Per
comprendere quel che sta accadendo in Europa e nel mondo non è
inutile ricordare che cosa fu la rivolta della Vandea, duecento anni
fa, e come nacque la tremenda guerra delle periferie contro la Rivoluzione
Francese. "Un lugubre malinteso": così Victor Hugo
chiama l'insurrezione, nel celebre romanzo Novantatré: "Lunga
resistenza incaponita e superba, guerra dell'oceano contro la terra,
dello spirito locale contro lo spirito centrale.
Tumulto colossale, sordità terribile". In altri termini:
eccidio smisurato, ma anche smisurato suicidio di una popolazione. Parricidio,
e al tempo stesso rivoluzione che, come Saturno, divora i suoi stessi
figli.
Sensibilità spinta fino all'estremo, e al tempo stesso incapacità
di usare i sensi, per guardarsi a vicenda. Lugubre malinteso, per davvero.
Gli inglesi non soccorreranno la Vandea, come gli insorti avevano sempre
sperato, lo sguardo fisso sul mare di Quiberon e di Granville. i rivoluzionari
che volevano sollevare l'umanità non vedranno gli uomini che
la compongono.
I parlamentari giacobini che decretano la distruzione della Vandea il
primo agosto 1793 non conoscono quel che vogliono distruggere e su cui
fantasticano del tutto astrattamente. Sanno soltanto che vogliono annientare
la più irriducibile delle periferie, e l'idea stessa di una periferia
della rivoluzione. Sanno solo che esistono periferie opache, non attraversate
dalla luce rivoluzionaria, e precisamente questa opacità hanno
in odio.
"Inesplicabile Vandea": in questo modo il parlamentare Barère
chiarisce alla Convenzione il piano di sterminio, e la Vandea sarà
sterminata appunto perché inesplicabile. Le truppe blu piegheranno
l'esercito bianco, nell'ottobre 1793, Parigi vince la guerra e tuttavia
proprio allora incomincerà il vero sterminio: nell'inverno del
1793-'94, le "colonne infernali" di Turreau uccideranno con
accanimento speciale decine di migliaia di uomini, non importa se repubblicani
o antirivoluzionari, purché la Vandea scompaia, sia "rigenerata",
e diventi nome maledetto. Lo diverrà: ancora oggi evoca la controrivoluzione,
l'anti-progresso, la reazione più cupa. "Nome illustre e
nero, la Vandea", scrive Hugo.
Sono rasi al suolo i villaggi, sono uccise soprattutto le donne incinte
nell'eccidio, perché la stirpe vandeana non si prolunghi. Il
suolo stesso è dichiarato infame: "Trasformeremo la Vandea
in un deserto e la chiameremo Vengée: Vendicata". L'ordine
della Convenzione sarà eseguito alla lettera, con furore, con
livore, e la guerra sfocia in pulizia etnica. Babeuf, dopo la caduta
di Robespierre, denuncerà il "popolocidio". Ricordare
la Vandea serve forse a capire quando la periferia diventa opaca al
centro, e il centro incomprensibile alle periferie. Serve a capire il
lugubre malinteso della guerra in Bosnia, l'ossessione del sangue puro
che comina così ineluttabilmente le rivoluzioni guerriere, e
anche i segnali che giungono da periferie vessate, disilluse, ingannate.
Tutto l'anno della Vandea è lugubre. E' epoca delle sensibilità
scatenate, come osserveranno in seguito gli storici Taine e Michelet.
Sono trascorsi quattro anni dalla presa della Bastiglia e la rivoluzione
è sempre quella, come se il tempo non fosse mai passato: è
volontà di potenza e di distruzione allo stato puro. E' energia
fine a se stessa, come nelle prime ore, e permanente stato di agitazione,
suscettibilità estrema ed estrema spietatezza: due sentimenti
che molto spesso vanno bene insieme. "La sensibilità diventa
preziosa come a suo tempo furono preziose le virtù. I nervi hanno
quasi preso il posto del cuore", aveva detto Barnave, ghigliottinato
nel '93, sui benefici dello spirito rivoluzionario. Nel '93 è
ancora così: ogni minuto la rivoluzione perde i nervi e ricomincia
daccapo.
Non che manchino le minacce: gli inglesi preparano davvero la controffensiva,
e ormai si moltiplicano anche le ostilità interne, in quasi tutte
le città portuali, e a Lione, e in Bretagna, oltre che in Vandea.
Ma la malattia mortale non è nelle periferie: non è nel
l'auto nomismo girondino di Bordeaux, di Tolone, di Marsiglia; non è
nella rivolta filo-monarchica di Lione e neppure nella solidarietà
disperata della Vandea contadina con i suoi campanili e con i suoi preti
refrattari. La malattia mortale è nel centro, è nella
rivoluzione stessa, che non riesce a venir fuori dallo stadio dell'agitazione
e a divenire esperienza, e dunque attitudine a governare. Che quasi
compulsivamente ripete i gesti dell'inizio: i gesti inaugurali della
volontà assoluta. Lo stesso giorno in cui la Convenzione decreta
il massacro in Vandea, Danton sale alla tribuna e azzarda quasi un'autocritica:
"E' necessario un governo", invoca. Il fatto è che
la Vandea ha colto di sorpresa gli intellettuali della rivoluzione,
perché gli intellettuali hanno dimenticato che il Paese andava
guardato, e poi governato.
Le periferie in origine non sono periferiche. Lo diventano perché
il centro continua a chiamarle, e a trattarle come tali. Lo diventano
quando il centro, nella sua potenza-impotenza, diventa "inesplicabile".
Questo è successo nell'insurrezione della Vandea. Nell'89, la
regione non è contro la rivoluzione. Nelle lettere di protesta
inviate agli Stati Generali (i celebri cabiers des doléances),
i contadini della Vandea si lamentano dei privilegi concessi ai feudatari
e in seguito festeggiano l'abolizione dei diritti feudali. E' piuttosto
l'organizzazione del Nuovo che man mano li spaventa, è l'anticristianesimo
radicale che crea sacerdoti, e i contadini refrattari.
Non c'è stata insurrezione quando il re è finito sulla
ghigliottina, non c'è stata neppure quando i giacobini hanno
imposto al clero la sottomissione al potere civile. La rivolta è
diventata armata quando Parigi ha deciso di arruolare trecentomila uomini
per l'esercito, reclutandoli soprattutto nelle zone contadine: proprio
come accadeva nel vecchio regime, che era indifferente e persino sprezzante
nei confronti delle classi rurali. E' a questo punto che i contadini,
protetti come sono sempre stati dai propri sacerdoti, si rivolgono ai
nobili per chiedere armi e capi militari.
La Vandea è anche rivolta contro una borghesia che si comporta
allo stesso modo della vecchia nobiltà, e con ogni probabilità
più sprezzantemente ancora. Che confisca i beni degli emigrati
politici non per distribuirli ai Municipi, ma per arricchire l'amministrazione
parigina, prepotente da oltre un secolo. La Vandea è reazione
violenta a Una rivoluzione che secondo Tocqueville è già
avvenuta ben prima del 1789: che già prima "ha calpestato
le libertà locali", "ha divorato le province",
ha premiato "l'assenteismo del cuore" di chi governava le
campagne e le periferie. La Bretagna, la Vandea, la Linguadoca erano
regioni che facevano eccezione, dove ancora esisteva un equilibrio fra
popolo, borghesia, nobiltà e clero. Non è per il Vecchio
Regime che si combatte in Vandea, ma per la Vecchia Società,
per proteggerne fino in fondo i suoi delicati equilibri.
Nella rivolta dello spirito locale, i rivoluzionari hanno visto una
guerra di retrogradi. Anche Michelet e Victor Hugo parlano di barbarie
contro rivoluzione, di barbarie contro civilizzazione. I paesaggi stessi
della Vandea fanno venire in mente idee simili: il dedalo di siepi che
circonda i campi di stoppie, le boscaglie dietro le quali si immagina
un popolo provinciale, chiuso, abbarbicato ai propri campanili, alle
proprie radici.
"Il bosco è il contrario della rnontagna. Il bosco è
barbaro, è imboscata", scrive Victor Hugo, per cui l'intera
Vandea è "sorda provocazione della natura". Ma si dimentica
presto che la Vandea è anche quella società fondata sii
tiri forte equilibrio sociale. Che è anche attrazione infinita
per il mare, e il mare non è mai provinciale, è sempre
scoperta dell'altro, è soprattutto commercio e avventura. il
mare è l'Inghilterra commerciale e marittima, e non a caso tutte
le periferie girondine cercheranno il contatto con le navi britanniche,
da Tolone a Marsiglia e a Bordeaux. Victor Hugo lo lascia chiaramente
capire. I guerriglieri sono "oscuri ascoltatori del mare".
La Bretagna è atlantica, e lo è da sempre: "Fermati!
gridava l'oceano alla terra, e la barbarie alla civiltà".
Alla fine del romanzo Gavain, giacobino pentito, si accorge della grandezza
del mare: "Cos'è l'Oceano? Un'enorme forza perduta. Com'è
stupida la terra, a non impiegare l'Oceano!". I veri terragni,
i continentali, erano Piuttosto a Parigi, dentro la Montagna della rivoluzione.
E' quest'ultima che ha l'ossessione del sangue impuro, e che comporrà
su tale ossessione l'inno della Marsigliese. Maria Antonietta fu sempre
chiamata con disprezzo "l'austriaca", e la monarchia era odiata
anche per le sue genealogie cosmopolite, sparse in tutta Europa. Nata
per servire l'umanità, la rivoluzione rattrappirà negli
anni sanguigni dei Terrore. Anche gli ebrei, emancipati grazie alla
presa della Bastiglia, finiranno con l'aderire alle rivolte girondine
del Sud e dell'Est. La rivoluzione promette la fraternità, oltre
all'eguaglianza e alla libertà, ma la fraternità diventa
prestissimo una gabbia: una famiglia chiusa, che non esce di casa. I
giacobini coltivavano tutti i segni familiari: il bacio della fraternità,
il tu dato a tutti. Anche in questo la loro sensibilità era estrema:
"In un popolo libero non ci possono essere persone neutrali. Non
ci sono che fratelli, o nemici`. Neppure l'amicizia è del tutto
innocente, in rivoluzione.
La rivoluzione comincia col proclamare la liberazione del genere umano,
per poi sognare fusioni totali ed esclusive d'ogni dissidenza. Dovremmo
pensarci, ogni volta che ascoltiamo l'Inno della Gioia di Beethoven
che fu scritto negli anni di Robespierre e che oggi è l'inno
dell'Europa, della Comunità Europea. Dovremmo pensare a che cosa
portò tutta quella grande sensibilità affettiva e fraterna
e a che cosa portarono tutti quegli anni, duecento anni fa. Portò
alla formula centrale dei giacobini: Fraternité ou la mort, Fraternità
o la morte.
Vandea, sinonimo di controrivoluzione per i giacobini d'ogni tempo.
Nella realtà, una tragedia che costò la vita a non meno
di centomila insorti nella regione più cattolica della Francia.
Qualche storico arriva a contare duecentocinquanta mila morti, su una
popolazione di 815 mila persone.
Tutto cominciò il 23 febbraio 1793, con la dichiarazione di guerra
della Convenzione all'Inghilterra e con la richiesta di arruolamenti
forzati che avrebbero impoverito demograficamente alcune regioni francesi,
e la Vandea in modo particolare. I vandeani non vollero starci. Fra
marzo e giugno dilagò la rivolta. Dopo qualche successo dell'esercito
"bianco", incominciò la terribile riscossa dell'esercito
`blu", l'esercito dei rivoluzionari. La Convenzione inviò
un'armata di centomila uomini. in novembre, a Nantes, i primi annegamenti
di massa: vittime, novanta sacerdoti.
A dicembre i vandeani subiscono due disfatte: una a Le Mans, e un'altra
a Savenay. L'insurrezione riprende nel 1794 e si infiamma l'anno successivo,
dopo il massacro di Quiberon. Soltanto nel 1796, restituendo alla Vandea
la libertà di culto, il generale Hoche riuscì a pacificare
quasi del tutto la regione.
Proiettiamoci nel futuro: ai nostri giorni. E' una Vandea contemporanea
la rivolta degli Zulu? Lo èquella del Sudan meridionale, dove
i cristiani vengono massacrati dai musulmani delle tribù stanziate
a nord del Paese? La Bosnia è una Vandea bifronte, nel senso
che nel passato i musulmani massacrarono i cristiani, mentre oggi accade
esattamente il contrari& Quante sono le "Patrie con focolare",
e quante quel focolare non ce l'hanno, lo vorrebbero, e creano il conflitto
fra identità e nazionalità?
I documenti parlano chiaro e lo ha sostenuto anche il segretario delle
Nazioni Unite. Alla domanda: "Che ne sarà dei micronazionalismi?"
non ha avuto esitazione a rispondere secondo gli accordi internazionali:
le regole sono quelle del riconoscimento, ma attenzione, deve essere
posto un limite anche a questo. Saranno privilegiati -gruppi ed etnie
che in accordo troveranno soluzioni meno frammentate e dispersive. Rispetto
delle identità, delle culture, delle credenze religiose, ma in
armonia con l'assetto istituzionale all'interno degli Stati che li comprendono.
Ma i piccoli potenziali Stati (le piccole Vandee, come qualcuno ha scritto)
che ne pensano e che cosa fanno mentre al tavolo delle trattative siedono
soltanto i giganti della politica internazionale?
Esiste nel mondo un'organizzazione che sostiene le loro battaglie per
i diritti umani, per l'autodeterminazione e per l'indipendenza: è
l'Organizzazione delle nazioni e dei popoli non rappresentati. La sigla:
Unpo.
"Noi tutti abbiamo i nostri sogni", sostiene Erkin Alptekin,
un Uighur del Turkestan orientale. "Se soltanto potessimo dividere
lo stesso cuscino, potremmo realizzarli insieme".
Si sono riuniti popoli oppressi, perseguitati, colonizzati, negletti,
ciascuno con il proprio portabandiera. Provengono dai cinque continenti
e sembrano esattamente un tavolo delle Nazioni Unite in miniatura: vi
prendono parte trentanove membri in rappresentanza di 139 milioni di
persone. Tra di loro ci sono soprattutto esuli, diplomatici, non graditi
negli enti internazionali dove a stento si parla di loro.
"Nel mondo ci sono all'incirca cinquemila differenti popolazioni",
dice Michael Walt, attuale segretario generale dell'Unpo. "Ma sono
riconosciuti meno di duecento Stati. Molti gruppi vorrebbero soltanto
i diritti umani fondamentali e la tutela della loro identità
culturale e religiosa. Una cinquantina fra essi ha però la legittimità
storica e politica per formare a tutti gli effetti nuovi Stati indipendenti".
Su un punto sono tutti d'accordo: l'utodeterminazione. E la storia dell'ex
Unione Sovietica e dell'ex Jugoslavia ha alimentato le loro aspettative.
I Kurdi in Iraq e nei Paesi confinanti, soprattutto in Turchia; gli
Ogoni in Nigeria; i Nagi in India; i Fresi in Olanda; gli Shan in Burma;
i Mapuchi nel Cile e nell'Argentina. Tutti ritengono che sia venuta
l'ora di alzare la testa. Tutti si sentono i vandeani del XX secolo.
L'organizzazione nasce dallo strano incontro fra un tibetano, un estone
e un olandese.
Durante una visita in Unione Sovietica, nel 1989, Lodi Gyari, ministro
degli Esteri del governo tibetano in esilio, incontrò un buddista
come lui, un professore di storia dell'Estremo Oriente, Linnart Mall,
allora vicepresidente del partito nazionale estone per l'indipendenza.
I due decisero di fondare l'organizzazione, chiamando con loro un terzo
esponente della lotta per l'autonomia, vari Walt, appunto, un avvocato
e consigliere del Dalai Lama che rappresentava il Tibet di fronte alla
Commissione per i diritti dell'uomo delle Nazioni Unite.
In comune, avevano la difficoltà di sottoporre i loro casi all'attenzione
pubblica internazionale, all'Onu, agli Stati membri e alle associazioni
non governative che vi facevano parte. Nei due anni di attività,
l'Unpo ha guadagnato l'indipendenza per alcuni dei suoi soci fondatori:
l'Estonia, la Lituania, la Lettonia, la Georgia e l'Armenia; mentre
altre regioni (Ucraina, ecc.) l'hanno ottenuta, federandosi poi fra
di loro. Ora, alcuni di questi nuovi o rinnovati Stati sono alle prese
con le loro minoranze interne. Già l'Estonia è stata anche
duramente criticata per aver negato la cittadinanza ad alcuni abitanti
russi.
L'Organizzazione ha organizzato diverse missioni di monitoraggio in
Abkhazia, nel Kosovo, in Kurdistan, nel Tatarstan, in Cecenia, per mediare
i conflitti interni, per controllare la regolarità delle elezioni
e per tener desta l'attenzione della comunità internazionale
sugli abusi di potere.
Il suo fine è anche quello di fornire servizi: le tecniche diplomatiche
per risolvere i conflitti e gli strumenti per le relazioni con i media,
soprattutto quelli ostili o indifferenti alle battaglie portate avanti
dai piccoli gruppi. La lamentela più volte sollevata è
per i trasferimenti delle popolazioni come arma micidiale contro l'autodeterminazione.
La popolazione dei Chittagong, Hill Tracs del Bangladesh, è stata
costretta in accampamenti per cedere il posto agli insediamenti Bengali.
I Tatari, i quali hanno chiesto soltanto il riconoscimento dei diritti
umani, sono stati trasferiti con la forza dalle coste del Mar Nero,
dove vivevano ai tempi di Stalin, alle zone orientali asiatiche. Oggi
stanno tentando di tornare indietro, costruendo case e moschee che poi
sono sistematicamente rase al suolo dagli Ucraini e dai Russi residenti.
Trenta popoli nuovi hanno fatto domanda di diventare membri dell'Unpo.
Debbono però dimostrare di essere rappresentativi: due comunità
separatiste del Giura svizzero non sono state accettate perché
il loro gruppo ha soltanto cinquanta membri.
La popolarità improvvisa dell'Organizzazione potrebbe avere crisi
di crescita: lo riconoscono anche i fondatori. Il personale è
composto, in gran parte, da volontari, i fondi provengono dall'America
e da fondazioni europee, insieme ad una quota di mille dollari l'anno
per ogni membro. Per la gran parte, però, sopravvive sulla propria
"determinazione". Indiani d'America, popoli del Khalistan
o della Scania, che importa dove sono e contro chi lottano, se non si
sa nulla di loro? Allora è necessario capovolgere l'immagine
vandeana: non di lugubrità deve più trattarsi, ma di una
politica e di una diplomazia alla luce del sole, con impegni propositivi,
in un concerto internazionale.
Appunto: i popoli non riconosciuti come Stati sono migliaia. E il problema,
nel nuovo secolo-millennio, è orchestrarli.
VANDEUROPA
Se per puro miracolo tornassero in vita i genitori della Comunità
Economica Europea, Alcide De Gasperi, Robert Schumann e Konrad Adenauer,
che direbbero dello stato di conflittualità interna e di autentica
schizofrenia nel quale versa il Dodecagono di Bruxelles?
Il loro giudizio sarebbe non sappiamo se più duro o più
amaro. E' vero che dall'Europa dei Sei si è passati all'Europa
dei Dodici. E' altrettanto vero che con l'ingresso della Gran Bretagna
nella Cee, voluto dal coraggioso e tenace Edward Heath, il più
"europeo'' dei capi di governo inglesi del dopoguerra, si è
completata l'opera avviata dai tre Padri della Comunità. Purtroppo
Heath non poteva prevedere che dopo due primi ministri, entrambi laburisti
Piuttosto tiepidi verso l'Europa unita, Wilson e Callaghan, ne sarebbe
arrivato al numero 10 di Downing Street un terzo, conservatore come
lui, ma di ben diverso orientamento, la signora (oggi Lady) Thatcher,
decisa ad anteporre in ogni senso la "relazione particolare"
fra Stati Uniti e Gran Bretagna al vincolo continentale europeo ed
allo sviluppo di esso -sancito dal controverso Trattato di Maastricht
- in una vera e propria unione politica, economica e monetaria entro
la fine di questo secolo epilettico.
La Thatcher non ha mai creduto in quel vincolo. Ha agito con proterva
ostinazione nei suoi circa dodici anni di governo per evitare qualsiasi
forma di integrazione che avesse lo scopo di creare gradualmente quella
entità federale che De Gasperi, Schumann e Adenauer avevano
sognato.
Oggi l'Europa è a pezzi, indipendentemente dai grandi rischi
all'orizzonte. E ben pochi, in campo degli "europeisti"
e in quello degli "euroscettici", osano ricordare l'amara
profezia di Charles De Gaulle, il quale era convinto che aprire le
porte della Comunità integrata o integranda all'Inghilterra
significava in realtà aprirle al "cavallo di Troia degli
americani".
Fino a che punto aveva ragione De Gaulle? I fatti parlano chiaro.
Ancora oggi l'intramontabile Lady Thatcher (con tutti i suoi seguaci
nei due rami del Parlamento) si schiera con gli Stati Uniti non soltanto
di fronte alla tragedia della Bosnia - che l'Europa dei Dodici ha
purtroppo affrontato in ordine sparso - ma anche in materia di negoziato
Gatt per liberalizzare il commercio fra le due sponde dell'Atlantico.
Nessuno può dimenticare che fu proprio la Thatcher a imporre
la cordata guidata dal gruppo industriale americano Sikorsky - a dispetto
del gruppo europeo del quale faceva parte la nostra Agusta - nel salvataggio
finanziario di una traballante società inglese che fabbricava
elicotteri. Questo accadde al principio degli anni Ottanta. l'"europeista"
Michael Heseltine, indignato, si dimise da ministro della Difesa,
e se ne andò sbattendo la porta. Heseltine ancora oggi si dichiara
certo che solo una effettiva collaborazione industriale e tecnologica
fra i Paesi dell'Europa dei Dodici può consentire alle forze
vive e costruttive del Vecchio Continente di vincere la "sfida"
- per usare una parola emblematica del politologo francese Jean Jacques
Servan Schreiber, autore di un saggio famoso, La sfida americana,
di un quarto di secolo fa - nei confronti degli Stati Uniti.
Non c'è dubbio che la Comunità Europea quella "sfida"
la sta perdendo. Basti pensare che la Siemens tedesca ha preferito
accordi con Ibm e altri gruppi americani per la fabbricazione di "microchips"
indispensabili alla costruzione di computer superveloci piuttosto
che realizzare un consorzio inter-europeo. Non parliamo del campo
aeronautico. Dagli Stati Uniti si moltiplicano i rimproveri agli europei
per aver fatto concorrenza mediante il successo dell'Airbus ai veivoli
rivali della Boeing e di altre società d'Oltreoceano in maniera
sleale e aggressiva! La "sfida" insomma c'è, ma la
discordia che regna all'interno dell'Europa dei Dodici non può
non essere strumentalizzata a fondo dagli americani.
La verità storica e politica alla base dell'attuale schizofrenia
europea è - paradossalmente - la fine della guerra fredda e
il crollo del Muro di Berlino. Ai tempi di De Gasperi, di Schumann
e di Adenauer, la Ced (Comunità europea di difesa) e la Ceca
(Comunità europea del carbone e dell'acciaio) erano in pratica
due "triangoli" (Italia, Francia, Germania Occidentale)
voluti dal Pentagono. Gli Stati Uniti avevano bisogno del riarmo di
Bonn per creare ad ovest dell'Elba un contrappeso militare all'Urss
di Stalin e poi di Krusciov. Oggi quel contrappeso a Washington non
serve più e gli europei si possono dire fortunati se il Pentagono
lascerà un centinaio di migliaia di soldati fra il Reno e l'Elba.
La "denuclearizzazione" della Nato finirà, prima
o poi, per dimezzare il cosiddetto "deterrente termonucleare"
della Gran Bretagna e della Francia. Faranno fatica Londra e Parigi
a spiegare a Clinton e a Eltzin perché non si debba ridurre
quel "deterrente", sacrificandolo all'altare della riconciliazione
fra Occidente ed ex Unione Sovietica, mentre in Bosnia accade quel
che accade, a Mosca ogni tanto si verificano rivolte che fanno tremare
i polsi, e l'integralismo islamico preme alle porte del Vecchio Continente.
Come se tutto ciò non bastasse, c'è la volontà
americana di inserire la Germania e il Giappone in seno al gruppo
dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Londra
e Parigi resisteranno - finché potranno - alla ventilata ristrutturazione
del Consiglio. E poi? Russia e Cina non solleveranno obiezioni?
L'ingresso delle due (nuove) superpotenze, la tedesca e la nipponica,
nel più delicato ed importante organo decisionale collettivo
del mondo non sarà comunque indolore. Londra e Parigi, se costrette
a fare buon viso a cattivo gioco, cercheranno di annacquare il Consiglio
proponendo l'ingresso di Paesi importanti per estensione geografica
e popolazione (ma anche perché in possesso di armi atomiche),
quali l'India e il Brasile. I giochi sono aperti, anche se appare
problematico chiuderli in modo soddisfacente per tutti. C'è
da pensare (ma è solo un'utopia) quanto sarebbe più
costruttivo se l'Europa dei Dodici entrasse tutta e compatta nel Consiglio
di Sicurezza, come una valida entità federale. I Padri fondatori
applaudirebbero senza riserve.
E invece quest'Europa vandeana continuerà a restar tale per
un bel pezzo. Agli americani e ai giapponesi farà comodo -
anche se lo negano con enfasi e con vigore. - quest'Europa discorde
anche se polivalente, che scorrazza al volante di autovetture giapponesi
acquistate a prezzi di dumping , in preda ai sussulti e all'altalena
di un sistema monetario tutt'altro che unificato, esposto alla speculazione
o, peggio, agli "ukase" della Bundesbank di Francoforte.
E la "sfida"? Toccherà ai nostri nipoti metterla
in atto, o rinunciarvi per sempre.
VANDEITALIA
Quanto accade oggi in Italia è una rivoluzione? O si tratta
solo di un cambiamento, per quanto profondo? La domanda torna con
insistenza, soprattutto da parte degli osservatori stranieri, i quali
sanno forse, debitamente istruiti da Piero Gobetti, che l'Italia,
contrariamente alla Francia e alla Germania, non ha avuto né
una rivoluzione politica né una riforma religiosa. Sarà
questa la volta buona? A chi abbia considerato più a fondo
la storia dell'Italia unita, e abbia visto come la caduta della Destra
storica nel 1876 e l'avvento della Sinistra al potere abbia dato solo
luogo al "trasformismo" di Agostino Depretis, la risposta
non può essere positiva.
A meno di sottoscrivere la definizione, riduttiva, di rivoluzione,
quella data da Nietzsche, considerandola come la più forte
emozione che un popolo possa dare a se stesso, è difficile
parlare oggi di rivoluzione in Italia. Non mancano certi ingredienti,
per così dire, essenziali al processo rivoluzionario. C'è
il giudizio etico, ossia la messa in stato d'accusa globale della
classe dirigente. Le condanne morali si sprecano tanto da sfiorare
il moralismo. Manca però il progetto. Non c'è pensiero
rivoluzionario. Il vissuto è più ricco del pensato.
Nessuno sembra in grado di elaborare una piattaforma ideale, che trascenda
l'esistente e dia senso agli inevitabili sacrifici. Il fallimento
della classe dirigente al potere in Italia è completato e,
si potrebbe dire, perfezionato, dall'inesistenza di un'opposizione
efficace, che si ponga come gruppo dirigente di ricambio, in senso
proprio alternativo. La corruzione c'è stata e c'è.
Ma non è mai stata un segreto. Tutti sapevano tutto. Dov'era,
dunque, l'opposizione? Come mai non si è accorta di nulla?
Non era forse anch'essa coinvolta? Ma è mai possibile che nessuno,
stando all'opposizione, morbida e radicale, proprio nessuno abbia
udito, almeno qualche volta, il quieto, regolare rumore delle mandibole
in movimento?
Per non parlare di un paradosso tipicamente italiano: non si è
mai vista una rivoluzione fatta dai magistrati, i quali sono, per
definizione, i tecnici della regola e gli inflessibili custodi dello
status quo.
Di qui la diffusa ambiguità della vita collettiva italiana
che si riflette puntualmente e viene vissuta come una blanda schizofrenia
o un vago indolenzimento interiore dagli individui: l'italiano di
oggi è nello stesso tempo cittadino e suddito, anarchico in
privato e conformista in pubblico, elettronico e nello stesso tempo
borbonico, moderno, tecnicamente parlando molto moderno, provveduto
di elettrodomestici, telefonino e videotape, ma spiritualmente arcaico,
titolare di diritti gridati e a dismisura crescenti, mai pienamente
soddisfatti, e di doveri a loro volta misconosciuti o semplicemente,
per distrazione, disattesi. L'ufficialità somiglia a una facciata
posticcia, una quinta di teatro, che copre una formicolante vita sommersa,
ma reale, in cui la linea divisoria fra moralità e immoralità
si fa labile.
Lo Stato esiste, certamente, ma, come rappresentante dell'interesse
pubblico, la sua idea e i suoi comportamenti effettivi si offuscano.
Resta in piedi solo come pactum subjectionis. Sappiamo che in origine
lo Stato moderno era stato accettato in quanto garante contro la paura
- Hobbes dice testualmente: metus - della morte violenta. In Italia
questa garanzia, stante il potere del crimine organizzato, di fatto
non esiste. Così il pactum subjectionis non è stato
integrato e completato dal pactum unionis. Si verifica allora, inevitabilmente,
una singolare contrazione della sfera pubblica e nel contempo la disordinata,
caotica richiesta di diritti.
Quando un bisogno si trasforma in diritto, si determina una situazione
socialmente dinamica, uno stato di crisi che è anche positivo,
perché ha una funzione rivelativa, a tutti gli effetti epifanica.
Ma i bisogni, qui, non sono chiari, non tengono conto della situazione
di fatto e dell'alterità degli altri; mostrano la faccia dura
e limitata delle richieste corporative e intolleranti; hanno perduto
il senso del limite e non riescono più, neppur si propongono,
di collegare razionalmente scopi desiderabili e mezzi disponibili.
Più che al sanculottismo, la situazione italiana odierna fa
pensare a una vasta, magmatica, eterogenea rivolta morale, che è
anche rivolta contro se stessi, rifiuto della propria immagine di
popolo che non è difficile governare, ma semplicemente inutile.
Ma i limiti della stessa rivolta morale non tardano a farsi evidenti.
Gli uomini non sono angeli. Non si governa con l'etica assoluta dei
princìpi che non prendono terra.
Occorre forse tornare alla famosa distinzione di Max Weber fra etica
dei principi ed etica delle responsabilità, anche se nei commentatori
più avvertiti può sorgere il dubbio che si tratti di
una sorta di escamotage logico mediante il quale quello straordinario
"politico mancato" che fu il sociologo di Erfurt, animato
da una forte passione politica, ma privo, all'ultimo momento, del
necessario per apporre la Sua firma alla candidatura, cercava un'impossibile
via d'uscita. Per Weber, di fatto, l'etica dei princìpi si
presentava con una assolutezza che la rendeva essenzialmente estranea
alla lotta politica, che egli giungeva a considerare come `un patto
con il diavolo", tanto da non potersi mai persuadere ad accettare,
in nome dell'opportunità politica, il sacrificio dell'onestà
e del rigore intellettuale.
Preoccupazioni che oggi suonano scarsamente realistiche in una situazione
socio-politica e culturale in cui la maggioranza dei politici e degli
intellettuali non sembra intrattenere consimili scrupoli e l'etica
si è con bella naturalezza degradata a estetica e il morale
(alto o basso, buono o cattivo) preoccupa assai più della morale.
Eppure, l'intento profondo di Weber può ancora essere utile
all'Italia di oggi.
La lezione weberiana (in Parlamento e Governo, soprattutto) ci aiuta,
in primo luogo, a comprendere il vero danno della corruzione politica.
Non si tratta solo di inorridire "moralisticamente" a proposito
di Tangentopoli. Il problema vero è un altro. Corruzione e
manomissione dei fondi pubblici a parte, il danno più grave
- in tempi brevi certamente irreparabile - è da vedersi nel
rovesciamento dei filtri selettivi della classe dirigente, operata
da quella che si è convenuto di chiamare "lottizzazione
selvaggia", la quale essenzialmente consiste nel nominare ai
posti più alti e delicati della pubblica amministrazione, nel
paragoverno e nel sottogoverno, personaggi in base alla lealtà
di partito, e quindi all'ubbidienza da essi dimostrata, invece che
in base alla competenza specifica posseduta. Non solo in Parlamento
e nell'Esecutivo, ma dalle banche alle università, dagli uffici
ministeriali agli ospedali, il potere dei partiti si svolge e si afferma
come una sorta di occupazione manu militari delle risorse e delle
posizioni di responsabilità della società civile. Istituzioni
e cittadini divengono a poco a poco estranei. Si offusca e viene meno
il nesso tra Stato e società. Cessa di avere senso il concetto
di "interesse pubblico".
Quelle associazioni private che sono i partiti politici si impadroniscono
così della società e dello Stato, divengono partiti-Stato,
operativamente onnipotenti e nello stesso tempo politicamente irresponsabili.
Dopo aver esautorato di fatto il Parlamento, i partiti mostrano tutta
la loro insufficienza come "organi politici" perché
mancano, secondo Weber, di un autentico "senso dello Stato",
ossia di una visione ampia dei problemi, e si sono a loro volta burocratizzati,
ridotti a oligarchie, secondo i modi e la logica, che fin dal 1911
Roberto Michels, che Weber non cita, aveva sottilmente descritto nel
suo classico studio su quella che piuttosto pomposamente chiamava
la "legge ferrea delle tendenze oligarchiche nei partiti politici".
La polemica contro i partiti non è di oggi. Già nel
1949 sulla rivista di Adriano Olivetti "Comunità"
era apparso il saggio di Simone Weil, Nota sulla soppressione generale
dei partiti politici: un testo di grande acutezza, fermo nel rilevare
le carenze di metodo e di sostanza dell'azione dei partiti politici,
di cui si mettevano in evidenza la derivazione giacobina e la naturale
tendenza a "occupare" tutto il potere disponibile - pars
pro toto - e il cui ideale era riassunto nella celebre frase programmatica
attribuita a Tomski: Il mio partito al potere e tutti gli altri in
prigione.
Ma anche più note sono le istanze critiche del Minghetti, con
riguardo alla scena politica italiana, le motivate riserve dello stesso
Adriano Olivetti, per non citare la lunga polemica che Ignazio Silone,
una volta denunciato lo stalinismo già negli anni Trenta, non
aveva mai smesso di alimentare nei riguardi del partito di massa,
da ultimo sulle pagine della rivista che dirigeva con Nicola Chiaromonte,
"Tempo presente".
Weber però non cede ad alcuna soluzione romantica, e perciò
stesso scarsamente realistica. Critica, anche duramente, i politici,
ma nonostante tutto ne riconosce la funzione.
L'esigenza tecnica, transideologica della razionalizzazione, che per
Weber è la tendenza isomorfica sotterranea, ma potente, destinata
a rendere sempre più simili, se non addirittura intercambiabili,
i sistemi socio-politici nel mondo moderno, tanto da far cadere le
stesse radicali differenziazioni fra socialismo e capitalismo, sarà
dunque il deus ex machina, il fattore determinante della stessa evoluzione,
in senso burocratico-razionale dei partiti politici. Ciò che
Weber prevede è una situazione in cui, accanto e, anzi, grazie
alla razionalizzazione, gli stessi partiti politici dovranno adottare
procedure razionali: "Come gli italiani, e dopo di loro gli inglesi,
hanno sviluppato la moderna organizzazione economica capitalistica,
così lo sviluppo dell'organizzazione razionale di tutti i gruppi
di potere umani, dalla fabbrica fino all'esercito e allo Stato, fondata
sulla divisione del lavoro e sulla burocrazia specializzata, è
stato promosso dai bizantini, e dopo di loro dagli italiani, quindi
dagli Stati territoriali dell'epoca assolutistica, dalla centralizzazione
operata dalla rivoluzione francese, e, infine, superando tutti gli
altri con il loro virtuosismo, dai tedeschi ( ... ). Il futuro appartiene
alla burocratizzazione ( ... ). La burocrazia moderna si distingue
da tutti questi esempi più antichi per una caratteristica che
àncora la sua indispensabilità ad un fondamento molto
più definitivo rispetto alle altre burocrazie: la specializzazione
e l'istruzione professionale di tipo razionale".
Ancora una volta, l'erudizione e il respiro storico dell'analisi weberiana
sono impressionanti. Ciò che peraltro sfugge a questo analista
acutissimo è il fatto che si possano far convivere, come avviene
oggi in Italia, burocrazia razionale e pirateria politica, valutazione
scientifica e rapina a mano disarmata, impresa capitalistica privata
e impresa statale con scopi vagamente "pubblici", naturalmente
applauditi dai volenterosi "letterati della politica", in
realtà privatizzati a beneficio, più o meno occulto,
di partiti e uomini politici.
Il "virtuosismo" italico risulta, almeno per questo aspetto,
superiore a quello dei tedeschi. La distinzione weberiana fra uomini
che vivono per la politica e uomini che vivono di politica c'è
da temere che qui perda gran parte della stia consistenza. "Il
politico di professione - scrive Weber - può essere un uomo
che vive unicamente della politica e dei suoi meccanismi, delle sue
influenze e possibilità. Oppure può essere un uomo che
vive per la politica. Soltanto in quest'ultimo caso può diventare
un politico di grande livello".
Ma Weber non può neppure immaginare la fusione, more italico,
dei due tipi perché l'uomo politico per lui non può
a tal punto mancare di "senso dello Stato". In Italia, oggi,
Guicciardini ha vinto e ha avuto nettamente la meglio rispetto a Machiavelli.
Hanno vinto la piccola politica del particulare, gli inconfessabili
interessi dei partiti, dei ristretti gruppi di potere, delle fazioni,
contro la politica come lotta ideale, condotta innanzi coerentemente
per l'accesso al potere inteso in senso pieno, come imperium dello
Stato e come servizio alle esigenze fondamentali della comunità.
I popoli dell'Unpo
Vandeani del
XX secolo
Stati Uniti: Lakota-Sioux
Canada: Mohawk
Cile-Argentina: Mapuche, 1,1 milioni
Russia: Mari, 670 mila
Russia: Inkeri, 75 mila
Svezia: Scania, 1,5 milioni
Kosovo: Albanesi, 2,1 milioni
Albania: Greci, 400 mila
Serbia-Montenegro: Sangiaccato, 440 mila
Grecia: Turchi
Iraq: Turchi, 2,5 milioni
Iraq-Turchia-Iran: Kurdi, 25 milioni;
Iran-Iraq-Turchia- Siria -Libano: Assiri, 1,7 milioni
Nigeria: Ogoni, 500 mila
Tanzania: Zanzibar, 600 mila
Ruanda: Batwa, 75 mila
Russia: Komi, 315 mila
Russia: Chivash, 2 milioni
Russia: Udmurt, 480 mila
Ucraina: Tatari, 270 mila
Russia: Tataristan, 4 milioni
Georgia: Abkhazia, 205 mila
Russia: Cecenia, 1,4 milioni
Cina: Turkestan, 14 milioni
India: Khalistan, 21 milioni
Cina: Tibet, 6 milioni
India-Cina: Nagaland, 2,5 milioni
Birmania: Karenni, 300 mila
Filippine: Cordillera, 1 milione
Micronesia: Belau, 15 mila
Indonesia: Papua occidentale, 3 milioni
Indonesia: Timor orientale, 600 mila
Bangladesh: Chittagong, 600 mila
Indonesia: Acheh, 5 milioni
Indonesia: Molucchi del Sud, 1,5 milioni
Polinesia: Bougainville, 160 mila
Australia: Aborigeni, 228 mila
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