Futuro?
Credo sia una parola in declino. E' dal secolo XIX che viviamo nel miraggio
del futuro. La caduta dei regimi comunisti e il grande fallimento dell'ottimismo
americano del Nord sono state le ultime vampate di futuro. Uno dei fenomeni
nuovi è che il futuro ha perso gran parte delle sue attrattive,
l'uomo si preoccupa sempre più dell'oggi, dell'adesso. Ci sono
state società nelle quali il valore essenziale era depositato
nel passato, il mondo era l'imitazione del passato. Improvvisamente
si è deciso che era meglio colonizzare il futuro, il luogo del
paradiso. Ebbene, questo non lo crediamo più. Quel che vogliamo
ora è l'oggi, e vogliamo viverlo il più lucidamente possibile.
Octavio Paz
Molta gente è
perplessa su quello che accadrà in Russia, su come si potranno
risolvere i problemi che incombono in questo periodo. Il pessimismo
sta montando, sta crescendo. Questo è comprensibile, visto
lo stato economico in cui versa il nostro Paese.
Io non voglio assolutamente sminuire la situazione, ma neanche drammatizzarla.
E sono sicuro che da qui a qualche anno, quando si parlerà
del difficile cammino della perestrojka, la gente dirà: "Proprio
verso la fine del 1989 si viveva d'incertezza guardando al futuro".
Permettetemi di cominciare a confrontare ciò che sta accadendo
nella nostra economia con quello che successe durante la Grande Depressione
americana.
Nel 1929, nonostante uno Stato potente e fiducioso, l'economia americana
fece un tonfo. C'erano file per il pane in Time Square a New York
e frotte di disoccupati in cerca di lavoro invadevano la Riverside
Drive. Le truppe di Washington combattevano contro il Bonus Army,
che aveva invaso la capitale.
E la gente protestava, compatta, moriva durante i disordini. Il 7
ottobre 1931, la rivista Business Week scriveva che centomila americani
volevano emigrare in Sovietica, in cerca di lavoro. Si sa bene che
in questi anni sono state ampie aspettative nella sinistra che prevedevano
una rivoluzione mondiale, causata dalla drammatica crisi del mondo
mi lista. E molto tempo dopo si anche creduto che soltanto Seconda
guerra mondiale avrebbe aiutato il sistema ad esistere e a sopravvivere.
Oggi parliamo degli Stati Uniti con rispetto. Quando ero giovane,
lo slogan, forse il più popolare, o quello che incitava a sorpassare
l'America in capacità produttiva. L'ideologia che imperava
si estendeva all'agricoltura, alle Infatti non esisteva una grande
differenza tra la réclame russa: "Guarda di andartene,
cow boy dell'Iowa", mentre Krusciov diceva: "Vi seppelliremo".
Un'equivalente, primitiva percezione dei fenomeni sociali è
valsa anche in Italia. Solo per aver manifestato simpatia per il nostro
Paese, molte persone sono state emarginate. Come la caccia alle streghe
aveva contaminato l'America come un'epidemia.
Per superare queste rozze percezioni ci sono voluti decenni, abituandoci
da entrambe le parti a più realistiche intenzioni, comprensioni
e possibilità. Comunque, ogni volta che un sistema incontrava
difficoltà, ricorreva ad una maggiore rigidità ideologica,
con previsione dell'imminente collasso e cancellazione dalla storia
del sistema avverso.
Noi russi siamo stati più coerenti di chiunque altro, nel denunciare
i nostri errori. Facciamo questo perché ne abbiamo bisogno
per cominciare una nuova vita. La concentrazione di un enorme potere
nelle mani dei cosiddetti nostri capi supremi ha portato disgrazie
a molte persone. Oggi denunciamo questo rigido centralismo e smantelliamo
il supergonfiato sistema di comando amministrativo. I tempi sono cambiati
e il futuro del nostro Paese e del nostro popolo non è più
compatibile con questo sistema.
Ma, di contro, c'è stata un'epoca in cui il centralismo era
necessario per ragioni obiettive. Ricordate l'intervento dell'Occidente
e le ritorsioni imposte al nostro Paese nel 1920? Ricordate la Seconda
guerra mondiale quando, in pochi mesi, spostammo le nostre industrie
al di là degli Urali e in pochi anni ricostruimmo il Paese
sulle macerie? Senza un potere centralizzato, il Paese sarebbe stato
calpestato dalle macchine da guerra naziste e non avrebbe salvato
la civiltà mondiale impegnata nella battaglia. Senza questo
potere il nostro Paese non sarebbe forse sopravvissuto alla catastrofe
atomica o alla minaccia nucleare.
E arriviamo al problema della nostra responsabilità comune.
Abbiamo denunciato pubblicamente gli errori dei nostri predecessori.
Stiamo riempiendo con la verità i lati oscuri anche nella nostra
storia comune. C'è un buco nero, e mi riferisco alla prima
esplosione di una bomba atomica. Militarmente, non c'era bisogno di
scaricare quegli ordigni su Hiroshima e su Nagasaki. Fu una decisione
politica per intimidirci. Questa tragedia del nostro secolo deve essere
rivelata e i suoi sostenitori denunciati. Se noi non faremo questo,
lo faranno le generazioni future.
Sono orgoglioso del contributo del mio Paese al progresso del genere
umano. E considero un vanto che la Russia abbia posto fine al monopolio
nucleare e stia fissando le premesse concrete per un mondo libero
dalle armi atomiche. Talvolta si sente qualcuno dire che il nostro
nuovo modo di pensare è solo un'illusione, una pura fantasia.
Esso, si dice, ha bisogno di cervelli che noi non avremmo dal momento
che gli architetti della perestrojka sono stati generati dal vecchio
sistema e che il loro primo obiettivo è di conservarlo.
Ebbene, è vero che il nuovo è stato generato dal vecchio.
Ma esso è emerso sotto le forme di una protesta contro le deviazioni
del passato, come uno sforzo per liberare il Paese e il popolo da
questi errori, infine per dare alla gente una prospettiva di vita
decorosa in Russia e nella comunità mondiale.
Analogie e comparazioni hanno un valore limitato. Ma vorrei dire che
per certi versi i nostri problemi economici sono simili a quelli incontrati
dagli Stati Uniti negli anni '30. Allora, un individualismo esasperato
e incontrollato mandò in dissesto l'economia statunitense:
come disse un celebre americano, veniva troppo privilegiato il fattore
produzione e troppo erano penalizzati la distribuzione della ricchezza
e i consumi.
Nel mio Paese, la rigida pianificazione a un certo punto ha soffocato
l'economia, la quale risente pure di un'eccessiva enfasi sul fattore
produttivo. Oggi siamo criticati per avere introdotto elementi del
mercato capitalistico, mettendo così in crisi le nostre imprese
statali e quindi il socialismo. In verità il nostro sistema
economico sta subendo un aggiustamento, un cambio di traiettoria.
Qualcosa di simile a quanto è accaduto negli Usa sessanta anni
fa.
E' giusto quindi ricordare alcune questioni che furono dibattute all'epoca
in America. Secondo lo storico George Soule, durante gli anni della
Grande Depressione ci fu un gran parlare sulla natura della rivoluzione
in America e sulla opportunità di introdurre certe forme di
comunismo nel Paese.
Com'è facile intendere, forze potenti tentarono di ritardare
le riforme di Roosevelt: quante volte la Corte Suprema stabilì
che la sua economia programmata era incostituzionale? Il mondo degli
affari apertamente la boicottò.
In Paesi come i nostri, i cambiamenti sollevano sempre discussioni,
polemiche e annunci di imminenti disastri. Ma sono convinto che si
possa discutere soltanto sulla rapidità con cui la nostra economia
riuscirà a darsi nuove regole operative, non sulla sua capacità
di riaggiustarsi.
Il problema delle relazioni tra i diversi gruppi etnici è diventato
per noi di una estrema gravità. In tutta onestà bisogna
dire che è sempre stata un'affilata spada di Damocle che è
stata talvolta smussata dalla propaganda e soppressa forzatamente.
Adesso che la propaganda non riesce più a mentire e la forza
non è più un elemento valido, i contrasti nazionalistici
sono emersi in superficie. Ma il paradosso al quale assistiamo è
che l'energia che è stata liberata nel nostro Paese dalla perestrojka
è dannosa per la perestrojka stessa quando questa energia assume
forme radicali ed estreme.
Noi non vogliamo affatto nascondere i problemi che esistono tra le
repubbliche, le regioni indipendenti, quelle autonome e il vecchio
centro. Comunque, questi sono problemi politici. Sono convinto che
molte tensioni potranno essere risolte o almeno appianate dallo sviluppo
economico, da una più forte indipendenza economica delle repubbliche,
da legislazioni migliori, da migliori rapporti bi-e-multilaterali,
da un autentico senso del diritto.
Noi non viviamo più in un'epoca in cui alcuni Stati o anche
una grande coalizione di Stati possono decidere ciò che vogliono
in tutto il mondo. Oggi noi abbiamo bisogno del consenso, di un approccio
internazionale ai problemi globali, non solo perché questo
è un imperativo morale, ma per ragioni concrete, dal momento
che il mondo è un'unica e interdipendente entità e che
in esso il cosiddetto Terzo Mondo sta giocando e continuerà
a giocare un ruolo sempre più grande.
Lasciatemi abbozzare di nuovo un'analogia con il passato degli Stati
Uniti. Non si stanno comportando come quegli uomini politici che non
videro il grande pericolo nella crisi del '29 e sperarono che essa
sarebbe passata da sola?
Davanti ai nostri occhi il mondo sta precipitando in una profonda
depressione. Il debito del Terzo Mondo, gli interessi che questi Paesi
devono pagare e l'andamento del loro sviluppo economico non sono forse
i segni di una incombente catastrofe?
La risposta, comunque, è stata la più inadeguata. Le
misure possono soltanto mitigare temporaneamente alcune tendenze,
ma non offrono i mezzi per uscire fuori dalla crisi o una vera soluzione.
Passi arditi, temerari sono necessari, una specie di New Deal, una
transizione che accompagni i Paesi in via di sviluppo verso una rivoluzione
scientifica, tecnologica e dell'informazione. Sarà necessario
superare una certa barriera psicologica, oltrepassare le difficoltà
nazionali e cominciare a ragionare in termini globali. Noi invece
siamo in ritardo nell'adottare questo nuovo pensiero. Saranno necessari
enormi sforzi e non sarà facile farlo. Ciò renderà
possibile formulare un ampio consenso internazionale fondato sulle
nozioni universali di solidarietà umana, di diritti e di libertà
individuali, e una preoccupazione per la pace e per l'ambiente naturale
e spirituale dell'individuo.
Per concludere, lasciatemi esprimere la convinzione che il coraggio
è il fattore predominante della politica attuale. Oggi non
è sufficiente essere un realista che percepisce la vita così
com'è. Insomma, ciò che è necessario è
una visione, anche un idealismo e un puro senso della novità.
Lasciateci guardare al futuro, piuttosto che al passato.
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