§ Parlando di Enaudi

Il presidente del miracolo italiano




Egidio Sterpa



I1 30 ottobre 1961, all'età eli 87 anni, moriva Luigi Einaudi, presidente della Repubblica italiana dal '48 al '55. Nel referendum del 2 giugno 1946 aveva votato per la monarchia. E quest'ultimo particolare basta da solo a dare le dimensioni del personaggio, la stima e il prestigio di cui godeva.
Ma ci sono due episodi della vita del professor Einaudi che ne caratterizzano la personalità e lo spessore morale. Quando gli preannunciarono che sarebbe stato eletto presidente della Repubblica - siamo nel 1948 - disse a chi gli portava la notizia: ''Lor signori si rendono conto ch'io sono zoppo?". (S'era rotta Una gamba scendendo dal tram mentre si recava all'Università eli Torino, verso la fine degli anni '20). L'altro episodio l'ha raccontato Ennio Flaiano e fa parte ormai di una certa mitologia. Una sera invito a cena al Quirinale alcuni intellettuali, fra Cui Flaiano, appunto. Al momento della frutta, il presidente si rivolse ai commensali: "Io prenderei - disse - una pera, ma queste sono troppo grandi. C'è nessuno che ne vuole metà?".
Questo era Einaudi, espressione di un'Italia che forse non c'è più. Ricordarlo, oggi che la finanza e anche la morale pubblica sono in condizioni disastrose, può sembrare addirittura una provocazione. Fu l'uomo che creò completamente le basi finanziarie ed economiche che permisero al nostro Paese eli realizzare quello che all'estero fu definito il "miracolo italiano". Nel gennaio 1945 egli era rifugiato in Svizzera e il governo Bonomi gli invio un aereo militare perché venisse a Roma, ad assumere la carica di Governatore della Banca d'Italia.
Nel 1947, con De Gasperi, fu vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio, un dicastero creato apposta per lui. Fu membro della Costituente, in rappresentanza del Partito elettorale (eletto in Piemonte) e si deve a lui l'articolo 81 della nostra Carta Costituzionale, che vorrebbe che ogni legge fosse accompagnata dalla copertura di spesa. Dico "vorrebbe`, perché, com'è noto, da molti anni a questa parte l'articolo 81 non viene rispettato, con i ben noti risultati, purtroppo.
Da Governatore della Banca d'Italia e da ministro del Bilancio strinse i cordoni del credito, adeguò le tariffe pubbliche all'aumento dei costi, compresse il disavanzo statale, ridusse la liquidità a disposizione dei consumatori. Fece, insomma, una politica coraggiosamente e incredibilmente impopolare, ma portò il Paese alle soglie della modernità, gli conquistò credibilità e prestigio in Europa e oltre Atlantico. Quegli anni, che videro il binomio De Gasperi-Einaudi, sono quasi mitici, perché furono davvero una stagione felice e operosa della democrazia italiana.
Non c'è mai stato un uomo di tanta sferzante intransigenza verso ogni forma di demagogia, come lui. Liberale, liberista, antiprotezionista, antimonopolista, anticorporativista. Più impopolare di così non si potrebbe essere in un Paese come il nostro, dove persino non pochi liberali tengono a distinguersi dal liberismo, gli stessi imprenditori sono spesso protezionisti e non amano l'antimonopolismo, e il corporativismo èquasi un male congenito di tutte le categorie sociali.
Sono insuperabili (ma chi le ricorda più?) le sue battaglie contro i "trivellatori di Stato". "La scienza economica - scriveva nelle sue Prediche inutili - è subordinata alla legge morale". Sembra quasi una bestemmia, oggi. Queste cose le diceva senza retorica, così come senza pompa, senza prosopopea, con uno stile che qualcuno addirittura definì l'arido`, abitò il Quirinale. Aveva altissimo il senso dello Stato, ma lo celebrava con sobrietà e modestia. Lo aveva dentro, lo imponeva con la sua autorevolezza di studioso e con la lezione della sua morale.
Il suo liberalismo - così risulta limpidamente dalla lettura dei suoi scritti - è un inno all'individualismo, ma non all'egoismo e all'egocentrismo. Nelle sue lezioni c'è in realtà un invito morale al raggiungimento dell'elevazione individuale attraverso gli sforzi personali, la previdenza, la parsimonia. Scriveva: "Solo la via lunga, seminata di triboli, è la buona, perché solo percorrendola l'uomo impara a migliorare se stesso e a rendersi degno della meta a cui vuol giungere".
No, non c'era insensibilità sociale in questo liberalista (con Benedetto Croce, di cui fu amico, ebbe una polemica, che è "classica", proprio SU liberalismo e liberismo) che da giovane ebbe simpatie per il socialismo riformista, collaborò per quasi un decennio a Critica sociale, scrisse articoli fierissimi in difesa della libertà di associazione fra operai, affermò il diritto dei lavoratori "a vendere la loro merce al più alto prezzo possibile". Il fatto è che egli credeva lucidamente, razionalmente, nella libera iniziativa e nel libero mercato, fino, per esempio, ad accusare la borghesia d'essere "assente, pavida, vile" perché c'erano industriali e agricoltori che contraddittoriamente e incoerentemente chiedevano protezione allo Stato.
Il suo liberal-liberismo era una scelta matura, ragionata. Ha raccontato lui stesso d'avere imparato molto, durante i suoi viaggi bisettimanali in treno da Torino a Milano, quando insegnava alla Bocconi, "attaccando discorsi con negozianti, industriali, banchieri, uomini d'affari". Le sue lezioni dalla cattedra universitaria (insegno Scienza delle finanze a Torino e a Milano; sono famose le sue Lezioni di politica sociale in Svizzera, poi raccolte in volume) avevano il fascino della chiarezza, della semplicità, così come lucidi e chiari erano i suoi articoli sul "Corriere della Sera", esemplari per capacità di divulgazione del pensiero economico.
Nella polemica non fu mai però compiacente. Tutt'altro. Sapeva scherzare, e come. Polemizzò con Gobetti, che fu suo allievo, a cui rimproverava il liberalsocialismo, che gli appariva pieno di contraddizioni. Polemizzò con Giolitti, che non amava, perché lo vedeva come uomo del compromesso e di scarso rigore, rimproverandogli di favorire il trasformismo.
Fu europeista e occidentalista convinto. Già nel 1897 segnalò con uno scritto la sua vocazione europeista. Nel 1954, nello Scrittoio del Presidente, annotò: "La necessità di unificare l'Europa è evidente. Gli Stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma". Un concetto di enorme attualità nell'Europa odierna.


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