§ Periferie in guerra contro il Centro che le divora

Una Vandea per mille Vandee




Ada Provenzano, Flavio Albini, Antonio Foresi
Collab. R. Canziani, G. Ravel, A. Arcuri



Per comprendere quel che sta accadendo in Europa e nel mondo non è inutile ricordare che cosa fu la rivolta della Vandea, duecento anni fa, e come nacque la tremenda guerra delle periferie contro la Rivoluzione Francese. "Un lugubre malinteso": così Victor Hugo chiama l'insurrezione, nel celebre romanzo Novantatré: "Lunga resistenza incaponita e superba, guerra dell'oceano contro la terra, dello spirito locale contro lo spirito centrale.
Tumulto colossale, sordità terribile". In altri termini: eccidio smisurato, ma anche smisurato suicidio di una popolazione. Parricidio, e al tempo stesso rivoluzione che, come Saturno, divora i suoi stessi figli.
Sensibilità spinta fino all'estremo, e al tempo stesso incapacità di usare i sensi, per guardarsi a vicenda. Lugubre malinteso, per davvero. Gli inglesi non soccorreranno la Vandea, come gli insorti avevano sempre sperato, lo sguardo fisso sul mare di Quiberon e di Granville. i rivoluzionari che volevano sollevare l'umanità non vedranno gli uomini che la compongono.
I parlamentari giacobini che decretano la distruzione della Vandea il primo agosto 1793 non conoscono quel che vogliono distruggere e su cui fantasticano del tutto astrattamente. Sanno soltanto che vogliono annientare la più irriducibile delle periferie, e l'idea stessa di una periferia della rivoluzione. Sanno solo che esistono periferie opache, non attraversate dalla luce rivoluzionaria, e precisamente questa opacità hanno in odio.
"Inesplicabile Vandea": in questo modo il parlamentare Barère chiarisce alla Convenzione il piano di sterminio, e la Vandea sarà sterminata appunto perché inesplicabile. Le truppe blu piegheranno l'esercito bianco, nell'ottobre 1793, Parigi vince la guerra e tuttavia proprio allora incomincerà il vero sterminio: nell'inverno del 1793-'94, le "colonne infernali" di Turreau uccideranno con accanimento speciale decine di migliaia di uomini, non importa se repubblicani o antirivoluzionari, purché la Vandea scompaia, sia "rigenerata", e diventi nome maledetto. Lo diverrà: ancora oggi evoca la controrivoluzione, l'anti-progresso, la reazione più cupa. "Nome illustre e nero, la Vandea", scrive Hugo.
Sono rasi al suolo i villaggi, sono uccise soprattutto le donne incinte nell'eccidio, perché la stirpe vandeana non si prolunghi. Il suolo stesso è dichiarato infame: "Trasformeremo la Vandea in un deserto e la chiameremo Vengée: Vendicata". L'ordine della Convenzione sarà eseguito alla lettera, con furore, con livore, e la guerra sfocia in pulizia etnica. Babeuf, dopo la caduta di Robespierre, denuncerà il "popolocidio". Ricordare la Vandea serve forse a capire quando la periferia diventa opaca al centro, e il centro incomprensibile alle periferie. Serve a capire il lugubre malinteso della guerra in Bosnia, l'ossessione del sangue puro che comina così ineluttabilmente le rivoluzioni guerriere, e anche i segnali che giungono da periferie vessate, disilluse, ingannate.
Tutto l'anno della Vandea è lugubre. E' epoca delle sensibilità scatenate, come osserveranno in seguito gli storici Taine e Michelet. Sono trascorsi quattro anni dalla presa della Bastiglia e la rivoluzione è sempre quella, come se il tempo non fosse mai passato: è volontà di potenza e di distruzione allo stato puro. E' energia fine a se stessa, come nelle prime ore, e permanente stato di agitazione, suscettibilità estrema ed estrema spietatezza: due sentimenti che molto spesso vanno bene insieme. "La sensibilità diventa preziosa come a suo tempo furono preziose le virtù. I nervi hanno quasi preso il posto del cuore", aveva detto Barnave, ghigliottinato nel '93, sui benefici dello spirito rivoluzionario. Nel '93 è ancora così: ogni minuto la rivoluzione perde i nervi e ricomincia daccapo.
Non che manchino le minacce: gli inglesi preparano davvero la controffensiva, e ormai si moltiplicano anche le ostilità interne, in quasi tutte le città portuali, e a Lione, e in Bretagna, oltre che in Vandea. Ma la malattia mortale non è nelle periferie: non è nel l'auto nomismo girondino di Bordeaux, di Tolone, di Marsiglia; non è nella rivolta filo-monarchica di Lione e neppure nella solidarietà disperata della Vandea contadina con i suoi campanili e con i suoi preti refrattari. La malattia mortale è nel centro, è nella rivoluzione stessa, che non riesce a venir fuori dallo stadio dell'agitazione e a divenire esperienza, e dunque attitudine a governare. Che quasi compulsivamente ripete i gesti dell'inizio: i gesti inaugurali della volontà assoluta. Lo stesso giorno in cui la Convenzione decreta il massacro in Vandea, Danton sale alla tribuna e azzarda quasi un'autocritica: "E' necessario un governo", invoca. Il fatto è che la Vandea ha colto di sorpresa gli intellettuali della rivoluzione, perché gli intellettuali hanno dimenticato che il Paese andava guardato, e poi governato.
Le periferie in origine non sono periferiche. Lo diventano perché il centro continua a chiamarle, e a trattarle come tali. Lo diventano quando il centro, nella sua potenza-impotenza, diventa "inesplicabile".
Questo è successo nell'insurrezione della Vandea. Nell'89, la regione non è contro la rivoluzione. Nelle lettere di protesta inviate agli Stati Generali (i celebri cabiers des doléances), i contadini della Vandea si lamentano dei privilegi concessi ai feudatari e in seguito festeggiano l'abolizione dei diritti feudali. E' piuttosto l'organizzazione del Nuovo che man mano li spaventa, è l'anticristianesimo radicale che crea sacerdoti, e i contadini refrattari.
Non c'è stata insurrezione quando il re è finito sulla ghigliottina, non c'è stata neppure quando i giacobini hanno imposto al clero la sottomissione al potere civile. La rivolta è diventata armata quando Parigi ha deciso di arruolare trecentomila uomini per l'esercito, reclutandoli soprattutto nelle zone contadine: proprio come accadeva nel vecchio regime, che era indifferente e persino sprezzante nei confronti delle classi rurali. E' a questo punto che i contadini, protetti come sono sempre stati dai propri sacerdoti, si rivolgono ai nobili per chiedere armi e capi militari.
La Vandea è anche rivolta contro una borghesia che si comporta allo stesso modo della vecchia nobiltà, e con ogni probabilità più sprezzantemente ancora. Che confisca i beni degli emigrati politici non per distribuirli ai Municipi, ma per arricchire l'amministrazione parigina, prepotente da oltre un secolo. La Vandea è reazione violenta a Una rivoluzione che secondo Tocqueville è già avvenuta ben prima del 1789: che già prima "ha calpestato le libertà locali", "ha divorato le province", ha premiato "l'assenteismo del cuore" di chi governava le campagne e le periferie. La Bretagna, la Vandea, la Linguadoca erano regioni che facevano eccezione, dove ancora esisteva un equilibrio fra popolo, borghesia, nobiltà e clero. Non è per il Vecchio Regime che si combatte in Vandea, ma per la Vecchia Società, per proteggerne fino in fondo i suoi delicati equilibri.
Nella rivolta dello spirito locale, i rivoluzionari hanno visto una guerra di retrogradi. Anche Michelet e Victor Hugo parlano di barbarie contro rivoluzione, di barbarie contro civilizzazione. I paesaggi stessi della Vandea fanno venire in mente idee simili: il dedalo di siepi che circonda i campi di stoppie, le boscaglie dietro le quali si immagina un popolo provinciale, chiuso, abbarbicato ai propri campanili, alle proprie radici.
"Il bosco è il contrario della rnontagna. Il bosco è barbaro, è imboscata", scrive Victor Hugo, per cui l'intera Vandea è "sorda provocazione della natura". Ma si dimentica presto che la Vandea è anche quella società fondata sii tiri forte equilibrio sociale. Che è anche attrazione infinita per il mare, e il mare non è mai provinciale, è sempre scoperta dell'altro, è soprattutto commercio e avventura. il mare è l'Inghilterra commerciale e marittima, e non a caso tutte le periferie girondine cercheranno il contatto con le navi britanniche, da Tolone a Marsiglia e a Bordeaux. Victor Hugo lo lascia chiaramente capire. I guerriglieri sono "oscuri ascoltatori del mare". La Bretagna è atlantica, e lo è da sempre: "Fermati! gridava l'oceano alla terra, e la barbarie alla civiltà". Alla fine del romanzo Gavain, giacobino pentito, si accorge della grandezza del mare: "Cos'è l'Oceano? Un'enorme forza perduta. Com'è stupida la terra, a non impiegare l'Oceano!". I veri terragni, i continentali, erano Piuttosto a Parigi, dentro la Montagna della rivoluzione. E' quest'ultima che ha l'ossessione del sangue impuro, e che comporrà su tale ossessione l'inno della Marsigliese. Maria Antonietta fu sempre chiamata con disprezzo "l'austriaca", e la monarchia era odiata anche per le sue genealogie cosmopolite, sparse in tutta Europa. Nata per servire l'umanità, la rivoluzione rattrappirà negli anni sanguigni dei Terrore. Anche gli ebrei, emancipati grazie alla presa della Bastiglia, finiranno con l'aderire alle rivolte girondine del Sud e dell'Est. La rivoluzione promette la fraternità, oltre all'eguaglianza e alla libertà, ma la fraternità diventa prestissimo una gabbia: una famiglia chiusa, che non esce di casa. I giacobini coltivavano tutti i segni familiari: il bacio della fraternità, il tu dato a tutti. Anche in questo la loro sensibilità era estrema: "In un popolo libero non ci possono essere persone neutrali. Non ci sono che fratelli, o nemici`. Neppure l'amicizia è del tutto innocente, in rivoluzione.
La rivoluzione comincia col proclamare la liberazione del genere umano, per poi sognare fusioni totali ed esclusive d'ogni dissidenza. Dovremmo pensarci, ogni volta che ascoltiamo l'Inno della Gioia di Beethoven che fu scritto negli anni di Robespierre e che oggi è l'inno dell'Europa, della Comunità Europea. Dovremmo pensare a che cosa portò tutta quella grande sensibilità affettiva e fraterna e a che cosa portarono tutti quegli anni, duecento anni fa. Portò alla formula centrale dei giacobini: Fraternité ou la mort, Fraternità o la morte.
Vandea, sinonimo di controrivoluzione per i giacobini d'ogni tempo. Nella realtà, una tragedia che costò la vita a non meno di centomila insorti nella regione più cattolica della Francia. Qualche storico arriva a contare duecentocinquanta mila morti, su una popolazione di 815 mila persone.
Tutto cominciò il 23 febbraio 1793, con la dichiarazione di guerra della Convenzione all'Inghilterra e con la richiesta di arruolamenti forzati che avrebbero impoverito demograficamente alcune regioni francesi, e la Vandea in modo particolare. I vandeani non vollero starci. Fra marzo e giugno dilagò la rivolta. Dopo qualche successo dell'esercito "bianco", incominciò la terribile riscossa dell'esercito `blu", l'esercito dei rivoluzionari. La Convenzione inviò un'armata di centomila uomini. in novembre, a Nantes, i primi annegamenti di massa: vittime, novanta sacerdoti.
A dicembre i vandeani subiscono due disfatte: una a Le Mans, e un'altra a Savenay. L'insurrezione riprende nel 1794 e si infiamma l'anno successivo, dopo il massacro di Quiberon. Soltanto nel 1796, restituendo alla Vandea la libertà di culto, il generale Hoche riuscì a pacificare quasi del tutto la regione.
Proiettiamoci nel futuro: ai nostri giorni. E' una Vandea contemporanea la rivolta degli Zulu? Lo èquella del Sudan meridionale, dove i cristiani vengono massacrati dai musulmani delle tribù stanziate a nord del Paese? La Bosnia è una Vandea bifronte, nel senso che nel passato i musulmani massacrarono i cristiani, mentre oggi accade esattamente il contrari& Quante sono le "Patrie con focolare", e quante quel focolare non ce l'hanno, lo vorrebbero, e creano il conflitto fra identità e nazionalità?
I documenti parlano chiaro e lo ha sostenuto anche il segretario delle Nazioni Unite. Alla domanda: "Che ne sarà dei micronazionalismi?" non ha avuto esitazione a rispondere secondo gli accordi internazionali: le regole sono quelle del riconoscimento, ma attenzione, deve essere posto un limite anche a questo. Saranno privilegiati -gruppi ed etnie che in accordo troveranno soluzioni meno frammentate e dispersive. Rispetto delle identità, delle culture, delle credenze religiose, ma in armonia con l'assetto istituzionale all'interno degli Stati che li comprendono.
Ma i piccoli potenziali Stati (le piccole Vandee, come qualcuno ha scritto) che ne pensano e che cosa fanno mentre al tavolo delle trattative siedono soltanto i giganti della politica internazionale?
Esiste nel mondo un'organizzazione che sostiene le loro battaglie per i diritti umani, per l'autodeterminazione e per l'indipendenza: è l'Organizzazione delle nazioni e dei popoli non rappresentati. La sigla: Unpo.
"Noi tutti abbiamo i nostri sogni", sostiene Erkin Alptekin, un Uighur del Turkestan orientale. "Se soltanto potessimo dividere lo stesso cuscino, potremmo realizzarli insieme".
Si sono riuniti popoli oppressi, perseguitati, colonizzati, negletti, ciascuno con il proprio portabandiera. Provengono dai cinque continenti e sembrano esattamente un tavolo delle Nazioni Unite in miniatura: vi prendono parte trentanove membri in rappresentanza di 139 milioni di persone. Tra di loro ci sono soprattutto esuli, diplomatici, non graditi negli enti internazionali dove a stento si parla di loro.
"Nel mondo ci sono all'incirca cinquemila differenti popolazioni", dice Michael Walt, attuale segretario generale dell'Unpo. "Ma sono riconosciuti meno di duecento Stati. Molti gruppi vorrebbero soltanto i diritti umani fondamentali e la tutela della loro identità culturale e religiosa. Una cinquantina fra essi ha però la legittimità storica e politica per formare a tutti gli effetti nuovi Stati indipendenti".
Su un punto sono tutti d'accordo: l'utodeterminazione. E la storia dell'ex Unione Sovietica e dell'ex Jugoslavia ha alimentato le loro aspettative. I Kurdi in Iraq e nei Paesi confinanti, soprattutto in Turchia; gli Ogoni in Nigeria; i Nagi in India; i Fresi in Olanda; gli Shan in Burma; i Mapuchi nel Cile e nell'Argentina. Tutti ritengono che sia venuta l'ora di alzare la testa. Tutti si sentono i vandeani del XX secolo.
L'organizzazione nasce dallo strano incontro fra un tibetano, un estone e un olandese.
Durante una visita in Unione Sovietica, nel 1989, Lodi Gyari, ministro degli Esteri del governo tibetano in esilio, incontrò un buddista come lui, un professore di storia dell'Estremo Oriente, Linnart Mall, allora vicepresidente del partito nazionale estone per l'indipendenza. I due decisero di fondare l'organizzazione, chiamando con loro un terzo esponente della lotta per l'autonomia, vari Walt, appunto, un avvocato e consigliere del Dalai Lama che rappresentava il Tibet di fronte alla Commissione per i diritti dell'uomo delle Nazioni Unite.
In comune, avevano la difficoltà di sottoporre i loro casi all'attenzione pubblica internazionale, all'Onu, agli Stati membri e alle associazioni non governative che vi facevano parte. Nei due anni di attività, l'Unpo ha guadagnato l'indipendenza per alcuni dei suoi soci fondatori: l'Estonia, la Lituania, la Lettonia, la Georgia e l'Armenia; mentre altre regioni (Ucraina, ecc.) l'hanno ottenuta, federandosi poi fra di loro. Ora, alcuni di questi nuovi o rinnovati Stati sono alle prese con le loro minoranze interne. Già l'Estonia è stata anche duramente criticata per aver negato la cittadinanza ad alcuni abitanti russi.
L'Organizzazione ha organizzato diverse missioni di monitoraggio in Abkhazia, nel Kosovo, in Kurdistan, nel Tatarstan, in Cecenia, per mediare i conflitti interni, per controllare la regolarità delle elezioni e per tener desta l'attenzione della comunità internazionale sugli abusi di potere.
Il suo fine è anche quello di fornire servizi: le tecniche diplomatiche per risolvere i conflitti e gli strumenti per le relazioni con i media, soprattutto quelli ostili o indifferenti alle battaglie portate avanti dai piccoli gruppi. La lamentela più volte sollevata è per i trasferimenti delle popolazioni come arma micidiale contro l'autodeterminazione. La popolazione dei Chittagong, Hill Tracs del Bangladesh, è stata costretta in accampamenti per cedere il posto agli insediamenti Bengali. I Tatari, i quali hanno chiesto soltanto il riconoscimento dei diritti umani, sono stati trasferiti con la forza dalle coste del Mar Nero, dove vivevano ai tempi di Stalin, alle zone orientali asiatiche. Oggi stanno tentando di tornare indietro, costruendo case e moschee che poi sono sistematicamente rase al suolo dagli Ucraini e dai Russi residenti.
Trenta popoli nuovi hanno fatto domanda di diventare membri dell'Unpo. Debbono però dimostrare di essere rappresentativi: due comunità separatiste del Giura svizzero non sono state accettate perché il loro gruppo ha soltanto cinquanta membri.
La popolarità improvvisa dell'Organizzazione potrebbe avere crisi di crescita: lo riconoscono anche i fondatori. Il personale è composto, in gran parte, da volontari, i fondi provengono dall'America e da fondazioni europee, insieme ad una quota di mille dollari l'anno per ogni membro. Per la gran parte, però, sopravvive sulla propria "determinazione". Indiani d'America, popoli del Khalistan o della Scania, che importa dove sono e contro chi lottano, se non si sa nulla di loro? Allora è necessario capovolgere l'immagine vandeana: non di lugubrità deve più trattarsi, ma di una politica e di una diplomazia alla luce del sole, con impegni propositivi, in un concerto internazionale.
Appunto: i popoli non riconosciuti come Stati sono migliaia. E il problema, nel nuovo secolo-millennio, è orchestrarli.

VANDEUROPA
Se per puro miracolo tornassero in vita i genitori della Comunità Economica Europea, Alcide De Gasperi, Robert Schumann e Konrad Adenauer, che direbbero dello stato di conflittualità interna e di autentica schizofrenia nel quale versa il Dodecagono di Bruxelles?
Il loro giudizio sarebbe non sappiamo se più duro o più amaro. E' vero che dall'Europa dei Sei si è passati all'Europa dei Dodici. E' altrettanto vero che con l'ingresso della Gran Bretagna nella Cee, voluto dal coraggioso e tenace Edward Heath, il più "europeo'' dei capi di governo inglesi del dopoguerra, si è completata l'opera avviata dai tre Padri della Comunità. Purtroppo Heath non poteva prevedere che dopo due primi ministri, entrambi laburisti Piuttosto tiepidi verso l'Europa unita, Wilson e Callaghan, ne sarebbe arrivato al numero 10 di Downing Street un terzo, conservatore come lui, ma di ben diverso orientamento, la signora (oggi Lady) Thatcher, decisa ad anteporre in ogni senso la "relazione particolare" fra Stati Uniti e Gran Bretagna al vincolo continentale europeo ed allo sviluppo di esso -sancito dal controverso Trattato di Maastricht - in una vera e propria unione politica, economica e monetaria entro la fine di questo secolo epilettico.
La Thatcher non ha mai creduto in quel vincolo. Ha agito con proterva ostinazione nei suoi circa dodici anni di governo per evitare qualsiasi forma di integrazione che avesse lo scopo di creare gradualmente quella entità federale che De Gasperi, Schumann e Adenauer avevano sognato.
Oggi l'Europa è a pezzi, indipendentemente dai grandi rischi all'orizzonte. E ben pochi, in campo degli "europeisti" e in quello degli "euroscettici", osano ricordare l'amara profezia di Charles De Gaulle, il quale era convinto che aprire le porte della Comunità integrata o integranda all'Inghilterra significava in realtà aprirle al "cavallo di Troia degli americani".
Fino a che punto aveva ragione De Gaulle? I fatti parlano chiaro. Ancora oggi l'intramontabile Lady Thatcher (con tutti i suoi seguaci nei due rami del Parlamento) si schiera con gli Stati Uniti non soltanto di fronte alla tragedia della Bosnia - che l'Europa dei Dodici ha purtroppo affrontato in ordine sparso - ma anche in materia di negoziato Gatt per liberalizzare il commercio fra le due sponde dell'Atlantico. Nessuno può dimenticare che fu proprio la Thatcher a imporre la cordata guidata dal gruppo industriale americano Sikorsky - a dispetto del gruppo europeo del quale faceva parte la nostra Agusta - nel salvataggio finanziario di una traballante società inglese che fabbricava elicotteri. Questo accadde al principio degli anni Ottanta. l'"europeista" Michael Heseltine, indignato, si dimise da ministro della Difesa, e se ne andò sbattendo la porta. Heseltine ancora oggi si dichiara certo che solo una effettiva collaborazione industriale e tecnologica fra i Paesi dell'Europa dei Dodici può consentire alle forze vive e costruttive del Vecchio Continente di vincere la "sfida" - per usare una parola emblematica del politologo francese Jean Jacques Servan Schreiber, autore di un saggio famoso, La sfida americana, di un quarto di secolo fa - nei confronti degli Stati Uniti.
Non c'è dubbio che la Comunità Europea quella "sfida" la sta perdendo. Basti pensare che la Siemens tedesca ha preferito accordi con Ibm e altri gruppi americani per la fabbricazione di "microchips" indispensabili alla costruzione di computer superveloci piuttosto che realizzare un consorzio inter-europeo. Non parliamo del campo aeronautico. Dagli Stati Uniti si moltiplicano i rimproveri agli europei per aver fatto concorrenza mediante il successo dell'Airbus ai veivoli rivali della Boeing e di altre società d'Oltreoceano in maniera sleale e aggressiva! La "sfida" insomma c'è, ma la discordia che regna all'interno dell'Europa dei Dodici non può non essere strumentalizzata a fondo dagli americani.
La verità storica e politica alla base dell'attuale schizofrenia europea è - paradossalmente - la fine della guerra fredda e il crollo del Muro di Berlino. Ai tempi di De Gasperi, di Schumann e di Adenauer, la Ced (Comunità europea di difesa) e la Ceca (Comunità europea del carbone e dell'acciaio) erano in pratica due "triangoli" (Italia, Francia, Germania Occidentale) voluti dal Pentagono. Gli Stati Uniti avevano bisogno del riarmo di Bonn per creare ad ovest dell'Elba un contrappeso militare all'Urss di Stalin e poi di Krusciov. Oggi quel contrappeso a Washington non serve più e gli europei si possono dire fortunati se il Pentagono lascerà un centinaio di migliaia di soldati fra il Reno e l'Elba.
La "denuclearizzazione" della Nato finirà, prima o poi, per dimezzare il cosiddetto "deterrente termonucleare" della Gran Bretagna e della Francia. Faranno fatica Londra e Parigi a spiegare a Clinton e a Eltzin perché non si debba ridurre quel "deterrente", sacrificandolo all'altare della riconciliazione fra Occidente ed ex Unione Sovietica, mentre in Bosnia accade quel che accade, a Mosca ogni tanto si verificano rivolte che fanno tremare i polsi, e l'integralismo islamico preme alle porte del Vecchio Continente.
Come se tutto ciò non bastasse, c'è la volontà americana di inserire la Germania e il Giappone in seno al gruppo dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Londra e Parigi resisteranno - finché potranno - alla ventilata ristrutturazione del Consiglio. E poi? Russia e Cina non solleveranno obiezioni?
L'ingresso delle due (nuove) superpotenze, la tedesca e la nipponica, nel più delicato ed importante organo decisionale collettivo del mondo non sarà comunque indolore. Londra e Parigi, se costrette a fare buon viso a cattivo gioco, cercheranno di annacquare il Consiglio proponendo l'ingresso di Paesi importanti per estensione geografica e popolazione (ma anche perché in possesso di armi atomiche), quali l'India e il Brasile. I giochi sono aperti, anche se appare problematico chiuderli in modo soddisfacente per tutti. C'è da pensare (ma è solo un'utopia) quanto sarebbe più costruttivo se l'Europa dei Dodici entrasse tutta e compatta nel Consiglio di Sicurezza, come una valida entità federale. I Padri fondatori applaudirebbero senza riserve.
E invece quest'Europa vandeana continuerà a restar tale per un bel pezzo. Agli americani e ai giapponesi farà comodo - anche se lo negano con enfasi e con vigore. - quest'Europa discorde anche se polivalente, che scorrazza al volante di autovetture giapponesi acquistate a prezzi di dumping , in preda ai sussulti e all'altalena di un sistema monetario tutt'altro che unificato, esposto alla speculazione o, peggio, agli "ukase" della Bundesbank di Francoforte.
E la "sfida"? Toccherà ai nostri nipoti metterla in atto, o rinunciarvi per sempre.

VANDEITALIA
Quanto accade oggi in Italia è una rivoluzione? O si tratta solo di un cambiamento, per quanto profondo? La domanda torna con insistenza, soprattutto da parte degli osservatori stranieri, i quali sanno forse, debitamente istruiti da Piero Gobetti, che l'Italia, contrariamente alla Francia e alla Germania, non ha avuto né una rivoluzione politica né una riforma religiosa. Sarà questa la volta buona? A chi abbia considerato più a fondo la storia dell'Italia unita, e abbia visto come la caduta della Destra storica nel 1876 e l'avvento della Sinistra al potere abbia dato solo luogo al "trasformismo" di Agostino Depretis, la risposta non può essere positiva.
A meno di sottoscrivere la definizione, riduttiva, di rivoluzione, quella data da Nietzsche, considerandola come la più forte emozione che un popolo possa dare a se stesso, è difficile parlare oggi di rivoluzione in Italia. Non mancano certi ingredienti, per così dire, essenziali al processo rivoluzionario. C'è il giudizio etico, ossia la messa in stato d'accusa globale della classe dirigente. Le condanne morali si sprecano tanto da sfiorare il moralismo. Manca però il progetto. Non c'è pensiero rivoluzionario. Il vissuto è più ricco del pensato. Nessuno sembra in grado di elaborare una piattaforma ideale, che trascenda l'esistente e dia senso agli inevitabili sacrifici. Il fallimento della classe dirigente al potere in Italia è completato e, si potrebbe dire, perfezionato, dall'inesistenza di un'opposizione efficace, che si ponga come gruppo dirigente di ricambio, in senso proprio alternativo. La corruzione c'è stata e c'è. Ma non è mai stata un segreto. Tutti sapevano tutto. Dov'era, dunque, l'opposizione? Come mai non si è accorta di nulla? Non era forse anch'essa coinvolta? Ma è mai possibile che nessuno, stando all'opposizione, morbida e radicale, proprio nessuno abbia udito, almeno qualche volta, il quieto, regolare rumore delle mandibole in movimento?
Per non parlare di un paradosso tipicamente italiano: non si è mai vista una rivoluzione fatta dai magistrati, i quali sono, per definizione, i tecnici della regola e gli inflessibili custodi dello status quo.
Di qui la diffusa ambiguità della vita collettiva italiana che si riflette puntualmente e viene vissuta come una blanda schizofrenia o un vago indolenzimento interiore dagli individui: l'italiano di oggi è nello stesso tempo cittadino e suddito, anarchico in privato e conformista in pubblico, elettronico e nello stesso tempo borbonico, moderno, tecnicamente parlando molto moderno, provveduto di elettrodomestici, telefonino e videotape, ma spiritualmente arcaico, titolare di diritti gridati e a dismisura crescenti, mai pienamente soddisfatti, e di doveri a loro volta misconosciuti o semplicemente, per distrazione, disattesi. L'ufficialità somiglia a una facciata posticcia, una quinta di teatro, che copre una formicolante vita sommersa, ma reale, in cui la linea divisoria fra moralità e immoralità si fa labile.
Lo Stato esiste, certamente, ma, come rappresentante dell'interesse pubblico, la sua idea e i suoi comportamenti effettivi si offuscano. Resta in piedi solo come pactum subjectionis. Sappiamo che in origine lo Stato moderno era stato accettato in quanto garante contro la paura - Hobbes dice testualmente: metus - della morte violenta. In Italia questa garanzia, stante il potere del crimine organizzato, di fatto non esiste. Così il pactum subjectionis non è stato integrato e completato dal pactum unionis. Si verifica allora, inevitabilmente, una singolare contrazione della sfera pubblica e nel contempo la disordinata, caotica richiesta di diritti.
Quando un bisogno si trasforma in diritto, si determina una situazione socialmente dinamica, uno stato di crisi che è anche positivo, perché ha una funzione rivelativa, a tutti gli effetti epifanica. Ma i bisogni, qui, non sono chiari, non tengono conto della situazione di fatto e dell'alterità degli altri; mostrano la faccia dura e limitata delle richieste corporative e intolleranti; hanno perduto il senso del limite e non riescono più, neppur si propongono, di collegare razionalmente scopi desiderabili e mezzi disponibili. Più che al sanculottismo, la situazione italiana odierna fa pensare a una vasta, magmatica, eterogenea rivolta morale, che è anche rivolta contro se stessi, rifiuto della propria immagine di popolo che non è difficile governare, ma semplicemente inutile.
Ma i limiti della stessa rivolta morale non tardano a farsi evidenti. Gli uomini non sono angeli. Non si governa con l'etica assoluta dei princìpi che non prendono terra.
Occorre forse tornare alla famosa distinzione di Max Weber fra etica dei principi ed etica delle responsabilità, anche se nei commentatori più avvertiti può sorgere il dubbio che si tratti di una sorta di escamotage logico mediante il quale quello straordinario "politico mancato" che fu il sociologo di Erfurt, animato da una forte passione politica, ma privo, all'ultimo momento, del necessario per apporre la Sua firma alla candidatura, cercava un'impossibile via d'uscita. Per Weber, di fatto, l'etica dei princìpi si presentava con una assolutezza che la rendeva essenzialmente estranea alla lotta politica, che egli giungeva a considerare come `un patto con il diavolo", tanto da non potersi mai persuadere ad accettare, in nome dell'opportunità politica, il sacrificio dell'onestà e del rigore intellettuale.
Preoccupazioni che oggi suonano scarsamente realistiche in una situazione socio-politica e culturale in cui la maggioranza dei politici e degli intellettuali non sembra intrattenere consimili scrupoli e l'etica si è con bella naturalezza degradata a estetica e il morale (alto o basso, buono o cattivo) preoccupa assai più della morale. Eppure, l'intento profondo di Weber può ancora essere utile all'Italia di oggi.
La lezione weberiana (in Parlamento e Governo, soprattutto) ci aiuta, in primo luogo, a comprendere il vero danno della corruzione politica. Non si tratta solo di inorridire "moralisticamente" a proposito di Tangentopoli. Il problema vero è un altro. Corruzione e manomissione dei fondi pubblici a parte, il danno più grave - in tempi brevi certamente irreparabile - è da vedersi nel rovesciamento dei filtri selettivi della classe dirigente, operata da quella che si è convenuto di chiamare "lottizzazione selvaggia", la quale essenzialmente consiste nel nominare ai posti più alti e delicati della pubblica amministrazione, nel paragoverno e nel sottogoverno, personaggi in base alla lealtà di partito, e quindi all'ubbidienza da essi dimostrata, invece che in base alla competenza specifica posseduta. Non solo in Parlamento e nell'Esecutivo, ma dalle banche alle università, dagli uffici ministeriali agli ospedali, il potere dei partiti si svolge e si afferma come una sorta di occupazione manu militari delle risorse e delle posizioni di responsabilità della società civile. Istituzioni e cittadini divengono a poco a poco estranei. Si offusca e viene meno il nesso tra Stato e società. Cessa di avere senso il concetto di "interesse pubblico".
Quelle associazioni private che sono i partiti politici si impadroniscono così della società e dello Stato, divengono partiti-Stato, operativamente onnipotenti e nello stesso tempo politicamente irresponsabili. Dopo aver esautorato di fatto il Parlamento, i partiti mostrano tutta la loro insufficienza come "organi politici" perché mancano, secondo Weber, di un autentico "senso dello Stato", ossia di una visione ampia dei problemi, e si sono a loro volta burocratizzati, ridotti a oligarchie, secondo i modi e la logica, che fin dal 1911 Roberto Michels, che Weber non cita, aveva sottilmente descritto nel suo classico studio su quella che piuttosto pomposamente chiamava la "legge ferrea delle tendenze oligarchiche nei partiti politici".
La polemica contro i partiti non è di oggi. Già nel 1949 sulla rivista di Adriano Olivetti "Comunità" era apparso il saggio di Simone Weil, Nota sulla soppressione generale dei partiti politici: un testo di grande acutezza, fermo nel rilevare le carenze di metodo e di sostanza dell'azione dei partiti politici, di cui si mettevano in evidenza la derivazione giacobina e la naturale tendenza a "occupare" tutto il potere disponibile - pars pro toto - e il cui ideale era riassunto nella celebre frase programmatica attribuita a Tomski: Il mio partito al potere e tutti gli altri in prigione.
Ma anche più note sono le istanze critiche del Minghetti, con riguardo alla scena politica italiana, le motivate riserve dello stesso Adriano Olivetti, per non citare la lunga polemica che Ignazio Silone, una volta denunciato lo stalinismo già negli anni Trenta, non aveva mai smesso di alimentare nei riguardi del partito di massa, da ultimo sulle pagine della rivista che dirigeva con Nicola Chiaromonte, "Tempo presente".
Weber però non cede ad alcuna soluzione romantica, e perciò stesso scarsamente realistica. Critica, anche duramente, i politici, ma nonostante tutto ne riconosce la funzione.
L'esigenza tecnica, transideologica della razionalizzazione, che per Weber è la tendenza isomorfica sotterranea, ma potente, destinata a rendere sempre più simili, se non addirittura intercambiabili, i sistemi socio-politici nel mondo moderno, tanto da far cadere le stesse radicali differenziazioni fra socialismo e capitalismo, sarà dunque il deus ex machina, il fattore determinante della stessa evoluzione, in senso burocratico-razionale dei partiti politici. Ciò che Weber prevede è una situazione in cui, accanto e, anzi, grazie alla razionalizzazione, gli stessi partiti politici dovranno adottare procedure razionali: "Come gli italiani, e dopo di loro gli inglesi, hanno sviluppato la moderna organizzazione economica capitalistica, così lo sviluppo dell'organizzazione razionale di tutti i gruppi di potere umani, dalla fabbrica fino all'esercito e allo Stato, fondata sulla divisione del lavoro e sulla burocrazia specializzata, è stato promosso dai bizantini, e dopo di loro dagli italiani, quindi dagli Stati territoriali dell'epoca assolutistica, dalla centralizzazione operata dalla rivoluzione francese, e, infine, superando tutti gli altri con il loro virtuosismo, dai tedeschi ( ... ). Il futuro appartiene alla burocratizzazione ( ... ). La burocrazia moderna si distingue da tutti questi esempi più antichi per una caratteristica che àncora la sua indispensabilità ad un fondamento molto più definitivo rispetto alle altre burocrazie: la specializzazione e l'istruzione professionale di tipo razionale".
Ancora una volta, l'erudizione e il respiro storico dell'analisi weberiana sono impressionanti. Ciò che peraltro sfugge a questo analista acutissimo è il fatto che si possano far convivere, come avviene oggi in Italia, burocrazia razionale e pirateria politica, valutazione scientifica e rapina a mano disarmata, impresa capitalistica privata e impresa statale con scopi vagamente "pubblici", naturalmente applauditi dai volenterosi "letterati della politica", in realtà privatizzati a beneficio, più o meno occulto, di partiti e uomini politici.
Il "virtuosismo" italico risulta, almeno per questo aspetto, superiore a quello dei tedeschi. La distinzione weberiana fra uomini che vivono per la politica e uomini che vivono di politica c'è da temere che qui perda gran parte della stia consistenza. "Il politico di professione - scrive Weber - può essere un uomo che vive unicamente della politica e dei suoi meccanismi, delle sue influenze e possibilità. Oppure può essere un uomo che vive per la politica. Soltanto in quest'ultimo caso può diventare un politico di grande livello".
Ma Weber non può neppure immaginare la fusione, more italico, dei due tipi perché l'uomo politico per lui non può a tal punto mancare di "senso dello Stato". In Italia, oggi, Guicciardini ha vinto e ha avuto nettamente la meglio rispetto a Machiavelli. Hanno vinto la piccola politica del particulare, gli inconfessabili interessi dei partiti, dei ristretti gruppi di potere, delle fazioni, contro la politica come lotta ideale, condotta innanzi coerentemente per l'accesso al potere inteso in senso pieno, come imperium dello Stato e come servizio alle esigenze fondamentali della comunità.


I popoli dell'Unpo

Vandeani del XX secolo

Stati Uniti: Lakota-Sioux
Canada: Mohawk
Cile-Argentina: Mapuche, 1,1 milioni
Russia: Mari, 670 mila
Russia: Inkeri, 75 mila
Svezia: Scania, 1,5 milioni
Kosovo: Albanesi, 2,1 milioni
Albania: Greci, 400 mila
Serbia-Montenegro: Sangiaccato, 440 mila
Grecia: Turchi
Iraq: Turchi, 2,5 milioni
Iraq-Turchia-Iran: Kurdi, 25 milioni;
Iran-Iraq-Turchia- Siria -Libano: Assiri, 1,7 milioni
Nigeria: Ogoni, 500 mila
Tanzania: Zanzibar, 600 mila
Ruanda: Batwa, 75 mila
Russia: Komi, 315 mila
Russia: Chivash, 2 milioni
Russia: Udmurt, 480 mila
Ucraina: Tatari, 270 mila
Russia: Tataristan, 4 milioni
Georgia: Abkhazia, 205 mila
Russia: Cecenia, 1,4 milioni
Cina: Turkestan, 14 milioni
India: Khalistan, 21 milioni
Cina: Tibet, 6 milioni
India-Cina: Nagaland, 2,5 milioni
Birmania: Karenni, 300 mila
Filippine: Cordillera, 1 milione
Micronesia: Belau, 15 mila
Indonesia: Papua occidentale, 3 milioni
Indonesia: Timor orientale, 600 mila
Bangladesh: Chittagong, 600 mila
Indonesia: Acheh, 5 milioni
Indonesia: Molucchi del Sud, 1,5 milioni
Polinesia: Bougainville, 160 mila
Australia: Aborigeni, 228 mila


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