L'Europa
è, secondo l'espressione di Baròn Crespo, Presidente del
Parlamento Europeo, "facile da descrivere, ma difficile da costruire".Non
può essere definita in termini di identità etnica, confessionale
o addirittura strettamente culturale. In realtà, l'Europa è
sia un'idea - di un dialogo e di una visione umanistica universale-
sia una lotta contro le tendenze che all'interno dell'Europa stessa
desiderano corrompere questa idea. Osservata dall'esterno l'Europa deve
essere entrambe queste cose simultaneamente e ora questo è l'unico
modo in cui può esercitare il suo potere d'attrazione.
Sami Nair
"La costruzione
comune dell'Europa del futuro", l'abbandono "della dimensione
di isola", i vantaggi "di un grande spazio economico":
sono questi gli slogan su cui si basa la richiesta svizzera di adesione
all'Europa. Per quanto belle, però, queste formule sono vuote.
il dibattito sull'orientamento futuro della Svizzera non dovrebbe
essere condotto con slogan idealistici basati sulla discutibile affermazione
"grande è bello", o sulla tesi secondo cui l'armonizzazione
legislativa coincide con un quadro normativo migliore. il punto di
partenza per un dibattito circostanziato dev'essere la finalità
generale dello Stato. Essenzialmente e in termini generali lo Stato
riveste il compito di creare le condizioni che consentano ai cittadini
di accrescere costantemente il proprio benessere nella garanzia della
maggiore libertà individuale possibile.
Il presupposto per un'analisi dell'adesione allo Spazio Economico
Europeo (See) e alla Cee è conoscere la dinamica dei processi
economici e politici. Negli ultimi anni, in concomitanza con la rapida
crescita della spesa pubblica, si sono moltiplicati gli studi sulle
interazioni tra politica ed economia. Anche i motivi che determinano
il successo o l'insuccesso economico di un Paese sono oggetto di sempre
maggiori approfondimenti. Le conoscenze ottenute dallo studio di questi
processi debbono essere tenute presenti nel dibattito su See-Cee.
In tutte le democrazie, in particolare in quelle parlamentari, gruppi
o politici tendono, tramite la formazione di coalizioni, a determinare
un contesto normativo a loro favorevole, e sfavorevole invece all'economia
nazionale. La lista delle leggi e dei decreti così emanati
è lunga in tutti i Paesi ed è molto difficile eliminare
queste norme che ostacolano la crescita. La migliore protezione contro
i regolamenti anti-economici si è rivelata essere la concorrenza
tra i vari Paesi e le regioni in materia di promulgazione di normative
economiche. Ovvero, quando un Paese ostacola lo sviluppo e la creazione
di ricchezza tramite oneri eccessivi e limitazioni, proprio le imprese
e i privati di maggiore successo si trasferiscono nei Paesi con un
ambiente economico più favorevole.
L'arresto prolungato della crescita dovuto alla fuga di queste risorse
innesca una immediata riflessione sulla formulazione ottimale della
legislazione economica e i regolamenti vengono adeguati alle migliori
norme internazionali. La Svizzera e l'Inghilterra, ad esempio, che
per anni si sono distinte per il livello estremamente elevato della
pressione fiscale, hanno dovuto modificare la normativa tributaria
proprio a causa dell'esodo provocato dall'ambiente fiscale sfavorevole.
Allo stesso modo, i Paesi con tassi di inflazione particolarmente
alti hanno dovuto adeguarsi ai Paesi orientati a una politica di stabilità.
A fronte di queste considerazioni, il professor Roland Vaubel sostiene
a giusto titolo che la Cee invece di puntare a una strategia di armonizzazione
dovrebbe mirare alla concorrenza dei sistemi.
Un breve esame dello sviluppo della Cee e della struttura del trattato
See evidenzia che la Comunità europea non punta alla concorrenza,
ma ad armonizzare l'Europa. Così facendo, però, elimina
il presupposto fondamentale per il progresso economico e la libertà
individuale. Le politiche comunitarie nel campo sociale, industriale,
fiscale, del mercato del lavoro e dell'istruzione, dimostrano che
l'Europa si sta muovendo nella direzione sbagliata. Le conseguenze
di questo sviluppo saranno il crescente attivismo statale, la pressione
fiscale elevata, le tendenze protezionistiche e quindi, nel complesso,
una minore crescita economica.
La relazione del Consiglio federale elvetico sull'adesione alla Cee
sostiene principalmente le tesi secondo cui l'adesione porterebbe
a una maggiore crescita dell'economia Svizzera. Le motivazioni addotte
sono il libero accesso ai mercati europei, la liberalizzazione del
mercato del lavoro e l'armonizzazione normativa. Ma non accenna ai
problemi che l'adesione comporterebbe per il fatto che esiste un netto
scarto tra i prezzi relativi in Svizzera e negli altri Paesi europei.
Negli ultimi vent'anni si è spesso osservato che forti variazioni
dei prezzi relativi comportano notevoli costi economici in termini
di significativi rallentamenti della crescita. Accanto alle recessioni
del 1975, del 1982 e del 1991, ricordiamo le conseguenze dei due shock
petroliferi. Gli effetti prodotti sui prezzi dall'esplosione dei prezzi
del petrolio hanno causato una depressione mondiale e un prolungato
arresto della crescita.
Lo shock che l'adesione alla Cee produrrebbe prevedibilmente sull'economia
svizzera sarebbe maggiore rispetto allo shock petrolifero e di più
lunga durata. La causa principale di questo prevedibile shock è
da individuarsi nell'attuale differenza tra i tassi reali d'interesse
a lungo termine in Svizzera e negli altri Paesi. Da molti anni ormai
i tassi reali in Svizzera sono dell'1,5-2% al di sotto dei principali
Paesi europei. Questa differenza è tra l'altro l'espressione
della stabilità politica e monetaria, dell'elevata propensione
al risparmio e del buono stato della finanza pubblica in Svizzera.
In caso di adesione alla Cee, questi fattori non avrebbero più
rilevanza e il livello attuale dei tassi, vantaggioso per l'economia
elvetica, andrebbe inesorabilmente perduto.
Un aumento dei tassi reali di interesse dell'1,5-2% non porterebbe
soltanto a una depressione della congiuntura economica, ma anche a
profondi cambiamenti strutturali nell'economia svizzera. L'aumento
prolungato del costo del denaro ha come conseguenza la rivalutazione
dei beni capitali e degli attivi finanziari.
La situazione potrebbe diventare critica sul mercato immobiliare,
sul quale si osserva già oggi un notevole calo dei prezzi;
un ulteriore aumento dei tassi di interesse inasprirebbe la crisi
immobiliare. Per quanto il settore immobiliare sia il più colpito,
non si possono trascurare gli altri effetti che sarebbero causati
da tassi reali di interesse più elevati.
L'aumento permanente dei tassi di interesse significa che il capitale
diventa molto più costoso rispetto alla forza-lavoro e quindi
che si tende a produrre a minore intensità di capitale. Questa
modifica strutturale viene ulteriormente favorita dal fatto che l'adesione
alla See o alla Cee consente una maggiore disponibilità di
manodopera straniera a basso costo. Bisogna altrettanto considerare
però che la perdita di condizioni finanziarie favorevoli in
Svizzera rende più attraente li, trasferimento delle attività
produttive all'estero. In termini generali si può concludere
che questi sviluppi indebolirebbero in modo duraturo l'economia elvetica,
frenerebbero la crescita della produttività e quindi ridurrebbero
il margine di manovra per gli aumenti dei salari reali. Si imporrebbe
così un allineamento del livello salariale a quello dei Paesi
vicini.
Sulla base delle precedenti considerazioni, si può affermare
in linea di massima che l'economia svizzera sarebbe impoverita da
un aumento dei tassi reali di interesse provocato
dall'adesione alla Cee. Rinunciando alla propria valuta, la Svizzera
sacrificherebbe i vantaggi derivati dalla sua stabilità, e
allo stesso tempo dovrebbe farsi carico della cattiva politica economica
praticata in passato, e in parte ancora attualmente, dagli altri Paesi
europei.
L'economia di ogni Paese deve sempre tener conto di eventuali shock
esogeni, e quelli petroliferi ne sono stati una dimostrazione. Finché
rimane indipendente, la Svizzera può attenuare gli effetti
deflazionistici causati da questi shock con adeguate misure di politica
economica (politica monetaria) e quindi riequilibrare l'economia.
Questa possibilità verrebbe a mancare se la Svizzera entrasse
nella Cee. Se in seguito all'adesione la Svizzera entrasse in una
recessione, non sarebbe più possibile uscire dalla crisi tramite
una politica monetaria più espansiva. Soltanto la diminuzione
dei salari e dei prezzi potrebbe portare l'economia svizzera a convergere
entro i livelli europei. In considerazione della rigidità dei
prezzi bisogna prendere in conto il fatto che si instaurerebbe un
lungo processo di adeguamento caratterizzato da un'elevata disoccupazione.
Due motivi hanno spinto i politici della Cee a creare una moneta unica
per la Comunità: da un lato la moneta unica deve aumentare
le spinte verso l'integrazione, dall'altro si ritiene che una zona
di libero scambio richieda una moneta comune. La fretta con cui si
vuole modificare la struttura monetaria europea evidenzia il prevalere
delle considerazioni politiche su quelle economiche. Le riserve riguardo
gli enormi costi che una moneta unica comporta per i singoli Stati
vengono messe da parte. La speranza che con una moneta comune i cittadini
dei singoli Paesi si sentano più europei e quindi guardino
all'Unione politica con occhi meno critici è una delle forze
trainanti per la realizzazione dell'Unione monetaria. Il passo successivo
è facilmente prevedibile. La politica fiscale e monetaria a
lungo andare non possono essere considerate in modo isolato: cioè,
prima o poi verrà rivendicata la necessità di una politica
fiscale centralizzata. In questo modo i singoli Paesi verranno privati
del loro più importante strumento di politica economica e il
potere economico si concentrerà a Bruxelles.
Per spiegare i vantaggi di una moneta comune vengono addotte argomentazioni
che possono convincere i profani, ma non certo gli esperti di politica
monetaria. L'enfasi viene posta innanzitutto sull'esclusione dei rischi
di cambio e l'eliminazione dei costi delle transazioni nei pagamenti
internazionali. A questi vantaggi a prima vista lampanti si contrappongono
dei concreti svantaggi economici per i singoli Paesi. La perdita dell'indipendenza
nazionale in materia di politica economica e quindi della flessibilità
dei tassi di interesse e di cambio ha gravi conseguenze economiche
ed è destinata a peggiorare le fluttuazioni congiunturali negli
Stati membri della Comunità.
Non è dimostrabile la tesi secondo cui le fluttuazioni dei
cambi rappresentano un ostacolo al commercio internazionale. Il commercio
mondiale è cresciuto notevolmente da quando si è passati
a tassi di cambio flessibili, nonostante la forte volatilità
delle divise. Questo fatto non deve sorprendere, in quanto i mercati
finanziari hanno messo a punto tutta una serie di strumenti grazie
ai quali l'economia può tutelarsi dai rischi di cambio.
Al contrario, un'economia nazionale che abbia ceduto la propria autonomia
in politica monetaria non dispone più degli strumenti atti
a proteggerla dalle fluttuazioni congiunturali della domanda. Finché
un Paese può perseguire una politica monetaria indipendente,
è possibile reagire alle fluttuazioni della domanda adeguando
i tassi di cambio e di interesse. In presenza di una moneta unica,
questa possibilità per i singoli Stati non esiste più.
Ciò significa che un calo della domanda in un singolo Paese
comporta automaticamente un calo della produzione e dell'occupazione,
a meno che non vi sia una contemporanea caduta del livello dei prezzi
e del salari, fenomeno che in un Paese industrializzato può
praticamente essere escluso.
Il noto economista americano Robert Mundell già trent'anni
fa aveva enunciato i requisiti per uno spazio monetario comune ottimale.
Secondo la sua tesi, una moneta unica per Paesi diversi ha senso solo
se le singole economie hanno una struttura simile, una elevata mobilità
della forza-lavoro oltre frontiera, oppure se i singoli Paesi sono
colpiti da simili distorsioni della domanda.
Se consideriamo la situazione della Cee dobbiamo concludere che nella
Comunità questi presupposti per una moneta comune non esistono.
La struttura economica dei vari Paesi è molto diversa. Nemmeno
sussiste la condizione della mobilità: finché esistono
lingue e culture diverse, la mobilità èdestinata a rimanere
sostanzialmente circoscritta.
La liberalizzazione del mercato del lavoro dovrebbe aumentare la mobilità
nella Cee. Da questo sviluppo la Cee si aspetta una equa distribuzione
del benessere in tutta l'Europa. La liberalizzazione può certo
produrre una perequazione, ma non già l'aumento del benessere
generale. I lavoratori dei Paesi poveri emigreranno nei Paesi ricchi.
In ultima analisi, nessuna economia si avvantaggia da tale migrazione.
Il ricorso a manodopera straniera, operosa e a buon mercato, consente
di mantenere bassi i salari nei Paesi ricchi e diminuisce l'incentivo
a produrre ad elevata intensità di capitale. La chiave di volta
della politica della Cee non dovrebbe essere l'assimilazione, ma la
promozione dei Paesi membri poveri. La storia insegna da sempre che
una equa distribuzione del benessere non si ottiene con l'armonizzazione
e l'uniformazione. Questo approccio ha sempre causato radicali misure
di riconversione e indebolito i settori economici forti.
I problemi strutturali e le enormi sovvenzioni che caratterizzano
l'integrazione dell'ex Repubblica democratica tedesca nella Repubblica
Federale illustrano chiaramente le difficoltà che insorgono
quando i Paesi con strutture economiche diverse vengono riuniti in
uno spazio economico comune. I costi per riequilibrare i diversi settori
dell'economia gravano soprattutto nei comparti più efficienti
e quindi indeboliscono economicamente la Germania riunificata. Non
è necessario esser profeti per prevedere fin da oggi che col
tempo sempre più tasse confluiranno a Bruxelles, sfuggendo
al controllo dei cittadini. Questa tendenza è inevitabile alla
luce dell'esperienza di Stati con forte organizzazione federalista.
Anche in Svizzera l'idea iniziale di versare allo Stato federale soltanto
le entrate provenienti dai dazi sulle importazioni èstata abbandonata;
contemporaneamente, allo Stato federale sono state man mano trasferite
sempre più competenze.
La tendenza a trasferire i compiti difficili al livello superiore
è un fenomeno diffuso in tutto il mondo. Alla base del desiderio
mdi entrare nella Cee, in realtà, per molti Paesi c'è
la necessità di risolvere le difficoltà a livello nazionale
e i problemi economici. Il fatto che queste aspettative si realizzino
è tutto da dimostrare. L'allusione al fatto che grazie allo
Sme è stato possibile ridurre l'inflazione nella maggioranza
dei Paesi a un livello accettabile non consente di trarre conclusioni
sulla capacità della Cee di risolvere i problemi economici
nazionali.
Da tempo lo Sme è dominato dalla Bundesbank tedesca, che non
considera minimamente le esigenze degli altri Paesi. La creazione
di un Banca centrale europea e una politica monetaria comune ridurranno
drasticamente l'influenza della Bundesbank. Rimane aperto l'interrogativo
se l'effetto anti-inflazionistico dello Sme sarà mantenuto
dalla politica monetaria comunitaria. In ogni caso, si può
concludere già oggi che la moneta comune della Cee non avrà
la qualità del marco tedesco, né tanto meno del franco
svizzero.
Dal punto di vista politico-economico, la rinuncia ad aderire allo
Spazio economico europeo o alla Cee avrebbe molti vantaggi. La rinuncia
al franco e la forte apertura del mercato del lavoro, in particolare,
avrebbero significative e prolungate conseguenze in termini di perdita
di ricchezza e di reddito per l'economia svizzera. Gli enormi svantaggi
politici e monetari devono essere soppesati rispetto ai vantaggi dell'adesione.
Sono sicuramente positive le misure (abolizione dei dazi e degli ostacoli
non tariffari) e gli accordi che favoriscono il libero commercio.
I guadagni in termini di benessere dovuti a queste misure non sarebbero
sufficienti a compensare gli svantaggi. La "liberalizzazione"
fondamentale consiste nel fatto che entrando nella See o nella Cee
la Svizzera si aprirebbe senza riserva alla normativa e ai regolamenti
comunitari. Dal trattato See, lungo diverse migliaia di pagine, non
si evince l'impressione che con l'adesione i mercati verranno liberalizzati.
Non sottolineeremo mai abbastanza che l'adesione non porta alla liberalizzazione
dei mercati, ma all'armonizzazione di leggi e regolamenti.
Dal punto di vista commerciale non vi è motivo di ritenere
che la Svizzera, restandone fuori, potrebbe essere esposta a pressioni
da parte della Cee. Se - come qualcuno teme - si parte dall'ipotesi
secondo cui la Cee potrebbe mettere in atto delle misure di rappresaglia
contro la Svizzera, o se dovessero prevalere nella Cee delle tendenze
protezionistiche, allora la Svizzera avrebbe più che ragione
di tenersi a distanza. Con la sua economia molto aperta e con i suoi
rapporti commerciali internazionali, la Svizzera sarebbe più
colpita da queste evoluzioni rispetto ad altri Paesi europei. Del
resto, i trattati Gatt offrono un'ottima protezione contro rappresaglie
di ogni genere.
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