti a realizzare il massimo di privatizzazione dei profitti e di socializzazione delle perdite.
Veniamo infine al terzo lato del triangolo: ai cittadini-cittadini: a quelli chiamati a pagare il conto, a coprire con le loro tasse il buco aperto dai comportamenti altrui. Costoro appaiono sempre più furibondi, sempre meno pronti ad accettare il ruolo di "parco buoi", di docili strumenti in mani altrui. Se costoro hanno una colpa grave, è quella di essere stati sinora troppo tolleranti. Se costoro avranno in futuro colpa ancora più grave, sarà quella di continuare a subire senza reagire coralmente con forza. E non mancano gli esempi in politica, nella magistratura, anche nelle stesse strutture dello Stato, di persone che hanno avuto il coraggio e la forza di manifestare apertamente i propri punti di vista e altre che ora stanno reagendo fortemente. Si tratta di vedere se la massa dei cittadini-cittadini seguirà il loro esempio. L'impresa che costoro hanno di fronte è oggettivamente impari. La quadratura tra incassi e spese, in assenza di un radicale cambiamento di cultura politica e sindacale, e quindi di un "ribaltone" della cultura di base, appare quasi improbabile. Sono i singoli gangli dello Stato a opporsi con fermezza inusitata al riequilibrio dei lati del nostro triangolo.
E' arrivato il momento, a mio avviso, di scrivere "a lode e gloria` del principio di responsabilità, di quel sentimento e ispirazione che portano ad avere sempre la coscienza dei propri doveri prima di avvertire lo stimolo dei propri interessi; a seguire gli impulsi della propria creatività, assumendosene con coraggio tutti i rischi, in barba ai criticoni che preferiscono sempre e solo la comoda cuccia della perenne opposizione a qualsiasi cosa venga tentata o fatta. E ciò perché solo la crescita di questi valori nell'animo dei cittadini è il seme dello sviluppo, è la radice stessa della crescita di questo Paese e della soluzione dei propri problemi, in futuro così come lo è stato negli ultimi cinquant'anni.
Sarebbe tanto più pagante - anche dal punto di vista del semplice marketing - avere il coraggio di propugnare la tesi dell'impegno della responsabilità, dei più semplici doveri e della semplificazione delle norme.
Senza una crescente capillare diffusione di questi valori, è di fatto impossibile realizzare alcunché di positivo. La crescita morale prima che economica di un Paese non può che richiedere in primo luogo la crescita morale e civile di se stessi in quanto individui, in quanto uomini capaci di assumersi la responsabilità della crescita, pronti a pagare individualmente il prezzo inevitabile di questa crescita. Diversamente, ogni programma di rinnovamento e di sviluppo appare vuoto, è una costruzione utopistica senza alcuna possibilità di pratica e concreta attuazione.
La competizione a livello mondiale, in un mondo divenuto un solo mercato, rende sempre più difficile la vita a chi pretende di giocare senza rispettare le regole, senza adeguare la propria cultura, la propria struttura mentale e morale a queste regole.
E queste regole sono quelle della responsabilità, della creativita, dell'innovazione, della coscienza dei propri doveri prima che dei propri diritti, dell'efficienza, del lavoro, come valori da rispettare, da tutelare, da esaltare. Non vi deve essere più spazio per coloro che vivono guardando indietro.

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