§ Scenari 2000

Ma la Svizzera non è d'accordo




Kurt Schiltknecht
Docente di Economia a Basilea



L'Europa è, secondo l'espressione di Baròn Crespo, Presidente del Parlamento Europeo, "facile da descrivere, ma difficile da costruire".Non può essere definita in termini di identità etnica, confessionale o addirittura strettamente culturale. In realtà, l'Europa è sia un'idea - di un dialogo e di una visione umanistica universale- sia una lotta contro le tendenze che all'interno dell'Europa stessa desiderano corrompere questa idea. Osservata dall'esterno l'Europa deve essere entrambe queste cose simultaneamente e ora questo è l'unico modo in cui può esercitare il suo potere d'attrazione.
Sami Nair

"La costruzione comune dell'Europa del futuro", l'abbandono "della dimensione di isola", i vantaggi "di un grande spazio economico": sono questi gli slogan su cui si basa la richiesta svizzera di adesione all'Europa. Per quanto belle, però, queste formule sono vuote. il dibattito sull'orientamento futuro della Svizzera non dovrebbe essere condotto con slogan idealistici basati sulla discutibile affermazione "grande è bello", o sulla tesi secondo cui l'armonizzazione legislativa coincide con un quadro normativo migliore. il punto di partenza per un dibattito circostanziato dev'essere la finalità generale dello Stato. Essenzialmente e in termini generali lo Stato riveste il compito di creare le condizioni che consentano ai cittadini di accrescere costantemente il proprio benessere nella garanzia della maggiore libertà individuale possibile.
Il presupposto per un'analisi dell'adesione allo Spazio Economico Europeo (See) e alla Cee è conoscere la dinamica dei processi economici e politici. Negli ultimi anni, in concomitanza con la rapida crescita della spesa pubblica, si sono moltiplicati gli studi sulle interazioni tra politica ed economia. Anche i motivi che determinano il successo o l'insuccesso economico di un Paese sono oggetto di sempre maggiori approfondimenti. Le conoscenze ottenute dallo studio di questi processi debbono essere tenute presenti nel dibattito su See-Cee.
In tutte le democrazie, in particolare in quelle parlamentari, gruppi o politici tendono, tramite la formazione di coalizioni, a determinare un contesto normativo a loro favorevole, e sfavorevole invece all'economia nazionale. La lista delle leggi e dei decreti così emanati è lunga in tutti i Paesi ed è molto difficile eliminare queste norme che ostacolano la crescita. La migliore protezione contro i regolamenti anti-economici si è rivelata essere la concorrenza tra i vari Paesi e le regioni in materia di promulgazione di normative economiche. Ovvero, quando un Paese ostacola lo sviluppo e la creazione di ricchezza tramite oneri eccessivi e limitazioni, proprio le imprese e i privati di maggiore successo si trasferiscono nei Paesi con un ambiente economico più favorevole.
L'arresto prolungato della crescita dovuto alla fuga di queste risorse innesca una immediata riflessione sulla formulazione ottimale della legislazione economica e i regolamenti vengono adeguati alle migliori norme internazionali. La Svizzera e l'Inghilterra, ad esempio, che per anni si sono distinte per il livello estremamente elevato della pressione fiscale, hanno dovuto modificare la normativa tributaria proprio a causa dell'esodo provocato dall'ambiente fiscale sfavorevole. Allo stesso modo, i Paesi con tassi di inflazione particolarmente alti hanno dovuto adeguarsi ai Paesi orientati a una politica di stabilità.
A fronte di queste considerazioni, il professor Roland Vaubel sostiene a giusto titolo che la Cee invece di puntare a una strategia di armonizzazione dovrebbe mirare alla concorrenza dei sistemi.
Un breve esame dello sviluppo della Cee e della struttura del trattato See evidenzia che la Comunità europea non punta alla concorrenza, ma ad armonizzare l'Europa. Così facendo, però, elimina il presupposto fondamentale per il progresso economico e la libertà individuale. Le politiche comunitarie nel campo sociale, industriale, fiscale, del mercato del lavoro e dell'istruzione, dimostrano che l'Europa si sta muovendo nella direzione sbagliata. Le conseguenze di questo sviluppo saranno il crescente attivismo statale, la pressione fiscale elevata, le tendenze protezionistiche e quindi, nel complesso, una minore crescita economica.
La relazione del Consiglio federale elvetico sull'adesione alla Cee sostiene principalmente le tesi secondo cui l'adesione porterebbe a una maggiore crescita dell'economia Svizzera. Le motivazioni addotte sono il libero accesso ai mercati europei, la liberalizzazione del mercato del lavoro e l'armonizzazione normativa. Ma non accenna ai problemi che l'adesione comporterebbe per il fatto che esiste un netto scarto tra i prezzi relativi in Svizzera e negli altri Paesi europei. Negli ultimi vent'anni si è spesso osservato che forti variazioni dei prezzi relativi comportano notevoli costi economici in termini di significativi rallentamenti della crescita. Accanto alle recessioni del 1975, del 1982 e del 1991, ricordiamo le conseguenze dei due shock petroliferi. Gli effetti prodotti sui prezzi dall'esplosione dei prezzi del petrolio hanno causato una depressione mondiale e un prolungato arresto della crescita.
Lo shock che l'adesione alla Cee produrrebbe prevedibilmente sull'economia svizzera sarebbe maggiore rispetto allo shock petrolifero e di più lunga durata. La causa principale di questo prevedibile shock è da individuarsi nell'attuale differenza tra i tassi reali d'interesse a lungo termine in Svizzera e negli altri Paesi. Da molti anni ormai i tassi reali in Svizzera sono dell'1,5-2% al di sotto dei principali Paesi europei. Questa differenza è tra l'altro l'espressione della stabilità politica e monetaria, dell'elevata propensione al risparmio e del buono stato della finanza pubblica in Svizzera. In caso di adesione alla Cee, questi fattori non avrebbero più rilevanza e il livello attuale dei tassi, vantaggioso per l'economia elvetica, andrebbe inesorabilmente perduto.
Un aumento dei tassi reali di interesse dell'1,5-2% non porterebbe soltanto a una depressione della congiuntura economica, ma anche a profondi cambiamenti strutturali nell'economia svizzera. L'aumento prolungato del costo del denaro ha come conseguenza la rivalutazione dei beni capitali e degli attivi finanziari.
La situazione potrebbe diventare critica sul mercato immobiliare, sul quale si osserva già oggi un notevole calo dei prezzi; un ulteriore aumento dei tassi di interesse inasprirebbe la crisi immobiliare. Per quanto il settore immobiliare sia il più colpito, non si possono trascurare gli altri effetti che sarebbero causati da tassi reali di interesse più elevati.
L'aumento permanente dei tassi di interesse significa che il capitale diventa molto più costoso rispetto alla forza-lavoro e quindi che si tende a produrre a minore intensità di capitale. Questa modifica strutturale viene ulteriormente favorita dal fatto che l'adesione alla See o alla Cee consente una maggiore disponibilità di manodopera straniera a basso costo. Bisogna altrettanto considerare però che la perdita di condizioni finanziarie favorevoli in Svizzera rende più attraente li, trasferimento delle attività produttive all'estero. In termini generali si può concludere che questi sviluppi indebolirebbero in modo duraturo l'economia elvetica, frenerebbero la crescita della produttività e quindi ridurrebbero il margine di manovra per gli aumenti dei salari reali. Si imporrebbe così un allineamento del livello salariale a quello dei Paesi vicini.
Sulla base delle precedenti considerazioni, si può affermare in linea di massima che l'economia svizzera sarebbe impoverita da un aumento dei tassi reali di interesse provocato
dall'adesione alla Cee. Rinunciando alla propria valuta, la Svizzera sacrificherebbe i vantaggi derivati dalla sua stabilità, e allo stesso tempo dovrebbe farsi carico della cattiva politica economica praticata in passato, e in parte ancora attualmente, dagli altri Paesi europei.
L'economia di ogni Paese deve sempre tener conto di eventuali shock esogeni, e quelli petroliferi ne sono stati una dimostrazione. Finché rimane indipendente, la Svizzera può attenuare gli effetti deflazionistici causati da questi shock con adeguate misure di politica economica (politica monetaria) e quindi riequilibrare l'economia. Questa possibilità verrebbe a mancare se la Svizzera entrasse nella Cee. Se in seguito all'adesione la Svizzera entrasse in una recessione, non sarebbe più possibile uscire dalla crisi tramite una politica monetaria più espansiva. Soltanto la diminuzione dei salari e dei prezzi potrebbe portare l'economia svizzera a convergere entro i livelli europei. In considerazione della rigidità dei prezzi bisogna prendere in conto il fatto che si instaurerebbe un lungo processo di adeguamento caratterizzato da un'elevata disoccupazione.
Due motivi hanno spinto i politici della Cee a creare una moneta unica per la Comunità: da un lato la moneta unica deve aumentare le spinte verso l'integrazione, dall'altro si ritiene che una zona di libero scambio richieda una moneta comune. La fretta con cui si vuole modificare la struttura monetaria europea evidenzia il prevalere delle considerazioni politiche su quelle economiche. Le riserve riguardo gli enormi costi che una moneta unica comporta per i singoli Stati vengono messe da parte. La speranza che con una moneta comune i cittadini dei singoli Paesi si sentano più europei e quindi guardino all'Unione politica con occhi meno critici è una delle forze trainanti per la realizzazione dell'Unione monetaria. Il passo successivo è facilmente prevedibile. La politica fiscale e monetaria a lungo andare non possono essere considerate in modo isolato: cioè, prima o poi verrà rivendicata la necessità di una politica fiscale centralizzata. In questo modo i singoli Paesi verranno privati del loro più importante strumento di politica economica e il potere economico si concentrerà a Bruxelles.
Per spiegare i vantaggi di una moneta comune vengono addotte argomentazioni che possono convincere i profani, ma non certo gli esperti di politica monetaria. L'enfasi viene posta innanzitutto sull'esclusione dei rischi di cambio e l'eliminazione dei costi delle transazioni nei pagamenti internazionali. A questi vantaggi a prima vista lampanti si contrappongono dei concreti svantaggi economici per i singoli Paesi. La perdita dell'indipendenza nazionale in materia di politica economica e quindi della flessibilità dei tassi di interesse e di cambio ha gravi conseguenze economiche ed è destinata a peggiorare le fluttuazioni congiunturali negli Stati membri della Comunità.
Non è dimostrabile la tesi secondo cui le fluttuazioni dei cambi rappresentano un ostacolo al commercio internazionale. Il commercio mondiale è cresciuto notevolmente da quando si è passati a tassi di cambio flessibili, nonostante la forte volatilità delle divise. Questo fatto non deve sorprendere, in quanto i mercati finanziari hanno messo a punto tutta una serie di strumenti grazie ai quali l'economia può tutelarsi dai rischi di cambio.
Al contrario, un'economia nazionale che abbia ceduto la propria autonomia in politica monetaria non dispone più degli strumenti atti a proteggerla dalle fluttuazioni congiunturali della domanda. Finché un Paese può perseguire una politica monetaria indipendente, è possibile reagire alle fluttuazioni della domanda adeguando i tassi di cambio e di interesse. In presenza di una moneta unica, questa possibilità per i singoli Stati non esiste più. Ciò significa che un calo della domanda in un singolo Paese comporta automaticamente un calo della produzione e dell'occupazione, a meno che non vi sia una contemporanea caduta del livello dei prezzi e del salari, fenomeno che in un Paese industrializzato può praticamente essere escluso.
Il noto economista americano Robert Mundell già trent'anni fa aveva enunciato i requisiti per uno spazio monetario comune ottimale. Secondo la sua tesi, una moneta unica per Paesi diversi ha senso solo se le singole economie hanno una struttura simile, una elevata mobilità della forza-lavoro oltre frontiera, oppure se i singoli Paesi sono colpiti da simili distorsioni della domanda.
Se consideriamo la situazione della Cee dobbiamo concludere che nella Comunità questi presupposti per una moneta comune non esistono. La struttura economica dei vari Paesi è molto diversa. Nemmeno sussiste la condizione della mobilità: finché esistono lingue e culture diverse, la mobilità èdestinata a rimanere sostanzialmente circoscritta.
La liberalizzazione del mercato del lavoro dovrebbe aumentare la mobilità nella Cee. Da questo sviluppo la Cee si aspetta una equa distribuzione del benessere in tutta l'Europa. La liberalizzazione può certo produrre una perequazione, ma non già l'aumento del benessere generale. I lavoratori dei Paesi poveri emigreranno nei Paesi ricchi. In ultima analisi, nessuna economia si avvantaggia da tale migrazione. Il ricorso a manodopera straniera, operosa e a buon mercato, consente di mantenere bassi i salari nei Paesi ricchi e diminuisce l'incentivo a produrre ad elevata intensità di capitale. La chiave di volta della politica della Cee non dovrebbe essere l'assimilazione, ma la promozione dei Paesi membri poveri. La storia insegna da sempre che una equa distribuzione del benessere non si ottiene con l'armonizzazione e l'uniformazione. Questo approccio ha sempre causato radicali misure di riconversione e indebolito i settori economici forti.
I problemi strutturali e le enormi sovvenzioni che caratterizzano l'integrazione dell'ex Repubblica democratica tedesca nella Repubblica Federale illustrano chiaramente le difficoltà che insorgono quando i Paesi con strutture economiche diverse vengono riuniti in uno spazio economico comune. I costi per riequilibrare i diversi settori dell'economia gravano soprattutto nei comparti più efficienti e quindi indeboliscono economicamente la Germania riunificata. Non è necessario esser profeti per prevedere fin da oggi che col tempo sempre più tasse confluiranno a Bruxelles, sfuggendo al controllo dei cittadini. Questa tendenza è inevitabile alla luce dell'esperienza di Stati con forte organizzazione federalista. Anche in Svizzera l'idea iniziale di versare allo Stato federale soltanto le entrate provenienti dai dazi sulle importazioni èstata abbandonata; contemporaneamente, allo Stato federale sono state man mano trasferite sempre più competenze.
La tendenza a trasferire i compiti difficili al livello superiore è un fenomeno diffuso in tutto il mondo. Alla base del desiderio mdi entrare nella Cee, in realtà, per molti Paesi c'è la necessità di risolvere le difficoltà a livello nazionale e i problemi economici. Il fatto che queste aspettative si realizzino è tutto da dimostrare. L'allusione al fatto che grazie allo Sme è stato possibile ridurre l'inflazione nella maggioranza dei Paesi a un livello accettabile non consente di trarre conclusioni sulla capacità della Cee di risolvere i problemi economici nazionali.
Da tempo lo Sme è dominato dalla Bundesbank tedesca, che non considera minimamente le esigenze degli altri Paesi. La creazione di un Banca centrale europea e una politica monetaria comune ridurranno drasticamente l'influenza della Bundesbank. Rimane aperto l'interrogativo se l'effetto anti-inflazionistico dello Sme sarà mantenuto dalla politica monetaria comunitaria. In ogni caso, si può concludere già oggi che la moneta comune della Cee non avrà la qualità del marco tedesco, né tanto meno del franco svizzero.
Dal punto di vista politico-economico, la rinuncia ad aderire allo Spazio economico europeo o alla Cee avrebbe molti vantaggi. La rinuncia al franco e la forte apertura del mercato del lavoro, in particolare, avrebbero significative e prolungate conseguenze in termini di perdita di ricchezza e di reddito per l'economia svizzera. Gli enormi svantaggi politici e monetari devono essere soppesati rispetto ai vantaggi dell'adesione.
Sono sicuramente positive le misure (abolizione dei dazi e degli ostacoli non tariffari) e gli accordi che favoriscono il libero commercio. I guadagni in termini di benessere dovuti a queste misure non sarebbero sufficienti a compensare gli svantaggi. La "liberalizzazione" fondamentale consiste nel fatto che entrando nella See o nella Cee la Svizzera si aprirebbe senza riserva alla normativa e ai regolamenti comunitari. Dal trattato See, lungo diverse migliaia di pagine, non si evince l'impressione che con l'adesione i mercati verranno liberalizzati. Non sottolineeremo mai abbastanza che l'adesione non porta alla liberalizzazione dei mercati, ma all'armonizzazione di leggi e regolamenti.
Dal punto di vista commerciale non vi è motivo di ritenere che la Svizzera, restandone fuori, potrebbe essere esposta a pressioni da parte della Cee. Se - come qualcuno teme - si parte dall'ipotesi secondo cui la Cee potrebbe mettere in atto delle misure di rappresaglia contro la Svizzera, o se dovessero prevalere nella Cee delle tendenze protezionistiche, allora la Svizzera avrebbe più che ragione di tenersi a distanza. Con la sua economia molto aperta e con i suoi rapporti commerciali internazionali, la Svizzera sarebbe più colpita da queste evoluzioni rispetto ad altri Paesi europei. Del resto, i trattati Gatt offrono un'ottima protezione contro rappresaglie di ogni genere
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