E'
come se due treni avanzassero a tutta velocità l'uno contro l'altro
sullo stesso binario. Lo scontro è assicurato. Quel che non si
conosce con certezza è quando si scontreranno (dipende dalla
velocità), né il numero di vittime che provocherà
l'incidente (dipende dalla violenza dello scontro). Nessuno dubita,
a questo punto, che l'Europa e il Nordamerica riceveranno autentiche
ondate di emigranti dal Sud, alla ricerca di una vita più degna.
Quel che non è tanto chiaro è se il Nord offrirà
quel sogno che essi si aspettano o, invece, come sembra, li rifiuterà
come appestati.
Javier Ayuso
Nessuno tra gli
osservatori delle tendenze contemporanee può dubitare che,
nel passaggio dal presente secolo al prossimo, subiremo tutti l'influenza
di forze imponenti, che porteranno a un cambiamento globale.
Si intensifica l'internazionalizzazione della produzione industriale,
dei servizi e dei flussi di investimento, che investe aziende, le
città e intere regioni. Nuove tecnologie, promettenti per gli
inventori e gli investitori, minacciano di metter in crisi i sistemi
tradizionali di fabbricazione, coltivazione e commercializzazione
dei prodotti. Le valute locali vengono decurtate in valore semplicemente
a causa del volume quotidiano degli scambi commerciali con l'estero.
Di fronte all'incremento della popolazione terrestre, valutato in
95 milioni di unità all'anno, cresce la pressione sull'ambiente
e sulle risorse, aumenta il ritmo dell'immigrazione clandestina e
intere società nei Paesi in via di sviluppo subiscono un tracollo.
Al di là dei problemi quotidiani che ciascuno di noi deve affrontare,
stiamo incominciando a guardare con ansia al futuro.
Considerata la complessità delle forze che innescano il cambiamento
globale, non sorprende l'abbondanza delle interpretazioni delle loro
possibili conseguenze. Secondo i "tecno-trionfalisti" americani,
come George Gilder e Ben Wattenberg, le imprese capitalistiche e le
innovazioni scientifiche stanno trasformando la nostra vita in modo
profondo ma benefico, e solo dei profeti di sventura possono negarlo.
Kenichi Ohmae della McKinsey ritiene che sia ormai all'orizzonte un
"mondo senza barriere", in cui le regole del mercato globale
prenderanno il sopravvento sulle preoccupazioni nazionalistiche, e
il ruolo dei Governi sarà sempre meno visibile. Lester Thurow
del Mit invece ritiene che stiano emergendo tre giganteschi blocchi
commerciali, Nord America, Europa e Asia Orientale, impegnati in un
aspro conflitto testa a testa per la supremazia economica mondiale.
L'ultimo World Economic Forum di Davos, il barometro annuale del clima
economico mondiale, ha discusso a lungo di protezionismo, contenimento
dell'attivo della bilancia commerciale giapponese, paralisi delle
trattative Gatt, cedimento dell'economia tedesca, assistenza economica
alla Russia e sussidi all'industria aerospaziale. Non sembra che tutti
trovino i "venti creativi" del capitalismo altrettanto stimolanti
quanto Gilder.
Ma concentrare la nostra attenzione su argomenti, per quanto importanti,
come le relazioni commerciali tra Usa e Giappone o le condizioni degli
agricoltori francesi, tradisce una chiara "deviazione nord-atlantica",
che potrebbe farci perdere di vista i cambiamenti reali che riguardano
l'intero pianeta e i suoi cinque miliardi e mezzo di abitanti. Con
il beneficio del senno di poi per i nostri figli e nipoti sarà
presumibilmente assai più facile che per noi capire la scarsa
importanza delle attuali difficoltà del premier britannico
o degli scandali politici in Italia.
Ma su quali tendenze va localizzato il nostro sguardo per rispondere
alla domanda: "Quali sono le reali forze del cambiamento che
modificherà il pianeta tra oggi e il 2025"? Il primo cambiamento
è di certo il fatto che, verosimilmente, saremo molti di più
- forse 8,5 o 9 miliardi - e che circa il 95% di quel "più"
sarà venuto al mondo nelle regioni più povere. Si prevede
invece che le popolazioni delle società ricche crescano lentamente
o addirittura (come accade in Giappone, Italia e Francia) diminuiscano
in termini assoluti; a meno che, naturalmente, esse non accolgano
nei rispettivi Paesi milioni di immigranti desiderosi di abbandonare
la madrepatria.
L'Europa, il Nordamerica e il Giappone potrebbero ignorare il problema
e limitarsi al reciproco confronto commerciale dei prossimi decenni;
ma, se così fosse, assisterebbero a un costante declino della
loro potenza demografica. All'inizio del nostro secolo, l'Europa era
all'apice della propria supremazia internazionale e forse non fu una
semplice coincidenza che allora la percentuale della sua popolazione
fosse la più alta nella sua storia; nel prossimo secolo la
percentuale cadrà al 7%, o meno ancora.
Queste previsioni demografiche fanno presagire che nel XXI secolo
non avremo né un "nuovo ordine mondiale" né
un "mondo senza barriere", ma un mondo percorso da profonde
tensioni e fratture. Si prevede che la popolazione cinese, che già
ora, con 1,1 miliardi di abitanti, eccede le risorse idriche ed agricole
del Paese, crescerà fino a un miliardo e mezzo, superata unicamente
dall'India, lanciata verso i due miliardi. L'Africa, già oggi
allo stremo sotto la pressione dei suoi 680 milioni di abitanti, dispone
forse solo del dilagare dell'Aids per contenere il previsto aumento
della popolazione fino a 1,6 miliardi entro il 2025; e consistenti
aumenti sono previsti anche in Indonesia, Bangladesh, Pakistan, Brasile,
Messico e Iran. Tutti questi Paesi vedranno un flusso migratorio interno
di proporzioni gigantesche, poiché i contadini alla ricerca
di lavoro affluiranno verso bidonvilles di 20-25 milioni di abitanti,
con infrastrutture e servizi assolutamente inadeguati. Infine, si
tratterà di società adolescenti, con forse la metà
della popolazione sotto i 20 anni (o persino come nel Kenya, sotto
i 16 anni): una condizione ideale per la turbolenza sociale.
Ma per quale motivo un agricoltore piemontese o una casalinga di Tokyo,
già alle prese con i propri problemi, dovrebbe preoccuparsi
della tragedia del Bangladesh? Non è forse vero che sul nostro
pianeta ci sono sempre state una minoranza di ricchi e una maggioranza
di poveri? Non è già una sufficiente sfida per le nostre
società prepararsi ai cambiamenti che la tecnologia introdurrà
nel prossimo secolo, senza occuparsi della sorte dei Paesi in via
di sviluppo così mal governati? In fondo, che cosa accomuna
le popolazioni povere dell'Africa ai ricchi banchieri e agli intermediari
finanziari del Nord, impegnati a porre le basi di un "mondo senza
barriere"?
Se si escludono le motivazioni umanitarie, vi sono tre gravi ragioni
per prendere in seria considerazione queste allarmanti tendenze demografiche
e cercare di attutirne l'impatto. Prima di tutto le attività
economiche di 5-8 miliardi di persone potrebbero determinare un "effetto
serra", un riscaldamento globale dovuto alla crescente immissione
di gas nell'atmosfera. Non è più una questione di danno
ambientale localizzato, sebbene grave preoccupazione suscitino il
massiccio inquinamento del Mediterraneo e la scomparsa del lago d'Aral,
la distruzione di specie vegetali e degli habitat di specie selvagge
in Brasile e la costante deforestazione in India, il cui manto forestale
si è ridotto da metà a un settimo nel corso di questo
secolo. Oggi è in gioco la sussistenza dell'ecosistema stesso.
Mentre i Paesi dell'Ocse probabilmente possiedono i capitali e le
risorse scientifiche per raggiungere una condizione di "pulizia"
ambientale all'inizio del prossimo secolo, gli effetti atmosferici
di tale beneficio risultano vanificati dal continuo incremento delle
sostanze inquinanti provenienti da Cina, India, Messico, e da altri
Paesi caratterizzati da una rapida industrializzazione, che attualmente
non possono permettersi sofisticati dispositivi di controllo delle
emissioni. Se siamo davvero preoccupati dalle conseguenze del riscaldamento
globale - aumento del livello del mare, incremento dello stress, maggiore
instabilità meteorologica - dobbiamo in primo luogo creare
tecnologie che consentano di aiutare le nazioni più povere
a ridurre le emissioni inquinanti.
Altrettanto preoccupante è la prospettiva di ulteriori ondate
di immigrazione clandestina proveniente da società povere e
sovrappopolate nelle regioni ricche del Nord, caratterizzate dalla
stagnazione demografica. Già ora milioni di persone sono ospitate
presso campi di accoglienza oppure in viaggio dall'America Centrale,
dall'Africa, dall'Asia Meridionale e dal Medio Oriente verso gli Stati
Uniti, la Germania, l'Australia e altre destinazioni privilegiate;
e questo movimento viene paradossalmente stimolato da una rivoluzione
nel sistema delle comunicazioni che proietta in tutto il mondo programmi
televisivi come Dallas e Dynasty.
Le marine militari spagnola e italiana effettuano servizi giornalieri
di pattugliamento per contrastare l'immigrazione illegale; ma se la
popolazione africana triplicherà mentre quella europea resterà
stagnante, non dovremmo forse aspettarci un forte aumento dell'immigrazione?
E fino a che punto la rivoluzione dell'automazione che ha preso il
via in Giappone - dove le industrie automatizzate possono assemblare
i prodotti in modo più efficiente ed economico dei centri industriali
nel Sud-Est asiatico, che impiegano manodopera a basso costo - metterà
in forse la possibilità di creare quei 40-50 milioni di nuovi
posti di lavoro all'anno che garantirebbero un'occupazione ai giovani
in rapido aumento? Se i giovani non troveranno lavoro nei Paesi in
via di sviluppo, oppure se un'ondata di misure protezionistiche nei
Paesi ricchi impedirà ai Paesi poveri di inserirsi nel mercato
mondiale attraverso le esportazioni, dovremmo forse sorprenderci se
grandi masse verranno a cercare lavoro al Nord? Le nazioni europee,
dove già emergono segni di xenofobia benché la percentuale
di immigranti sia ancora ridotta, sapranno diventare società
realmente multiculturali? E in caso contrario, assisteremo ad un inasprimento
delle tensioni razziali? Infine, c'è la considerazione che
non tutti questi Paesi in difficoltà sono come l'Etiopia: deboli,
inoffensivi e incapaci di rappresentare una minaccia in futuro. La
stessa combinazione esplosiva di popolazione in rapida crescita, gioventù
insoddisfatta, impoverimento del terreno e delle risorse idriche,
e così via, esiste in zone del mondo - Algeria, Egitto, Giordania,
Valle dell'Eufrate e Sud-Est asiatico - dove sono presenti movimenti
fondamentalisti e antioccidentali e regimi ambiziosi, dove le dispute
territoriali assumono un carattere cronico e si continuano ad esportare
ingenti quantità di armamenti sofisticati in grado di causare
distruzioni di massa.
Se desideriamo continuare a vedere al potere i regimi laici e filooccidentali
del Cairo e di Algeri, il nostro interesse non sta forse nel cercare
di migliorare le condizioni di vita dei loro abitanti? O dobbiamo
aspettare che Roma o Francoforte vengano a trovarsi alla portata degli
apparati missilistici nordafricani, prima di affrontare seriamente
la questione della proliferazione degli armamenti?
Questo ci conduce ad affrontare un problema fondamentale: considerato
quanto si è detto, come agire nel caso in cui nei prossimi
anni risultasse possibile arginare e contrastare (o meglio ancora,
invertire) queste tendenze potenzialmente pericolose? Chiaramente,
molto dipende dalle popolazioni e dai governanti degli stessi Paesi
in via di sviluppo. E' difficile aspettarsi che l'assistenza americana
ed europea possa apportare miglioramenti in Paesi in cui prevalgono
regimi corrotti e incapaci, le rivalità etniche e religiose
dominano la politica, religioni animiste o integraliste con radici
profonde bloccano ogni cambiamento nella condizione e nell'istruzione
femminile (e quindi anche la possibilità di ridurre il numero
medio dei figli per coppia) e politiche economiche errate soffocano
la crescita.
D'altra parte, dovremmo essere pronti a offrire assistenza ai Paesi
in via di sviluppo aperti alle riforme che chiedono aiuto e cooperazione:
incrementando gli investimenti destinati allo sviluppo almeno fino
all'obiettivo internazionalmente concordato dello 0,7% del Pil su
base annua; garantendo che tali contributi vadano a progetti affidabili
dal punto di vista ambientale, in collaborazione con le comunità
locali, e non ai faraonici progetti stile anni '60 (acciaierie, enormi
dighe, e così via), aiutando le decine di migliaia di ingegneri
e scienziati ora liberi dagli impegni della ricerca in programmi legati
alla guerra fredda a utilizzare i loro talenti per trovare soluzioni
a basso costo ai problemi di carattere globale (piccoli 'Torni solari"
per la cottura dei pasti quotidiani nei villaggi e, in generale, i
progetti basati sull'energia solare sono dei buoni esempi); trasferendo
i frutti delle innovazioni nelle biotecnologie agricole (coltivazioni
resistenti alle malattie e al calore), senza pretendere il pagamento
di costosi diritti da parte delle nazioni povere; andando incontro
alle richieste di decine di milioni di donne sposate dei Paesi in
via di sviluppo, di mezzi contraccettivi sicuri ed economici per controllare
il numero dei figli; e, più in generale, contribuendo all'accesso
all'istruzione del maggior numero possibile di ragazze e donne di
queste società. Nessuno di questi pro~ grammi garantisce di
prevenire la possibilità di disastri globali. Ma, considerati
nel loro insieme, essi offrono la migliore prospettiva di sanare almeno
una parte dei problemi del nostro pianeta.
Manca tuttavia un ulteriore ingrediente. Gli intellettuali impegnati,
i direttori di giornali, gli imprenditori e la gente comune non possono
garantire da soli che queste politiche di riforma verranno applicate.
Ciò presuppone la buona volontà dei leaders politici,
in particolare nelle società ricche e democratiche. E in ciò
consiste purtroppo il problema cruciale.
Paradossalmente oggi si nota a Washington (a differenza dei tempi
di Reagan-Bush, binomio disinteressatissimo) un atteggiamento più
disponibile ad assistere i Paesi poveri, mentre molti Paesi dell'Ocse
si tirano indietro. Con i partiti al potere in Italia e in Giappone
sull'orlo del collasso e i Governi tedesco, francese, britannico,
canadese, australiano e numerosi altri al culmine della propria impopolarità,
è improbabile che questi Paesi siano attualmente capaci di
adottare politiche generose e lungimiranti per intervenire sui pericoli
globali. Ma, se poco o nulla è fatto subito, non toccherà
a noi e ai nostri figli pagare in futuro un prezzo molto più
alto per tale trascuratezza?
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