Da
corrispondente dalla Capitale alla direzione del quotidiano Il Sole,
da Piazza Venezia dove avevo i miei uffici confindustriali di direttore
de L'Organizzazione Industriale, di direttore dell'AGA, di vice capo
dell'Ufficio Stampa, oggi relazioni esterne, a via Galasso, alle spalle
della Scala, a Milano.
Allora i direttori dei quotidiani più importanti arrivavano con
una decina di anni in anticipo rispetto ai loro predecessori. Ora ci
sono i direttori quarantenni, ma già per altre attività
dirigenziali si guarda con particolare attenzione ai trentenni.
La formazione professionale, nei suoi molteplici contenuti anche tecnologici
e di approccio con il mercato, ha una diversa dinamica.
Siffatto acceleramento di ritmi, che investe produzione, occupazione,
società, sta avendo a tutti i fini ripercussioni non tutte ancora
definibili, ma comunque enormi, e tali da imporre strategie chiare nelle
motivazioni e nel finalismo di equilibrio e di sviluppo; ma tuttora
vaghe ed insufficienti nelle strumentazioni. E questo è il grosso
problema che questi pochi anni che ci dividono dalla fine del Duemila
devono risolvere, a superamento di una parte della crisi strutturale
in atto e dall'altra dei condizionamenti che devono risolversi in nuovi
modi di essere della società, del produrre, dello stesso capitalismo,
e qualcuno in particolare ha detto del "capitalianismo".
Ma anche alla mia generazione giornalistica è stato offerto di
dovere e sapere intendere i problemi e le sollecitazioni che a mano
a mano si presentavano alla ribalta. E così ci è toccato
sempre di tentare di fare un giornalismo nuovo. In questo giornalismo
non c'era appiattimento, monotonia, non c'era uniformistica, non c'erano
schematizzazioni generalizzate (molte di esse per contro si rilevano
nel giornalismo di oggi).
Negli anni '60, ogni direttore aveva le sue regole, enucleava collaboratori
che pur alle prime armi talvolta già dalle sedi minori facevano
intendere quello che potevano dare a giornali e lettori. E ce ne sono
ancora tanti oggi viventi ed operanti fra di essi: allora in anticipo,
oggi spesso pure all'avanguardia.
Con questa mia ispirazione e con la volontà di rispettarla e
realizzarla al meglio, nel maggio del 1962 assumevo la direzione de
Il Sole. un giornale già quasi secolare, portatore di una tradizione
prima milanese, poi nazionale, che per molti decenni ha quale quotidiano
economico esplicata da solo, che nella sua conduzione inizialmente solo
familiare ha trovato convinte motivazioni, ma anche limiti gestionali.
Un giornale al quale perciò toccava l'obbligo prioritario di
rinnovarsi. Il che doveva avvenire, perché nel secondo dopoguerra
due altri quotidiani economici erano sopravvenuti, aggiungendosi ad
altri: La Finanza d'Italia a Milano ed il Corriere Mercantile a Genova,
che si rivolgevano ad ambiti nettamente circoscritti. E parlo per i
sopravvenuti de Il Globo a Roma e di 24 Ore a Milano. E' al presidente
del Consiglio d'Amministrazione de il Sole, acquistato dalla Confindustria,
l'on. Mario Dosi, che si deve l'operosa intuizione della spinta rapidamente
e concretamente rinnovatrice che si doveva progettare e soprattutto
realizzare. In precedenza, in questo giornale, si pensò al potenziamento
del servizio romano di corrispondenza e nel novembre del 1953 se ne
dette incarico a me, ferma restando la direzione del discendente della
famiglia dei fondatori, e cioè dell'Ing. Mario Bersellini, coadiuvato
dal figlio. Nel 1956 la direzione sempre promossa da Dosi veniva affidata
ad un anziano giornalista, fino ad allora corrispondente romano di 24
Ore: Italo Minunni, giornalista già nazionalista, poi volontario
in Libia, poi ancora partigiano monarchico, del quale nel 1946 mi era
occorso di divenire successore, nella rinnovata Confindustria, quale
direttore de L'Organizzazione Industriale. Un settimanale sul quale
egli diceva che era tanto difficile scrivere quanto sul Financial Times.
Nel maggio del 1962, come dicevo prima, sempre su iniziativa del presidente
del consiglio d'Amministrazione, Dosi, che proponeva e si attendeva
nuovi giri di vite nel rinnovamento, assumevo la direzione del giornale.
Questo avveniva contemporaneamente ai mutamenti di direzione negli altri
quotidiani della Confindustria: Il Globo, Il Giornale d'Italia, ma non
24 Ore, per il quale contava la diretta supervisione della Montedison,
che fra l'altro trovava nel nuovo Presidente della Confindustria, Furio
Cicogna, un Suo diretto e consenziente referente, quale presidente della
Chatillon.
L'investitura mi fu appunto fatta da Cicogna, le Cui parole augurali
e di esortazione, riflettendo una sorta di conversione religiosa che
in lui era intervenuta (fra l'altro egli fu promotore e finanziatore
dell'Opera di Assisi di Don Rossi, di cui parlerò dopo), chiamarono
in causa addirittura l'orgoglio dei miei familiari per quanto avrei
dovuto e saputo fare.
Sono sfumature marginali che circondano certi fatti della nostra vita,
che al momento ci trovano spesso distratti, che con il passare del tempo
hanno più a che fare con le valutazioni tue inerenti a chi quelle
parole ti ha rivolto, e non già al profitto che ne avrai tratto.
E questo profitto è molto problematico, perché molto spesso
tu quelle parole le hai subito trasferite alla pazienza o indifferenza
per la retorica.
Le consegne mi furono naturalmente fatte dal mio predecessore, appunto
Italo Minunni, che non mi aveva perdonato l'accettazione da parte mia
della sua successione. Questo perdono generalmente non è frequente.
Mi ricordo di un direttore di un grande quotidiano che, riferendosi
al suo successore, amava dire che allorché al portone del suo
giornale giungeva un'auto vuota, ne discendesse il direttore che gli
era subentrato.
Orbene, allorché Minunni mi fece le consegne, mi disse che la
cosa più importante era la chiave del gabinetto (per non fare
confusioni, il cosiddetto n. 100 di una volta) e me la dette. Era questo
un duplice sfregio: per me, ma anche per lui. lo ho la pretesa di avere
palesemente rigettato lo sfregio ed anzi di averlo riscattato; lui,
essendo defunto, preferisco immaginare quanto gli sia rimasto.
Comunque lo spirito più o meno atarassico dell'ambiente era questo.
Tant'è che il collega, da me poi nominato vice direttore, e che
poi ho imparato a stimare, come hanno fatto dopo tanti nostri colleghi
nominandolo capo del nostro istituto previdenziale (e non ne cito il
nome, perché la mia voce di apprezzamento per lui si aggiungerebbe
a quella corale della nostra categoria), si affrettò a dirmi
che quanto di urgente c'era da fare era il calendario delle ferie.
Gli feci capire che io alle ferie ero interessato molto poco e che a
me premeva il programma di rinnovamento che avevo predisposto e che
avrei a tutti i costi realizzato, anche a costo dei miei sacrifici anche
finanziari.
Ma per questo nostro collega il calendario delle ferie era importante,
perché dopo una quindicina di giorni doveva sposarsi. Ed in questa
quindicina di giorni mi fece capire con la sua operosità che
era bravo.
Ma di bravi (oltre il giovane redattore capo che portavo con me da Roma
nella convinzione di avere con me un amico, prima ancora di un collaboratore;
lui invece, quando non gli ero più utile, mi scrisse che da una
parte e dall'altra c'era stata solo rispettiva utilità) ve n'erano
molti altri.
C'era un redattore capo, che io pensai fosse più utilizzabile
come segretario di redazione, fermi restando i suoi diritti contrattuali.
Aveva fra l'altro adottato due gemelli e mi ha sempre ricordato fino
alla fine dei suoi giorni. C'era un giovane redattore, Maranghi, oggi
esponente della Mediobanca, che curava la parte finanziaria, che poi
è stata sempre un pregio del giornale, tant'è che anche
un altro suo titolare ne divenne poi titolare a Il Corriere della Sera.
C'era un capo servizio stenografi (allora erano strettamente indispensabili)
che essendo bravo diceva la sua su ogni cosa che trascriveva: si chiamava
Capezzuoli, ed oggi il figlio o altri con lo stesso cognome ricompare
sul quotidiano economico di Milano. C'era un altro collega, Toscano,
che si occupava dei mercati e che aveva un chiodo fisso: quello della
figlia, che oggi svolge servizi giornalistici dalla Borsa di Milano,
fra cui uno per conto di "TeleBorsa", la prima agenzia di
informazioni borsistiche da me fondata insieme a Raoul Chiodelli, nel
1960. E mio partner in questa società è stato appunto
il fondatore dell'ElAR.
C'era ancora un altro collega, Mistri, e mi ha aiutato molto a cambiare
tipograficamente il volto del giornale. Non posso poi dimenticare quello
che io chiamavo cucciolone, Tedeschi, che curava le cronache regionali
e che ora è capo redattore per i servizi speciali de Il Sole-24
Ore.
Ma tre altri nomi devo ricordare. La giovanissima segretaria della direzione,
Ornella Ardizzone: quanto fosse brava è confermato dal fatto
che fino all'altro ieri ha avuto lo stesso ruolo con l'ultimo direttore
del giornale, fino a quando questi è passato alla direzione della
Rai.
Poi il direttore della tipografia, e mi spiace non ricordarmi il nome
(Cerabolini?), che era inesorabile nel rivendicare di sapere a tempo
quanto potesse riguardare il proprio lavoro, che esplicava sempre in
maniera ineccepibile e certo migliore di quella che ero abituato a rilevare
con la mia esperienza in altre tipografie, per me allora solo romane.
Infine il mio autista, Ambrosini: mi raccoglieva dovunque, e mi ha ricordato
con le sue cartoline d'augurio, fino all'ultimo. Sono tutte queste persone,
e come si vede non sono tante, che mi fanno ricordare come bene o male
quegli anni miei sono passati. Sto parlando in sostanza di 12 anni,
dal 1953 al 1965, anno di celebrazione del centenario de Il Sole avvenuta
ufficialmente.
Ma perché ne ho parlato e ne parlo? Perché, se un giorno
i computers si occuperanno e registreranno le vicende dei direttori
dei quotidiani possano tenere conto anche di questa scheda, pure se
molto modesta. D'altra parte ad ogni esperienza corrisponde oltre che
la propria che si è direttamente vissuta, anche quella degli
altri dai quali non ci riteniamo distanti.
Un "Sole"
sempre per il giorno dopo
Dunque, volevo, dovevo rinnovare Il Sole. Ho pensato sempre che ogni
organo di stampa dovesse essere ordinato: cioè far sapere ai
lettori quello che avrebbero trovato nelle singole pagine. L'ho fatto
e ci sono riuscito, perché chi mi controllava ha detto che
l'ho fatto in anticipo rispetto alle sue aspettative, nel 1938, con
il settimanale L'Artigiano a 300.000 abbonati. L'ho fatto con L'Organizzazione
Industriale dal 1946 fino ai primi mesi del 1962 e me ne fu dato atto
dal precedente Presidente della Confindustria, Giovanni Balella.
Come? In quegli anni, in quell'anno ritengo che l'esempio più
significativo di rinnovamento giornalistico-editoriale in atto fosse
quello di Gaetano Baldacci con Il Giorno.
Da meno che ventenne, mi era piaciuto Il Tevere di Telesio Interlandi,
sul quale ho cominciato a pubblicare, gratuitamente, i miei articoli.
Richiamarsi ad Interlandi è addirittura ritenuto un'autoffesa,
ma io lo faccio lo stesso, nell'interesse della storia giornalistica.
E mi pare che Sciascia mi dia ad esempio ragione.
Ed eccomi a Baldacci. Dopo la direzione de Il Giorno deve essergli
successo di tutto. Ma le sue sopravvenienze non irretivano la mia
curiosità. Egli ha pur sempre fatto il migliore Giorno che
si potesse fare, e dopo di lui nessuno vi è riuscito, solo
perché -io ritengo - ha guardato non entro se stesso, ma entro
gli altri, per capire come gli contendevano le copie. Ma le copie
non sono quelle che noi da soli siamo in grado di offrire e mai saranno
quelle prive di una grinta propria.
La volontà
della "grinta"
Una grinta propria. E' quella che io ho cercato di imprimere al giornale
di cui assumevo la direzione.
Ero convinto che si dovesse ribaltare il giornale. Lo avevo addirittura
schematizzato. Avevo predisposto graficamente le testate delle varie
pagine, che un architetto mi fece subito pagare. Per me, direttore,
il problema era solo quello di decidere il momento in cui partire
con le novità.
Siamo a maggio, e per me il mese era indispensabile per conoscere
il nuovo ambiente, già da romano, in cui dovevo muovermi.
Presi i necessari contatti più o meno formali. Il più
importante era per me quello con il cardinale Montini, la cui risposta
alla mia comunicazione di aver assunto la direzione del più
antico quotidiano di Milano mi fu data il 13 maggio. Pensai poi alle
rappresentanze dell'industria, a quelle del commercio, ecc. E così
ebbi a rilevare la presenza attiva e forse supersonica di una cassa
di risonanza della città per quanto le si faceva intorno, che
altrove, a cominciare da Roma, non avevo riscontrato.
Milano è sempre Milano: si diceva allora ed era vero. Poi non
è stato più vero, e per fortuna io non c'ero.
Questa Milano rispondeva sempre a quanto le chiedevi. Aspettava solo
di vedere se quanto le offrivi corrispondeva a quanto senza pretese
essa si attendesse. Milano, a me romano, ha dato solo questa sorpresa;
e cioè quella di attendersi solo quanto si aspettasse e le
era dovuto.
Ed io per la mia parte mi lusingo di aver fatto quanto pensavo per
questa città. Ma perché solo ad essa e perché
non pensiamo quanto dovuto all'intero Paese?
L'ansia del
domani
E comunque riuscii e volli cambiare il volto di questo giornale. Il
primo giugno 1962, un mese dopo l'assunzione della direzione del giornale,
le edicole presentavano un giornale diverso da quello dei giorni prima.
La sera prima, uscendo dalla tipografia, mi interrogai, in verità
non tanto atterrito, come lo sarei oggi, su quanto sarebbe occorso
l'indomani.
Tuttavia la prima telefonata del mattino dopo la ricevetti dal capo
dell'ufficio stampa della Sicurtà Adriatica, che mi domandò
di quella che gli appariva una rivoluzione successa a via Ciovasso,
dove Il Sole aveva la sua sede, e che varie decine di anni prima era
stata la sede di una casa ottocentesca di tolleranza.
La rivoluzione, invece, con me, non c'era stata. C'era stato solo
chi aveva cercato di aggiustare le sfere dell'orologio, ed io avevo
il privilegio di essere stato uno di questi. Nella vita ricordiamo
poco gli aggiustatori degli orologi, e molto spesso i rivoluzionari,
che fra l'altro non solo si impongono ma si inventano. Ma che ho fatto
o non fatto a Il Sole? Nulla di più di quanto non facciano
gli altri direttori.
Di me parla "La trasparenza difficile": il libro sponsorizzato
da Il Sole-24 Ore che rivendica, più di quanto aspira - come
dichiara - di praticare, ma certo non vi riesce.
Comunque questa "Trasparenza" per quanto mi riguarda (ed
il testo è dovuto al professore Piero Bairati, oggi defunto
e perciò al di sopra di ogni polemica e contestazione) così
parla di me: "Il 30 aprile 1962 succedette Gennaro Pistolese,
funzionario della Confindustria [a Bairati è piaciuta la definizione
che di me dette Ottone, ma non me lo ha mai detto]. Anche il nuovo
direttore presentava un curriculum giornalistico con qualche traccia
di regime: si può ricordare la sua descrizione della nuova
Libia fascista, pubblicata nel 1938 dalla rivista 'L'Economia Fascista'
(povero Bairati, ma perché si è sbagliato tanto? Perché
non gli hanno detto che l'Economia Fascista' non esisteva nel 1938
e che di Pistolese si poteva invece trovare traccia reale nelle note
di De Felice relative al libro "L'economia dell'Impero"
del 1937?).
Comunque di Pistolese, del Pistolese direttore, scrive: "In prima
pagina appare un corsivo, solitamente di una colonna. in terza un
fondo breve, affidato ai collaboratori. Compaiono alcune rubriche
nuove, fra cui 'Specola', la rubrica in cui vennero lanciate le polemiche
più dure contro gli altri giornali, particolarmente l'Unitá
ed il Giorno (il giornale metanifero). Passato a 12 pagine, il giornale
assume una ripartizione sistematica. In prima pagina l'attualità
politica ed economica 'Meridiano di Roma', la seconda pagina è
dedicata alla segnalazione degli avvenimenti interni, all'economia
di Milano e provincia. La terza è dedicata ai problemi sindacali,
alle inchieste ed alle lettere al direttore. La quarta è destinata
alle notizie sui mercati italiani. La quinta è occupata dai
servizi speciali. Seguono le rubriche normative, la gazzetta ufficiale,
le scadenze, i fallimenti, i cambi. Due pagine erano dedicate ai mercati
finanziari italiani e stranieri; una pagina per la politica e l'economia
internazionale". Ma che avevo detto prima e che volevo di diverso
che avrebbe potuto verificarsi e non si è verificato, solo
perché io desideravo che non avvenisse? Bairati, nel fare il
"notaio" di quanto doveva constatare, lo ha fatto, sia pure
a modo suo, ma io da parte mia non ho nulla da aggiungere.
Bairati però fa seguire a quanto sopra: "il cambiamento
di direzione", la mia cioè, "che sanciva a tutti
gli effetti una correzione di linea politica già avvertibile
negli ultimi mesi".
Ma anche questa constatazione mi sta bene, perché non è
mai esistito (a parte le pretese di qualche storico e fra essi devo
comprendere anche il prof. Bairati, statico nella sua pregiudizialità
di parte) un giornalismo che potesse commentare il nuovo o il sopravvenuto
come se nel frattempo nulla fosse successo o potesse accadere.
L'invocazione
della trasparenza
Il fatto invece è che pur nei miei limitati tre anni e mezzo
di direzione del giornale le cose erano cambiate e stavano ancora
cambiando. E diciamoci pure una cosa: con il prof. Bairati o senza,
i giornalisti si avvedono delle cose che stanno accadendo o sono minacciate
all'orizzonte prima degli storici, abituati a parlarne sempre dopo.
E per loro certo è più facile commentare l'avvenuto,
possibilmente anche da tempo, piuttosto che registrare l'immediato
e addirittura prepararlo.
Intanto cercavo di aggiustare al meglio la condizione e l'operatività
del giornale. Mi è occorso di inventare quella Guida Normativa
che oggi ètestata giornalistica, ma che a me piaceva dovesse
essere solo rubrica sia pure a libretto, da me immaginato a Milano
30 anni fa (le testate giornalistiche dovrebbero, secondo me, avere
ben altre pretese di denominazione); di inventare ancora "Il
triangolo industriale" ed allora questo triangolo ancora esisteva;
di pensare al "Il Sole d'Oro" per la concorrenza fra le
vetrine commerciali di Milano, e così via.
C'era allora da pensare ad un commercio che cresceva, ad una Fiera
di Milano che allargava e doveva allargare il proprio respiro; ma
c'era pure un giornale milanese, nazionale perché milanese,
che doveva dire la sua. Dire la sua! Ed io come giornalista non credo
di doverne ricavare riconoscimenti, ma solo doveri che ho cercato,
dico cercato, di aver assolto.
Si realizzava quello che volevo e che i lettori sostanzialmente apprezzarono,
sia bloccando la precedente flessione di abbonamenti, sia consentendomi
di aumentare di alcune centinaia di copie - non dico naturalmente
migliaia, come oggi invece avviene - la vendita.
Il giornale era totalmente privo di una struttura amministrativa.
Aveva un consigliere delegato, ma questi era lo stesso - pendolare
- anche per 24 Ore e per Il Globo di Roma. Aveva un direttore amministrativo,
che pur encomiabile per il suo passato di dirigente di organizzazioni
industriali, della pesca se non erro, non risultò mai essere
mirato in questo campo e tanto meno programmato. Aveva un responsabile
dell'attività promozionale; ma questi perseguiva più
sogni che non precisi obiettivi. Per contro disponevo di un rapporto
pubblicitario quanto mai valido con una società diretta da
Oscar Maestro, uno dei leaders insuperati della pubblicità,
che condividendo i miei programmi e sforzi mi ha consentito di animare
il più possibile il giornale. Un giornale che aveva solo 18
redattori, che tutti vanno da me ricordati e ringraziati per quanto
con me hanno fatto. Il lavoro di gruppo esisteva anche allora.
Varie sono le cose che debbo ricordare di quegli anni.
Ma fra questi ricordi debbo inserire anche qualche nome certamente
più che rappresentativo nella storia economica di questo secolo.
Debbo parlare dell'allora centenario senatore Ginori Conti: uno dei
fondatori dell'industria italiana, anzi anticipatore di essa. Fui
accompagnato da lui da un suo strettissimo discendente, cioè
dal mio già redattore finanziario, Maranghi, che poco dopo
aveva lasciato - come ho detto - il giornale per iniziare il suo stage
con Cuccia.
L'incontro con Ginori Conti, che fra l'altro aveva scritto un libro
di ricordi non più in commercio e di cui lui aveva solo una
copia che mi dette in lettura con la fiducia soddisfatta di averlo
restituito, durò alcune ore e mi fece rivivere non solo la
storia di vari decenni, ma anche la personificazione ad altissimo
livello che questa storia ha reso possibile, anzi creata. Sulle origini
dell'industria si è scritto tanto, sul suo divenire nel pro
e nel contro si sa tanto, grandi realizzazioni e conquiste si sono
in ogni momento alternati anche con situazioni di crisi morali oltre
che economiche.
Si sono avute opere grandiose e squallidi arretramenti, ma in tutto
ciò molto spesso l'uomo protagonista è stato tenuto
in ombra. Si parla oggi delle poche grandi famiglie, dei loro superstiti
meritevoli o immeritevoli, delle loro vicende spesso al tramonto talvolta
invece aperte ad una nuova aurora. Ma è all'analisi degli uomini
che dobbiamo rifarci, e fra questi certamente va posto anche Ginori
Conti, che ha avuto la ventura prima di vivere delle grandi realizzazioni
compiute e poi dei ricordi che esse hanno provocato non solo in lui,
ma anche in molti altri: con una storia comunque sempre, in conclusione,
avara.
Un altro personaggio è il grande Mattioli. Una personalità
che anche fisicamente non si dimentica: per la sua semplicità,
per il suo sorriso, per la sua cordialità armata dell'espressione
di un pensiero, che ti diceva subito qualcosa. Gli andavo a chiedere
un articolo per il numero che celebrava il centenario del giornale.
Ma lui mi disse che in campo economico era sopravvenuto più
il momento delle cifre da rilevare e ricordare che non quello delle
parole. E questa per me è stata sempre una convinzione, tant'è
che dal confronto fra queste sue idee e le mie nasceva quell'appendice
congiunturale in cifre che io ho poi curato per "4 Soldi",
in conseguenza di una non diversa convinzione di un mio grande amico,
l'editore Gianni Mazzocchi della gloriosa Domus: un editore sempre
innanzi di decenni.
A tu per tu
con cent'anni
Appunto, alcuni mesi prima che il centenario del giornale si compisse,
nei propositi della Confindustria, e particolarmente del suo presidente
Furio Cicogna, si fece strada il proposito di procedere alla fusione
dei due giornali economici milanesi e cioè Il Sole e 24 Ore
e di porre allo studio la sorte de Il Globo di Roma, che ad un certo
punto, ceduto dalla Confindustria, proseguì le sue pubblicazioni
per qualche tempo sotto altro editore.
Per attuare la fusione si attese che il giornale potesse celebrare
il suo centenario. E ciò avvenne con una serie di numeri speciali,
arricchiti da mille colonne di pubblicità - un primato tuttora
insuperato -, che con firme di alto prestigio tracciavano la storia
economica di un secolo, e con un libro che a cura della pubblicitaria
concessionaria SPE fu all'uopo stampato per favorirne raccolta e lettura.
Una grande manifestazione celebrativa fu compiuta, con il patrocinio
del Presidente della Repubblica ed alla presenza del Rappresentante
del Governo, l'on. Salizzoni, Sottosegretario alla Presidenza, e con
un articolato discorso del Presidente della Confindustria Cicogna
che raccogliendo un mio termine disse che la manifestazione non era
una manifestazione vagamente celebrativa, ma un battesimo. Il battesimo
appunto de Il Sole-24 Ore. della cui fusione mi è occorso di
essere per le mie funzioni anche in Confindustria un elemento coordinatore.
Naturalmente su tutto ciò tanto dovrebbe essere detto, a cominciare
dalle spinte che condussero al tipo di soluzione e definizione adottato,
ma ciò va oltre il mio modello di ricordi fin qui seguito.
D'altra parte a me non piacciono quelle ricostruzioni, come la ricordata
"Trasparenza difficile" che pur dichiarando lo scrupolo
di un'estrema documentazione, è viziata tuttavia nella parte
che conosco e che si riferisce a Il Sole da una spiccata tendenziosità
e pregiudizialità dalle quali non esulano convinzioni politiche
ed ideologiche. Ma di questo ho già parlato.
Una tappa del
giornalismo economico
Con questi cento anni de Il Sole è una tappa del giornalismo
economico italiano che si è conclusa.
I vari rivoli costituiti dai quotidiani economici si unificavano,
perché lo stesso Il Globo poco dopo cessava le pubblicazioni,
per riprenderle più tardi sotto altra denominazione. Quotidiani
economici molto minori sopravvivevano tuttavia, pur sempre in misura
limitata e spesso estremamente difficile, per non dire in qualche
caso stentata. E parlo qui de Il Fiorino, di Ore 12, entrambi di Roma.
A questi organi di stampa, altri non quotidiani se ne affiancavano.
Erano agenzie giornalistiche, riviste mensili, periodici di categorie
e così via.
Qualcuno ne cerò il coordinamento o collegamento attraverso
il Centro di documentazione economica dei giornalisti, che ebbe come
promotori principali un collega e qualche dirigente di relazioni pubbliche
di imprese industriali: in particolare petrolifere. Più che
documentarsi, molti aderenti al Centro preferivano manifestare una
loro forma di interventismo e così è cominciata la storia
di quell'entifilia, che incontra spesso difficoltà nel nascere,
ma non certo nella sopravvivenza.
Oggi il giornalismo economico, e solo da qualche decennio, è
notevolmente mutato, ed anche in questo scorcio di secolo sta subendo
un'accelerazione che non solo ci ha distanziato molto da quanto è
stato fatto nel corso pure degli anni '60, ma rende pure momenti di
transizione quelli che stiamo attraversando. Difatti bisogna parlare
di giornalismo economico come domani e così prepararlo a volerlo.
Gli spazi della creatività nuova sono tutti aperti, nell'alternanza
generazionale e fasi civili, di tecnologie, di modi di essere della
socialità, e per essa oggi si usano anche termini nuovi, del
capitalismo, della produzione e così via.
Non si tratta solo di nuovi principi e di nuovi valori, ma anche di
nuove loro espressioni formalmente e materialmente anche giornalistiche.
Quest'ultimo comunque un dovere di partecipazione, anche di anticipazione,
in più per i giornalisti.
La filia del
carabiniere
Ma in questa fase confindustriale che è stata gran parte pure
della mia attività e vocazione professionale, c'è anche
da ricordare quello che è stato il modo di essere politico
degli imprenditori industriali. Del periodo prefascista e fascista
la storiografia è ricca non solo di interpretazioni, ma anche
di documentazione. Dei momenti successivi, qualche ulteriore dettaglio,
forse, potrà essere utile.
Riguardo al periodo badogliano riferito ai 45 giorni, la struttura
tenne, con un commissariamento governativo, al pari di quanto si era
verificato in tutti gli apparati istituzionali. I quadri industriali,
sia di categoria che burocratici, non si distinguevano certo per fervore
di regime. Presidente della Confederazione era stato sino al 25 luglio
Giovanni Balella, immediatamente prima Direttore Generale e negli
stessi anni Venti dirigente dell'Organizzazione in materia sindacale.
Il 25 luglio infine si era schierato fra i firmatari dell'ordine del
giorno Grandi al Gran Consiglio, come detto in precedenza.
L'occupazione tedesca comportò invece dei mutamenti, perché
ufficialmente le organizzazioni vennero trasferite nel Nord e a Roma
rimasero non solo chi non ritenne di aderire alla Repubblica Sociale,
ma anche un piccolo manipolo di funzionari che ufficialmente manteneva
i rapporti con il Nord e con gli occupanti, ma di fatto si preparava
e combatteva per il domani.
Questo manipolo risiedeva nelle sedi consuete, in gran parte a Piazza
Venezia e nei suoi dintorni. Anch'io frequentavo questi uffici, non
solo per i necessari contatti, ma anche per esigere il residuo della
mia liquidazione. Su tutto sovrastava, più o meno esplicita
o mimetizzata, l'opera del vice segretario generale, G.B. Codina,
che fra l'altro anche perché amico del suo conterraneo Emilio
Lussi nell'intrattenersi con me si compiaceva di dirmi che i membri
del Comitato di Liberazione si stavano riunendo nella stanza accanto,
da lui messa a disposizione, senza alcuna enfasi. Ma di questo Codina
quanto mai accorto nel filtraggio di comprensione di fatti e prospettive
ho già detto.
Poi sopravvenne la liberazione di Roma. La sede di Piazza Venezia
fu occupata dagli americani, che vi trasferirono gli uffici di comando
del colonnello Poletti. E la Confindustria si trasferì, come
ho detto prima, a Palazzo Altieri in via del Plebiscito. Gli industriali
romani si dettero un capo nella persona dell'ing. Friggerio e la struttura
burocratica cominciò gradatamente a ricostruirsi, avendo a
riferimento gli ex vice segretari generali, appunto Codina per la
parte generale ed organizzativa, Toscani per le relazioni sindacali,
e Morelli, già funzionario, per le questioni economiche.
La struttura romana per divenire nazionale attendeva la liberazione
del Nord, il quale recò il suo "vento" anche nell'industria
italiana, con la nomina a Presidente del genovese Angelo Costa.
Nella triade del direttivo burocratico della Confindustria, avendo
ritenuto gli altri due partners che il prescelto per la qualifica
di segretario generale dovesse essere il più giovane, fu nominato
appunto Morelli, che si era distinto anche quale membro della Delegazione
tecnica italiana negli USA. E così cominciò la caratterizzazione
politica della Confederazione, all'insegna di Angelo Costa, che affidò
tutte le sue estrinsecazioni e tutti i comportamenti dell'Organizzazione
alla professione di principi e valori liberali, aperti alla solidarietà
sociale ed al confronto costruttivo con i lavoratori e i loro sindacati.
Tutto ciò si svolgeva alla luce del sole, con le comprensioni
che suscitava ed anche con le contrapposizioni che comportava.
Nella seconda metà degli anni '50 interveniva il cambio della
guardia e la mano passava al presidente dell'Assolombarda, Alighiero
de' Micheli, un industriale tessile, che anche in relazione al mutare
dei tempi si rese promotore di una presenza nel Paese a carattere
più spiccatamente politico, con l'iniziativa fra l'altro della
"Confintesa", centro di collegamento fra le varie organizzazioni
imprenditoriali. L'esperienza, invero, non fu molto felice, perché
pur cercando un'unitarietà che in effetti esisteva in linea
di principio risultò più che altro dispersiva, a riscontri
molto flebili.
Comunque, pure quest'esperienza confermava la necessità per
la Confindustria di essere presente ed attiva anche in campo politico,
naturalmente con gli adeguamenti che i vari momenti comportavano e
comportano.
D'altronde tale esigenza si è sempre manifestata nel corso
del tempo e si rivela anche oggi, avendo fra l'altro a motori, non
da oggi, gli imprenditori minori e i giovani imprenditori. E degli
uni e degli altri io ho sempre pensato e l'ho scritto anche prima
che il loro problema essenziale era quello di crescere.
Ma io di questa Confindustria, di ieri e di oggi, ho sempre pensato
che ha sempre avuto ed ha la "filia del carabiniere" inteso
il carabiniere non già come espressione di un momento del potere,
ma come garante di un sistema democratico di libertà. Garante
cioè di quel contesto istituzionale indispensabile al vivere
civile ed allo svolgimento dell'attività produttiva.
Ma ad un certo momento alla Confintesa fu posto il silenziatore, e
nacque quel Centro Informazioni Sociali, sempre nella sede di via
Condotti, il CIS, che ha svolto funzioni di prosecuzione del dialogo
fra le organizzazioni imprenditoriali, con limitate iniziative esterne,
ma ad indicazione della volontà di risvegliare questo tipo
di discorso.
E ciò avveniva sul finire del primo semestre del primo triennio
degli anni Sessanta, con la promozione del cosiddetto "Noto Programma"
da parte del sopravvenuto Presidente della Confindustria, Furio Cicogna,
anch'egli immediatamente prima presidente dell'Assolombarda. C'era
stato e c'era il centro-sinistra, c'era stata la sterzata statalista,
c'era la nazionalizzazione dell'energia elettrica, c'era soprattutto
il clima di contenimento e contestazione dell'iniziativa privata;
altrettanti fattori che comportavano un dovere di confronto e di netto
dibattito da parte imprenditoriale.
E questa è stata tutta materia che ha avuto a che fare con
i miei compiti di direttore di un quotidiano economico, ma anche con
un particolare compito che mi veniva affidato e di cui dirò
nella mia successiva notazione.
(7 - continua)
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