A
Palazzo Koch, nella sede storica della Banca d'Italia, Antonio Fazio
- che come Azeglio Ciampi, e prima ancora Baffi, aveva percorso la sua
carriera all'interno, soprattutto nel settore della ricerca economica
- si è insediato il 4 maggio '93, a poco più di tre settimane
dalla tradizionale Assemblea. Le celebri "Considerazioni finali"
del Governatore, che Ciampi aveva reso tanto incisive quanto sobrie
e severe, si sono fatte, se è possibile, ancora più sobrie.
Più brevi, non meno incisive, né meno severe nel loro
"nocciolo duro".
Conosciuto e stimato come finissimo economista teorico, costruttore
di imponenti modelli econometrici, le prime dichiarazioni pubbliche
del nuovo Governatore furono piuttosto un rigoroso richiamo all'urgenza
di correggere gli squilibri paurosi della finanza pubblica e a non contare
troppo su spericolate o illusorie riduzioni dei tassi d'interesse.
Insomma, quella che è una encomiabile e più che centenaria
tradizione della Banca d'Italia, la continuità in situazioni
storiche diverse - nell'arco del secolo, epocalmente diverse - e soprattutto
in un metodo e in uno stile forgiati per gradi, attraverso sedimentazioni
successive, sempre "al fine esclusivo di servire l'Italia, nell'espletamento
dei compiti e nell'autonomia stabiliti dall'ordinamento", si manifestò
ancora una volta.
In un certo senso, in una fase storica eccezionale come questa, ben
lungi tuttavia dall'essere senza precedenti persino più drammatici
dal 1893 ad oggi (anche se nessuno degli otto Governatori che si sono
succeduti da allora, magari accademici dei Lincei come Stringher, Einaudi,
primo ministro del Bilancio, nel '47, con il salvataggio della lira,
e poi presidente della Repubblica, e Baffi, erano mai divenuti presidenti
del Consiglio), la Banca d'Italia, per bocca del suo attuale esponente,
ha detto al governo che fu capeggiato da Ciampi ciò che Ciampi
in ben tredici anni di moniti, di suggerimenti e di azione volta alla
conquista dell'autonomia funzionale nel governo della moneta aveva saputo
affermare con estrema lucidità nei confronti dei governi, dei
Parlamento e delle forze sociali.
Continuità, dunque, nel cambiamento, oggi e per un secolo intero.
Non diciamo l'Italia odierna, ma l'Italia della seconda metà
di questo secolo, affacciatasi ai massimi livelli dello sviluppo economico
materiale, nazione industriale profondamente inserita nei mercati internazionali,
fortemente protesa (sebbene con sciagurata impreparazione istituzionale
e politica, ma anche culturale, e persino tecnica) verso l'Europa, è
assolutamente imparagonabile a quella di cento anni fa.
Eppure la Banca d'Italia nasceva proprio in una fase storica politicamente
e moralmente difficilissima della nazione unitaria, sotto il segno di
un gravissimo scandalo di corruzione e di commistione fra politica e
affari. Fu infatti dal bubbone della Banca Romana che trasse origine
la Banca d'Italia, con la riduzione del numero degli istituti di emissione
post-unitari da ben sei a tre. Anche se si dovrà attendere il
1926 perché il privilegio dell'emissione venisse finalmente tolto
al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia.
Dalla cronaca
alla storia
Occorsero più
di sessant'anni perché alla proclamazione dell'Italia unita
seguisse la creazione di un unico Istituto di emissione della moneta.
Non che l'opportunità di quel corollario del processo di unificazione
politica non fosse avvertita; al contrario, ad un uomo come Cavour
non poteva certo sfuggire che quello era uno dei passaggi essenziali
per rendere coeso e, per quanto possibile, omogeneo quel Regno appena
messo insieme. E infatti se ne interessò attivamente, col merito
di escludere la facile soluzione di mutuare un qualche modello dall'esperienza
degli Stati già consolidati, per immaginare l'istituzione con
l'originalità della visione liberale e liberista che gli derivava
dalla sua formazione.
Cavour non riuscì a realizzare questa componente del suo disegno
unitario scontrandosi, come altri dopo di lui, con la difesa localistica
dei ben sei Istituti di emissione che nella neonata Italia continuavano
ad emettere moneta.
Fu necessario attendere trent'anni perché si determinassero
le condizioni per incominciare a dipanare quell'intricata matassa.
E, secondo una norma che l'Italia fin da allora precocemente manifestò,
le condizioni vennero date da uno stato d'emergenza, quello di una
crisi economica e bancaria acutissima che toccò il suo apice
nello scandalo della Banca Romana. Solo allora, agli inizi degli anni
'90 del secolo scorso, divenne "politicamente praticabile"
avviare la concentrazione della responsabilità della moneta
in un'unica istituzione con la nascita della Banca d'Italia nella
quale, per disposizione della legge 449 promulgata da Umberto I il
10 agosto 1893, furono fuse la Banca Nazionale del Regno d'Italia,
la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito. La Banca
Romana venne posta in liquidazione, mentre mantennero la prerogativa
di emettere moneta due istituti meridionali, i Banchi di Napoli e
di Sicilia.
Anche se il suo primo direttore generale (la carica di Governatore
venne istituita soltanto nel 1928) se ne andò ben presto sbattendo
la porta, ritenendo lo statuto troppo vincolante, la Banca d'Italia
nacque mantenendo nel suo codice genetico un'impronta cavouriana che
le attribuì margini di autonomia sconosciuti alle omologhe
istituzioni del tempo. Certo, i limiti operativi erano rigorosi, ma
li volle Sidney Sonnino, e con qualche ragione: in fin dei conti,
un istituto di emissione era appena precipitato nella melma del malaffare.
Non nacque, comunque, come altri istituti centrali, a cominciare da
quello inglese due secoli prima, al servizio dello Stato e per agevolarne
l'indebitamento. Nacque nell'emblematica forma della società
per azioni con l'assunto che un istituto di emissione è utile
solo in quanto possa avvalersi di congrui margini di autonomia.
Fu merito di Bonaldo Stringher quello di aver attribuito all'Istituto
solidità e prestigio.
Lo guidò per ben trent'anni ottenendo, con la riforma bancaria
del '26, un ampio riconoscimento dei poteri che di fatto si era conquistato.
Con quella riforma la Banca d'Italia divenne finalmente l'unico Istituto
di emissione del Paese e, nello stesso tempo, le venne attribuita
la vigilanza sulle banche. Stringher fu il primo banchiere centrale
che non si limitò a governare l'emissione di moneta, ma realizzò
una vera e propria politica monetaria, ossia un governo della moneta
attento alle condizioni dell'economia e alla correzione degli andamenti
indesiderati.
La disgrazia di Stringher fu che, proprio nell'imminenza della successione,
venne a mancare D'Aroma, che lui aveva prescelto, formato e insediato
come indiscusso delfino. Così lo scettro di Governatore fu
assegnato ad Azzolini: personaggio sul quale il giudizio rimane controverso
tra chi lo accusa di aver ceduto al regime fascista e chi, invece,
ritiene che abbia resistito come poté nel clima autoritario
della seconda metà degli anni '30.
Il dopoguerra comincia con Luigi Einaudi e l'autonomia della Banca
d'Italia trova nuove e più esplicite espressioni nei lavori
della Costituente, nella stessa Costituzione repubblicana, nelle leggi
emanate per riordinare la sua attività.
Einaudi fu un esempio illuminante di un altro aspetto dell'autonomia
della Banca. Persino lui, un caposcuola del liberalismo, che per decenni
criticò la Banca per le sue scelte illiberali, una volta Governatore
venne meno, spesso, ai suoi stessi precetti, come quando volle ed
applicò un piano sportelli per proteggere le banche dai rischi
e dai costi della concorrenza. Einaudi non è il solo esempio
di queste apparenti contraddizioni nelle quali molti Governatori sono
incorsi. Esse si spiegano con la circostanza che, soprattutto sul
piano del liberismo, la cultura della Banca d'Italia è sempre
stata avanti a quella del Paese in genere e della classe politica
in particolare. Ne è derivata la peculiarità di una
Banca centrale che, per un verso, svolge di fatto un'importante funzione
pedagogica e, per l'altro, proprio perché particolarmente attenta
ad ogni aspetto della realtà italiana, nella prassi si è
dovuta operativamente piegare ai suoi squilibri, alle sue debolezze.
Einaudi lasciò la Banca a Menichella, personaggio di grande
statura che ebbe il buon senso di innovare il meno possibile in un
periodo nel quale tutto sembrava andare per il verso giusto, con la
lira forte e l'economia che cresceva al 5 per cento l'anno. Lui, che
già prima del '60, posto il quadro di un San Sebastiano trafitto
dalle frecce nel suo studio, si dichiarò "liberista per
disperazione", digerii molto male il Governatore successivo,
Guido Carli, che salutò come persona nota nel mondo per la
sua preparazione giuridica e per la sua memoria. Ben altri, però,
furono i motivi di quella reazione negativa. Discendevano dal fatto
che alla scelta di Carli non furono estranee considerazioni di ordine
politico. Lo stesso Menichella, che aveva conosciuto bene i De Gasperi,
i Vanoni, i Campilli, i Pella, avvertì che il partito di maggioranza
relativa stava cambiando. in quel partito si andava affermando la
componente sindacal-solidarista dei Fanfani, dei Pastore, dei Donat-Cattin,
meno sensibili alle ragioni del liberismo e del rigore finanziario,
con la quale Carli avrebbe potuto intendersi assai meglio che un Ossola
o un Baffi.
E sostanzialmente politiche furono anche le dimissione con le quali
Carli pose termine ai suoi quindici anni di Governatorato. Era la
metà degli anni '70, gli anni di piombo. "Confraternite"
più o meno occulte sembravano prevalere su un sistema politico
che, nel tentativo di raccogliere le sue residue forze, si stava avviando
verso il consociativismo. La possibilità di adempiere i compiti
istituzionali di una Banca centrale stava venendo meno; o almeno così
gli sembrava. Decise, quindi, di lasciare, consigliando i più
giovani e promettenti dei suoi collaboratori a fare altrettanto, e
indicando in Ventriglia il successore omologo ed emblematico di quella
fase buia della nostra storia.
Le cose andarono in modo diverso. Con un paradosso che solo un Paese
come il nostro può produrre, a bloccare quel disegno fu soprattutto
il Pci, quello degli Amendola, del Napolitano e del Colajanni. Ma
si spiega: la destra ha sempre visto nella Banca una cultura da avversare
perché portatrice dei valori dell'internazionalizzazione e
della concorrenza e, quindi, tesa a mettere continuamente in discussione
gli assetti stabiliti e gli interessi consolidati. la sinistra, invece,
dallo stesso Togliatti in poi, sotto sotto l'ha sempre difesa, vedendovi
un riferimento imprescindibile in un Paese con un capitalismo debole
e con uno Stato inefficiente. Fu il Pci che favorì e forse
impose la nomina di Baffi. Se questi, poi, con il vergognoso attacco
che dovette subire (con Sarcinelli) ad opera di una magistratura che
non era certo quella del Di Pietro, dovette pagare anche la genesi
della sua nomina, è cosa che la storia deve ancora acclarare.
Il rischio che l'autonomia della Banca corse in quegli anni fu grave,
forse ancor più di quello che corse nel Ventennio, se non altro
perché la Banca di Baffi aveva molto più da perdere
di quella di Azzolini. Tuttavia fu superato, grazie all'equilibrio
e alla pacatezza di un "fondista" come Ciampi, e grazie
anche al ristabilimento nel Paese di quella concezione cavouriana
secondo la quale una Banca centrale serve al Paese solo se autonoma.
Con Ciampi Governatore, infatti, la Banca e il governo hanno ristabilito
corrette distanze e ridefinito le rispettive responsabilità
con norme, come quelle sul tasso di sconto o sul conto corrente di
Tesoreria, che hanno grande rilevanza ai fini dell'assetto e della
trasparenza del nostro ordinamento politicoistituzionale.
Un correttivo
per il capitalismo debole
Sono almeno tre
i caratteri distintivi e significativi che la Banca centrale ha assunto
nei suoi centouno anni di vita. Si tratta di caratteri emblematici
e non solo peculiari a un Paese perché permettono di gettare
luce sulla difficile analisi del central banking non meno dei più
citati casi anglosassone e tedesco. Ma sono significativi anche perché
capaci di parlare dei problemi dell'Italia di oggi, che consistono
nel superamento dei limiti storici del capitalismo italiano che hanno
esaltato il ruolo della Banca d'Italia.
Il primo di questi caratteri consiste nell'eccezionale rilievo dell'istituzione
Banca centrale. E' raro, forse unico, nel panorama internazionale
il caso di una Banca centrale che abbia un pesò così
rilevante, ed esercitato con continuità, nell'economia di un
Paese. L'importanza attribuita all'annuale appuntamento del 31 maggio
per la relazione del Governatore, che non ha eguali negli altri Paesi,
esprime nella liturgia dell'occasione un interesse autentico, davvero
eccezionale, dell'economia, della finanza, della politica per ciò
che la Banca centrale non solo fa, ma anche pensa. Per importanza
relativamente ad altre istituzioni di governo, la Banca d'Italia non
è seconda a nessun'altra Banca centrale. E', in questo peso
nella vita economica e politica del Paese, paragonabile alla Deutsche
Bundesbank. Ma, a differenza di quest'ultima, la Banca d'Italia non
deve questa sua posizione alla coltivazione di un mito, quello dell'autonomia,
al quale attenersi a tutti i costi. La sua importanza e la sua capacità
di condizionare le scelte economiche del Paese non sono prodotti di
un'investitura, ma della sua capacità di usare un ampio spazio
di discrezionalità nell'esercizio dei poteri che, di fatto
e non solo di diritto, essa è stata in grado di esercitare.
Nelle graduatorie di autonomia delle Banche centrali dai governi,
che da qualche tempo si usa stilare, la Banca d'Italia non compare
mai ai primi posti, dove brilla invece per comune riconoscimento la
Bundesbank. C'è però da chiedersi, valutando la storia
e non il solo indice del tasso d'inflazione, se davvero l'autonomia
abbia consentito alla Bundesbank di condizionare le scelte dei governi
tedeschi più di quanto non sia alla fine riuscito alla Banca
d'Italia nei confronti dei governi italiani. Le vicende dell'unificazione
tedesca sono a questo proposito significative, e forse avrebbero potuto
prendere una piega migliore, per la Germania e per l'Europa, se l'autonomia
della Bundesbank fosse stata meno "tedesca" e più
"italiana".
Il secondo carattere che distingue la Banca centrale italiana nel
panorama internazionale è che essa concentra in sé le
tre funzioni della politica monetaria, della vigilanza prudenziale
e di quella strumentale. La Banca d'Italia, insieme a quelle d'Inghilterra
e di Francia, ma a differenza delle Banche centrali degli altri Paesi
dei G-7 e della maggior parte dei Paesi europei, esercita direttamente
la vigilanza bancaria. Essa inoltre ha unito a questa funzione anche
quella della vigilanza strutturale, volta a incidere sulla configurazione
del sistema finanziario, attraverso poteri delegati dalla legislazione
bancaria in merito al controllo dell'espansione territoriale delle
banche e delle attività creditizie e finanziarie, in altri
Paesi, o regolamentate per legge o lasciate prevalentemente alle libera
iniziativa. Anche l'uscita da questo regime di forte e discrezionale
indirizzo dell'evoluzione del sistema finanziario - con l'abbandono
del piano sportelli, con la preparazione del recepimento della seconda
direttiva comunitaria, fino al recente Testo unico che costituisce
la nuova legge bancaria - è stata pilotata dalla Banca d'Italia.
Essa ha così compiuto il suo supremo atto di regia nell'abbandono
della sua funzione di regista del sistema finanziario italiano.
Grande rilievo negli indirizzi della politica economica e ampi poteri
nei confronti del sistema creditizio e finanziario costituiscono senza
dubbio peculiarità del central banking italiano. Ma non sono
per questo deviazioni dai principi più generali del central
banking tout court. Si può anzi affermare che proprio dalla
storia italiana emergono conferme delle analisi più raffinate
e consapevoli di questa "arte". Il concetto di "autonomia",
come utilizzato nei confronti internazionali, appare, visto dall'esperienza
italiana, riduttivo. L'unione, tutta italiana, delle tre funzioni
di politica monetaria, di vigilanza prudenziale e strutturale sottolinea
i nessi profondi esistenti tra la gestione della moneta, la solidità
del sistema dei pagamenti, che è obiettivo primario della vigilanza
bancaria e la struttura del sistema finanziario, che condiziona sia
le modalità del governo della moneta sia la predisposizione
al rischio di crisi finanziarie. Nessi che non nascondono anche i
conflitti di interesse che ne possono derivare, ma che permettono
di valutare sul piano più generale costi e benefici di una
Banca centrale operante a tutto campo.
Vi è un ultimo carattere della Banca d'Italia che va messo
in evidenza. Essa costituisce, tra le istituzioni che reggono il Paese,
un esempio di alto servizio civile calato in un'amministrazione dell'interesse
pubblico divenuta tra le meno affidabili. Qui la peculiarità
consiste non tanto nel prestigio in sé della Banca, ma nel
fatto che in nessun altro dei principali Paesi sembra esservi un divario
così accentuato con le altre pubbliche istituzioni.
Questi tre caratteri sono altamente significativi per uno studio del
central banking concepito come arte del possibile nell'affascinante
campo della moneta e della sua regolazione. Ma ancor più significativi
risultano se, ricordando con Schumpeter che la moneta più d'ogni
altro fenomeno economico esprime il carattere di una nazione, li rapportiamo
a ciò che l'Italia è stata, e a ciò che potrebbe
essere in futuro. L'intera vita della Banca d'Italia rappresenta,
con i segni che il tempo le ha lasciato, la storia di un capitalismo
diverso da quello anglosassone, che ha scritto i manuali di economia,
e anche da quello germanico-giapponese che in questi manuali comincia
ad apparire. Diverso perché quello italiano è, innanzitutto,
da sempre un capitalismo alla ricerca di se stesso, che fallisce clamorosamente,
con l'esperienza della banca mista importata dalla Germania, nella
costruzione di un duraturo sistema bancario e finanziario privato.
Un capitalismo in cui le famiglie degli originari imprenditori preferiscono
contrattare per ottenere protezioni da uno Stato che non hanno avuto
la forza di rendere liberale e laico, immagine di chi crede nelle
proprie capacità. Uno Stato che hanno invece preferito "altro
da sé", debole, inefficiente, ma condizionabile.
E' una storia che dà conto dell'ambiente in cui si e esercitato
il central banking in Italia. Se l'importanza della Bundesbank in
Germania origina dalla forza con la quale il modello di capitalismo
tedesco si struttura e i impone, quella della Banca d'Italia deriva,
all'opposto, dalla debolezza di quello italiano. La banca mista ha
costituito un tassello fondamentale della strutturazione del capitalismo
tedesco, favorendo l'abbandono del carattere familiare a favore di
quello manageriale-finanziario. Nel caso italiano ciò non è
avvenuto: la crisi della banca mista ha creato un capitalismo pubblico,
non ha promosso una trasformazione di quelli familiari. La straordinaria
importanza dell'istituzione Banca centrale, l'ampia estensione dei
suoi poteri, il suo essere un pezzo di Stato liberale in uno Stato
che non lo è divenuto, derivano in fondo dalla mancata modernizzazione
del modello di capitalismo italiano. Di qui, la supplenza della Banca
d'Italia, espressione di carenza di governo dell'economia. Alla Banca
centrale si è demandato il compito di coprire, con il prestigio
nell'arena della finanza internazionale, la debolezza di fondo del
sistema. Ed è questo il non minore dei motivi del carattere
liberale e laico dell'istituzione. L'augurio è che la Banca
d'Italia diventi un caso meno interessante per gli studiosi e il nostro
Paese un caso molto interessante di progresso. Purché il capitalismo
privato italiano, aiutato dalla caduta di quello pubblico e dalla
soluzione della questione morale, si dimostri finalmente in grado
di svezzarsi e di camminare con le proprie gambe.
Nel nome dell'autonomia
Quando nacque
la Banca d'Italia, Vilfredo Pareto scriveva che il bilancio dello
Stato era stato "trasformato in una greppia per i più
intriganti e i meno scrupolosi". La legge che poneva fine alla
pluralità degli Istituti di emissione fu varata sotto la spinta
della crisi morale e finanziaria dell'Italia post-unitaria. L'ironia
della storia ha voluto che il primo centenario sia stato celebrato
in un momento in cui la questione morale si è posta in termini
più drammatici e inquietanti di allora. E proprio la gravità
di questa situazione ripropone i due temi essenziali dell'evoluzione
delle Banche centrali: l'identificazione dei loro compiti istituzionali
e la garanzia della loro autonomia rispetto agli altri organi e poteri
dello Stato.
Sul primo versante, la storia della Banca d'Italia, in particolare
quella a noi più vicina, ha messo in evidenza l'importanza
dell'obiettivo della stabilità non solo del valore della moneta,
ma anche dei sistema finanziario nel suo complesso. Nello stesso tempo,
ha dimostrato che il raggiungimento di questo obiettivo richiede strutture
finanziarie efficienti, in cui vengano minimizzati i comportamenti
non concorrenziali e tutte le forme di protezione, palesi e non, contrarie
alla logica della trasparenza e del mercato.
In altre parole, ha dimostrato che gli obiettivi di vigilanza in senso
lato della Banca centrale non sono meno importanti di quelli di politica
monetaria e sono comunque a questi ultimi strettamente intrecciati,
se non altro perché il successo della manovra monetaria presuppone
strutture bancarie efficienti, che trasmettano rapidamente gli impulsi
delle autorità. In effetti, la storia e la teoria economica
ci ricordano che l'azione delle Banche centrali rivolta alle singole
istituzioni precede nel tempo e in un certo senso presuppone quella
macroeconomica.
Proprio in questo stretto intreccio si trova la chiave di lettura
dell'altro grande tema, quello dell'autonomia, che non può
essere valutata solo con riferimento alla politica monetaria in senso
stretto e tanto meno letta solo nelle statistiche sulla base monetaria,
come taluno ritiene.
Se ad esempio gli anni '60 possono essere considerati come il periodo
di maggior accondiscendenza della Banca d'Italia nei confronti dell'Esecutivo,
secondo una consolidata interpretazione, il motivo fondamentale va
cercato non solo e non tanto nella conduzione della politica monetaria,
quanto nella rinuncia ad avviare una riforma del sistema finanziario,
che avrebbe portato ad accentuare gli impulsi concorrenziali, come
facevano gli altri Paesi europei, ad eliminare gli strumenti assistenziali,
primo fra tutti l'indiscriminato uso del credito agevolato, a creare
un mercato dei capitali all'altezza del livello di sviluppo che l'Italia
aveva raggiunto.
Per riconquistare la propria autonomia, la Banca d'Italia ha dovuto
pagare in seguito un prezzo altissimo. L'ignobile attacco culminato
nell'incriminazione di Baffi e Sarcinelli (1979) affonda le sue radici
nella fermezza con cui furono respinte soluzioni accomodanti per molti
casi scottanti di allora (a cominciare dal crack Sindona) e con cui
si cercò di intervenire su alcuni santuari della finanza assistita.
E' doveroso ricordarlo, nel momento in cui vengono sconfitti gli oscuri
intrecci che hanno portato all'episodio più misterioso della
storia della nostra Banca centrale.
Non è un caso che da quella vicenda abbia tratto nuovo impulso
la volontà della Banca di rinnovare la struttura finanziaria,
come realizzazione dei propri obiettivi istituzionali e come affermazione
della propria autonomia. Poiché quest'ultima comporta un rapporto
dialettico con il potere esecutivo e quello legislativo, i tempi del
processo sono stati condizionati dalle resistenze provenienti da questo
versante, oltre che dalla gravità della situazione economica
e finanziaria.
Basti pensare che passano sei anni dal momento in cui viene avviata
la riforma del mercato dei BoT al "divorzio" col Tesoro,
e altri quattro prima che la politica monetaria possa essere completamente
realizzata sul mercato aperto, abbandonando gli strumenti amministrativi,
che Baffi aveva definito "da stato d'assedio". E solo di
recente la Banca ha potuto riconquistare la piena autonomia nell'uso
di strumenti fondamentali come il tasso ufficiale di sconto e la riserva
obbligatoria.
Ancora più faticosa è stata la riforma dell'ordinamento
bancario conclusa con l'emanazione del Testo unico. La riforma degli
enti creditizi pubblici, con l'obiettivo di separare la banca in quanto
impresa dal potere politico, ha coperto praticamente tutti gli anni
180, e ha richiesto di far accettare quello che appariva come un fastidioso
intralcio al clima consociativo: il principio secondo cui la banca
è un'azienda che deve perseguire obiettivi propri del mercato
e non quelli genericamente sociali riferiti a disegni di politica
economica o di intervento pubblico, variamente intesi.
Se il rinnovamento delle strutture finanziarie ha trovato nuovo vigore
negli ultimi tempi, ciò è dovuto alle minori resistenze
provenienti da un mondo politico che ha risalito in disordine le valli
che aveva disceso coi! orgogliosa sicurezza, ma anche alla maggiore
autonomia della Banca d'Italia. Non è certo un caso che Ciampi,
che aveva condotto tutto il processo di riforma degli anni 180, sia
stato alla testa di un governo che poi avrebbe dovuto realizzare la
parte più delicata della transizione politica. Ma proprio perché
il processo di rinnovamento è stato così lungo e complesso,
non si può dire che la riforma sia stata completata. L'architettura
del sistema finanziario è stata carribiata radicalmente, ma
molti comportamenti aziendali sono ancora estranei ai principi dell'efficienza
e della concorrenza, che dovrebbero ispirare un sistema economico
che superi la logica perversa che ha portato alla crisi. Sarà
questo il terreno, non privo di insidie e di difficoltà, su
cui dovrà muoversi, sotto la guida di Antonio Fazio, la Banca
d'Italia entrata nel suo secondo secolo di vita.
Crediti &
prestiti
L'Italia col
cappello in mano
Le circostanze
nelle quali di tanto in tanto ci siamo trovati a richiedere una disponibilità
consistente di valuta sono state diverse da quelle che hanno caratterizzato
altre situazioni del passato, non sempre di acuta emergenza. Senza
risalire troppo indietro nel tempo, è ancora vivo nella memoria
di molti il precedente del prestito in valuta acceso dall'Italia nel
1974 con la garanzia di una quota rilevante delle nostre riserve auree
date in pegno. Quasi a testimoniare la continuità di una fase
storica allora soltanto agli inizi e attualmente predominante, anche
quel prestito era denominato in marchi (controparte, la Bundesbank).
Ma intorno alla metà degli Anni '70, al culmine degli shock
petroliferi, non furono infrequenti i crediti richiesti dall'Italia
al Fondo Monetario.
Cominciava a profilarsi uno squilibrio fondamentale della nostra bilancia
dei pagamenti con l'estero che i nostri ritardi negli aggiustamenti
strutturali dell'economia avrebbero reso particolarmente acuti e difficili.
Se da quel tempo ha avuto inizio luna serie di perturbazioni economiche
e finanziarie dalle quali sarebbe stato arduo e socialmente molto
costoso uscire -come si fu in grado di fare dopo la fine degli anni
'70 e gli inizi degli anni '80 - in periodi storici precedenti non
erano di certo mancate le necessità di ricorrere a prestiti
esteri e a capitali stranieri.
Nel secondo dopoguerra, quando l'economia italiana stava per affrontare
le esigenze vitali della ricostruzione, la ripresa fu resa possibile,
oltre che dagli aiuti americani, da decisivi prestiti per il finanziamento
delle importazioni di materie prime, di generi alimentari, di macchinari
e di fonti energetiche indispensabili. L'Italia, nel 1946-47, aveva
un bisogno assoluto di capitali esteri per essere in grado di riequilibrare
la bilancia dei pagamenti ed assicurare così una condizione
fondamentale di "riabilitazione monetaria", normalizzare
la situazione finanziaria, ma soprattutto avviare la ripresa delle
sue industrie. Assumeva enorme rilievo la possibilità di costituire
un fondo di stabilizzazione che consentisse al governo italiano di
notificare al Fondo Monetario Internazionale una parità monetaria
"iniziale" della lira, che non fosse in balia delle onde,
ma potesse essere poi difesa senza ricorso continuo alle risorse del
Fondo stesso.
Ma non sì trattava soltanto di prestiti commerciali. Si avvertiva
l'esigenza drammatica dei prestiti "politici": ovviamente
intesi non a sostegno di qualche parte politica, ma ispirati alla
convinzione che gli Stati Uniti medesimi - i veri creditori di ultima
istanza, nel dopoguerra e per molti anni ancora - avessero un fondamentale
interesse ad evitare il pericolo di una grave crisi sociale nel nostro
Paese. Del resto, già nella situazione pre-unitaria dell'Italia
i prestiti esteri ebbero un enorme rilievo nel finanziamento delle
spese per opere pubbliche (per quelle militari) che Cavour poté
affrontare rivolgendosi a banchieri come i Rothschild e gli Hambro,
che acquisirono addirittura il controllo di tutta la rete ferroviaria
del Regno di Sardegna.
Nei primi anni dello Stato unitario, il rapido aumento del debito
pubblico impose un largo ricorso al credito estero. Fra il 1861 e
il 1865, accanto ai capitali stranieri impiegati nelle costruzioni
ferroviarie ed in altre imprese di interesse pubblico, occupano il
primo posto gli acquisti di titoli del debito pubblico italiano, soprattutto
nelle Borse di Parigi e di Londra. Qualche anno dopo non sarebbe mancato
neppure il dubbio che i pagamenti effettuati all'estero, per il servizio
del debito, fossero ingrossati dalle cedole che dall'Italia si mandavano
per il pagamento a Parigi per beneficiare dell'aggio, vale a dire
di una cospicua differenza nei rendimenti.
Di volta in volta, in forme diverse, l'Italia ha in un certo senso
dovuto girare, per così dire, col cappello in mano: in fasi
di difficoltà, ma soprattutto in periodi di forte impegno di
costruzione o di ricostruzione, non soltanto economica, ma anche morale
e civile. La principale garanzia per i creditori è però
sempre stata la determinazione e la capacità del nostro Paese
di utilizzare risorse aggiuntive per porre rimedio ad errori del passato
e per ricostruire un futuro più solido. Sarà bene non
dimenticarselo.
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