§ Scenari 2000

Tutti i rischi del sottosviluppo




PauI Kennedy



E' come se due treni avanzassero a tutta velocità l'uno contro l'altro sullo stesso binario. Lo scontro è assicurato. Quel che non si conosce con certezza è quando si scontreranno (dipende dalla velocità), né il numero di vittime che provocherà l'incidente (dipende dalla violenza dello scontro). Nessuno dubita, a questo punto, che l'Europa e il Nordamerica riceveranno autentiche ondate di emigranti dal Sud, alla ricerca di una vita più degna. Quel che non è tanto chiaro è se il Nord offrirà quel sogno che essi si aspettano o, invece, come sembra, li rifiuterà come appestati.
Javier Ayuso

Nessuno tra gli osservatori delle tendenze contemporanee può dubitare che, nel passaggio dal presente secolo al prossimo, subiremo tutti l'influenza di forze imponenti, che porteranno a un cambiamento globale.
Si intensifica l'internazionalizzazione della produzione industriale, dei servizi e dei flussi di investimento, che investe aziende, le città e intere regioni. Nuove tecnologie, promettenti per gli inventori e gli investitori, minacciano di metter in crisi i sistemi tradizionali di fabbricazione, coltivazione e commercializzazione dei prodotti. Le valute locali vengono decurtate in valore semplicemente a causa del volume quotidiano degli scambi commerciali con l'estero.
Di fronte all'incremento della popolazione terrestre, valutato in 95 milioni di unità all'anno, cresce la pressione sull'ambiente e sulle risorse, aumenta il ritmo dell'immigrazione clandestina e intere società nei Paesi in via di sviluppo subiscono un tracollo. Al di là dei problemi quotidiani che ciascuno di noi deve affrontare, stiamo incominciando a guardare con ansia al futuro.
Considerata la complessità delle forze che innescano il cambiamento globale, non sorprende l'abbondanza delle interpretazioni delle loro possibili conseguenze. Secondo i "tecno-trionfalisti" americani, come George Gilder e Ben Wattenberg, le imprese capitalistiche e le innovazioni scientifiche stanno trasformando la nostra vita in modo profondo ma benefico, e solo dei profeti di sventura possono negarlo.
Kenichi Ohmae della McKinsey ritiene che sia ormai all'orizzonte un "mondo senza barriere", in cui le regole del mercato globale prenderanno il sopravvento sulle preoccupazioni nazionalistiche, e il ruolo dei Governi sarà sempre meno visibile. Lester Thurow del Mit invece ritiene che stiano emergendo tre giganteschi blocchi commerciali, Nord America, Europa e Asia Orientale, impegnati in un aspro conflitto testa a testa per la supremazia economica mondiale. L'ultimo World Economic Forum di Davos, il barometro annuale del clima economico mondiale, ha discusso a lungo di protezionismo, contenimento dell'attivo della bilancia commerciale giapponese, paralisi delle trattative Gatt, cedimento dell'economia tedesca, assistenza economica alla Russia e sussidi all'industria aerospaziale. Non sembra che tutti trovino i "venti creativi" del capitalismo altrettanto stimolanti quanto Gilder.
Ma concentrare la nostra attenzione su argomenti, per quanto importanti, come le relazioni commerciali tra Usa e Giappone o le condizioni degli agricoltori francesi, tradisce una chiara "deviazione nord-atlantica", che potrebbe farci perdere di vista i cambiamenti reali che riguardano l'intero pianeta e i suoi cinque miliardi e mezzo di abitanti. Con il beneficio del senno di poi per i nostri figli e nipoti sarà presumibilmente assai più facile che per noi capire la scarsa importanza delle attuali difficoltà del premier britannico o degli scandali politici in Italia.
Ma su quali tendenze va localizzato il nostro sguardo per rispondere alla domanda: "Quali sono le reali forze del cambiamento che modificherà il pianeta tra oggi e il 2025"? Il primo cambiamento è di certo il fatto che, verosimilmente, saremo molti di più - forse 8,5 o 9 miliardi - e che circa il 95% di quel "più" sarà venuto al mondo nelle regioni più povere. Si prevede invece che le popolazioni delle società ricche crescano lentamente o addirittura (come accade in Giappone, Italia e Francia) diminuiscano in termini assoluti; a meno che, naturalmente, esse non accolgano nei rispettivi Paesi milioni di immigranti desiderosi di abbandonare la madrepatria.
L'Europa, il Nordamerica e il Giappone potrebbero ignorare il problema e limitarsi al reciproco confronto commerciale dei prossimi decenni; ma, se così fosse, assisterebbero a un costante declino della loro potenza demografica. All'inizio del nostro secolo, l'Europa era all'apice della propria supremazia internazionale e forse non fu una semplice coincidenza che allora la percentuale della sua popolazione fosse la più alta nella sua storia; nel prossimo secolo la percentuale cadrà al 7%, o meno ancora.
Queste previsioni demografiche fanno presagire che nel XXI secolo non avremo né un "nuovo ordine mondiale" né un "mondo senza barriere", ma un mondo percorso da profonde tensioni e fratture. Si prevede che la popolazione cinese, che già ora, con 1,1 miliardi di abitanti, eccede le risorse idriche ed agricole del Paese, crescerà fino a un miliardo e mezzo, superata unicamente dall'India, lanciata verso i due miliardi. L'Africa, già oggi allo stremo sotto la pressione dei suoi 680 milioni di abitanti, dispone forse solo del dilagare dell'Aids per contenere il previsto aumento della popolazione fino a 1,6 miliardi entro il 2025; e consistenti aumenti sono previsti anche in Indonesia, Bangladesh, Pakistan, Brasile, Messico e Iran. Tutti questi Paesi vedranno un flusso migratorio interno di proporzioni gigantesche, poiché i contadini alla ricerca di lavoro affluiranno verso bidonvilles di 20-25 milioni di abitanti, con infrastrutture e servizi assolutamente inadeguati. Infine, si tratterà di società adolescenti, con forse la metà della popolazione sotto i 20 anni (o persino come nel Kenya, sotto i 16 anni): una condizione ideale per la turbolenza sociale.
Ma per quale motivo un agricoltore piemontese o una casalinga di Tokyo, già alle prese con i propri problemi, dovrebbe preoccuparsi della tragedia del Bangladesh? Non è forse vero che sul nostro pianeta ci sono sempre state una minoranza di ricchi e una maggioranza di poveri? Non è già una sufficiente sfida per le nostre società prepararsi ai cambiamenti che la tecnologia introdurrà nel prossimo secolo, senza occuparsi della sorte dei Paesi in via di sviluppo così mal governati? In fondo, che cosa accomuna le popolazioni povere dell'Africa ai ricchi banchieri e agli intermediari finanziari del Nord, impegnati a porre le basi di un "mondo senza barriere"?
Se si escludono le motivazioni umanitarie, vi sono tre gravi ragioni per prendere in seria considerazione queste allarmanti tendenze demografiche e cercare di attutirne l'impatto. Prima di tutto le attività economiche di 5-8 miliardi di persone potrebbero determinare un "effetto serra", un riscaldamento globale dovuto alla crescente immissione di gas nell'atmosfera. Non è più una questione di danno ambientale localizzato, sebbene grave preoccupazione suscitino il massiccio inquinamento del Mediterraneo e la scomparsa del lago d'Aral, la distruzione di specie vegetali e degli habitat di specie selvagge in Brasile e la costante deforestazione in India, il cui manto forestale si è ridotto da metà a un settimo nel corso di questo secolo. Oggi è in gioco la sussistenza dell'ecosistema stesso. Mentre i Paesi dell'Ocse probabilmente possiedono i capitali e le risorse scientifiche per raggiungere una condizione di "pulizia" ambientale all'inizio del prossimo secolo, gli effetti atmosferici di tale beneficio risultano vanificati dal continuo incremento delle sostanze inquinanti provenienti da Cina, India, Messico, e da altri Paesi caratterizzati da una rapida industrializzazione, che attualmente non possono permettersi sofisticati dispositivi di controllo delle emissioni. Se siamo davvero preoccupati dalle conseguenze del riscaldamento globale - aumento del livello del mare, incremento dello stress, maggiore instabilità meteorologica - dobbiamo in primo luogo creare tecnologie che consentano di aiutare le nazioni più povere a ridurre le emissioni inquinanti.
Altrettanto preoccupante è la prospettiva di ulteriori ondate di immigrazione clandestina proveniente da società povere e sovrappopolate nelle regioni ricche del Nord, caratterizzate dalla stagnazione demografica. Già ora milioni di persone sono ospitate presso campi di accoglienza oppure in viaggio dall'America Centrale, dall'Africa, dall'Asia Meridionale e dal Medio Oriente verso gli Stati Uniti, la Germania, l'Australia e altre destinazioni privilegiate; e questo movimento viene paradossalmente stimolato da una rivoluzione nel sistema delle comunicazioni che proietta in tutto il mondo programmi televisivi come Dallas e Dynasty.
Le marine militari spagnola e italiana effettuano servizi giornalieri di pattugliamento per contrastare l'immigrazione illegale; ma se la popolazione africana triplicherà mentre quella europea resterà stagnante, non dovremmo forse aspettarci un forte aumento dell'immigrazione? E fino a che punto la rivoluzione dell'automazione che ha preso il via in Giappone - dove le industrie automatizzate possono assemblare i prodotti in modo più efficiente ed economico dei centri industriali nel Sud-Est asiatico, che impiegano manodopera a basso costo - metterà in forse la possibilità di creare quei 40-50 milioni di nuovi posti di lavoro all'anno che garantirebbero un'occupazione ai giovani in rapido aumento? Se i giovani non troveranno lavoro nei Paesi in via di sviluppo, oppure se un'ondata di misure protezionistiche nei Paesi ricchi impedirà ai Paesi poveri di inserirsi nel mercato mondiale attraverso le esportazioni, dovremmo forse sorprenderci se grandi masse verranno a cercare lavoro al Nord? Le nazioni europee, dove già emergono segni di xenofobia benché la percentuale di immigranti sia ancora ridotta, sapranno diventare società realmente multiculturali? E in caso contrario, assisteremo ad un inasprimento delle tensioni razziali? Infine, c'è la considerazione che non tutti questi Paesi in difficoltà sono come l'Etiopia: deboli, inoffensivi e incapaci di rappresentare una minaccia in futuro. La stessa combinazione esplosiva di popolazione in rapida crescita, gioventù insoddisfatta, impoverimento del terreno e delle risorse idriche, e così via, esiste in zone del mondo - Algeria, Egitto, Giordania, Valle dell'Eufrate e Sud-Est asiatico - dove sono presenti movimenti fondamentalisti e antioccidentali e regimi ambiziosi, dove le dispute territoriali assumono un carattere cronico e si continuano ad esportare ingenti quantità di armamenti sofisticati in grado di causare distruzioni di massa.
Se desideriamo continuare a vedere al potere i regimi laici e filooccidentali del Cairo e di Algeri, il nostro interesse non sta forse nel cercare di migliorare le condizioni di vita dei loro abitanti? O dobbiamo aspettare che Roma o Francoforte vengano a trovarsi alla portata degli apparati missilistici nordafricani, prima di affrontare seriamente la questione della proliferazione degli armamenti?
Questo ci conduce ad affrontare un problema fondamentale: considerato quanto si è detto, come agire nel caso in cui nei prossimi anni risultasse possibile arginare e contrastare (o meglio ancora, invertire) queste tendenze potenzialmente pericolose? Chiaramente, molto dipende dalle popolazioni e dai governanti degli stessi Paesi in via di sviluppo. E' difficile aspettarsi che l'assistenza americana ed europea possa apportare miglioramenti in Paesi in cui prevalgono regimi corrotti e incapaci, le rivalità etniche e religiose dominano la politica, religioni animiste o integraliste con radici profonde bloccano ogni cambiamento nella condizione e nell'istruzione femminile (e quindi anche la possibilità di ridurre il numero medio dei figli per coppia) e politiche economiche errate soffocano la crescita.
D'altra parte, dovremmo essere pronti a offrire assistenza ai Paesi in via di sviluppo aperti alle riforme che chiedono aiuto e cooperazione: incrementando gli investimenti destinati allo sviluppo almeno fino all'obiettivo internazionalmente concordato dello 0,7% del Pil su base annua; garantendo che tali contributi vadano a progetti affidabili dal punto di vista ambientale, in collaborazione con le comunità locali, e non ai faraonici progetti stile anni '60 (acciaierie, enormi dighe, e così via), aiutando le decine di migliaia di ingegneri e scienziati ora liberi dagli impegni della ricerca in programmi legati alla guerra fredda a utilizzare i loro talenti per trovare soluzioni a basso costo ai problemi di carattere globale (piccoli 'Torni solari" per la cottura dei pasti quotidiani nei villaggi e, in generale, i progetti basati sull'energia solare sono dei buoni esempi); trasferendo i frutti delle innovazioni nelle biotecnologie agricole (coltivazioni resistenti alle malattie e al calore), senza pretendere il pagamento di costosi diritti da parte delle nazioni povere; andando incontro alle richieste di decine di milioni di donne sposate dei Paesi in via di sviluppo, di mezzi contraccettivi sicuri ed economici per controllare il numero dei figli; e, più in generale, contribuendo all'accesso all'istruzione del maggior numero possibile di ragazze e donne di queste società. Nessuno di questi pro~ grammi garantisce di prevenire la possibilità di disastri globali. Ma, considerati nel loro insieme, essi offrono la migliore prospettiva di sanare almeno una parte dei problemi del nostro pianeta.
Manca tuttavia un ulteriore ingrediente. Gli intellettuali impegnati, i direttori di giornali, gli imprenditori e la gente comune non possono garantire da soli che queste politiche di riforma verranno applicate. Ciò presuppone la buona volontà dei leaders politici, in particolare nelle società ricche e democratiche. E in ciò consiste purtroppo il problema cruciale.
Paradossalmente oggi si nota a Washington (a differenza dei tempi di Reagan-Bush, binomio disinteressatissimo) un atteggiamento più disponibile ad assistere i Paesi poveri, mentre molti Paesi dell'Ocse si tirano indietro. Con i partiti al potere in Italia e in Giappone sull'orlo del collasso e i Governi tedesco, francese, britannico, canadese, australiano e numerosi altri al culmine della propria impopolarità, è improbabile che questi Paesi siano attualmente capaci di adottare politiche generose e lungimiranti per intervenire sui pericoli globali. Ma, se poco o nulla è fatto subito, non toccherà a noi e ai nostri figli pagare in futuro un prezzo molto più alto per tale trascuratezza?


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