§ Un secolo fa

Tangentopoli Umbertina




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta, Edoardo Franchi
Collab. Franco Levi, Vanni Marini, Giovanna Eranio



Gli storici (tragici) avvenimenti del 1993 hanno fatto fiorire interpretazioni secondo Cui le grandi svolte di altre stagioni avrebbero punti di riferimento molto precisi con il giorno d'oggi. L'estate del 1943, con il crollo del regime e la scoperta che l'Italia tutta fascista il giorno prima era diventata improvvisamente tutta antifascista, sarebbe molto simile all'estate 1993, quando tutta l'Italia che cinicamente aveva saputo e persino vissuto grazie a corruzione si scopriva tutta indignata e tutta moralista.
Renzo De Felice si ribella: nella storia non c'è mai niente di uguale, dice; i corsi e ricorsi sono soltanto generici, altrimenti si potrebbe dire che Catilina equivale a Mario Chiesa. Ma anche se i paragoni non sono storicamente a prova di bomba, il gioco di mettere a confronto epoche diverse quanto meno aiuta a capire. Così si moltiplicano le ingegnose interpretazioni che accostano momenti lontanissimi. A riprova che la nostra storia unitaria è sempre stata densa di corruzione, velleità dittatoriali, governi che volevano trasformarsi in regimi e intrecci impropri tra politica e affari e tra cartelli del crimine organizzato e affari, ecco ora il ricordo del 1893, anno nel quale uno scandalo bancario, il più grave della nostra storia unitaria, quasi inabissò il Belpaese.
Napoleone Colajanni, il veemente parlamentare sici liano che con le sue denunce in Parlamento innescò lo scandalo: come Antonio Di Pietro, il magistrato che ha messo in ginocchio mezza classe politica.
Giovanni Giolitti, il presidente del Consiglio dell'epoca, travolto dallo scandalo ma destinato in seguito a fare la più importante carriera nella storia dei governi d'Italia: paragonabile a Craxi o ad Andreotti, probabilmente solo nella prima parte di questa avventura. Lo scandalo della Banca Romana 1893: un micidiale intreccio tra affari, finanza, politica, che lambì le soglie del Quirinale, coinvolse decine di ministri e deputati, scoppio come una spaventosa autobomba nel cortile già poco quieto di una politica italiana che in pochi anni avrebbe assistito ad avvenimenti devastanti come il fallimento della guerra d'Africa del 1896, la crisi di fine secolo, le velleità autoritarie dei generali del re, le stragi a Milano e infine, punto di non ritorno, il regicidio di Monza. Una materia scottante, intricatissima, romanzesca, e soprattutto di grandissimo interesse. Senza dubbio, è ardito paragonare quello smisurato scandalo di corruzione dell'Italietta" umbertina all'attuale Tangentopoli che ha quasi raso al suolo la Prima Repubblica. E' persino ovvio dire che ogni periodo storico ha le sue peculiarità, la sua logica interna, le sue forze in gioco: e che quindi paragonare Bernardo Tanlongo, lo spregiudicato banchiere-senatore che architettò la grande rapina, a Mario Chiesa o a qualcun altro sopra di lui è un esercizio intellettuale divertente ma da non prendere alla lettera. Eppure il legame c'è: e chi ha letto con immensa curiosità, con forte disgusto e con crescente amarezza e rabbia le cronache degli ultimi due anni troverà materia di paragone in un bel volume che Enzo Magri ha dedicato alla catastrofe economico-morale della Banca Romana.
E' trascorso un secolo: ma riteniamo senza ombra di dubbio che la cronaca più appassionante e il saggio storico definitivo su quella vicenda sia questo I ladri di Roma. 1893 scandalo della Banca Romana: politici, giornalisti, eroi del Risorgimento all'assalto del denaro pubblico. A distanza di cento anni, dunque, storie emblematiche di corruzione italiana. Tangentopoli la spunta per numero di parlamentari coinvolti, per furore popolare, per autotreni di lire rubate. Ma la rapina dell'istituto bancario sgovernato da Bernardo Tanlongo resta un paradigma insuperato della spregiudicatezza di una classe politica che si sentì e si mise al di fuori e al di sopra della legge. Nel 1893, come cento anni dopo, si arrivò a vette insospettate di imprudenza e di disonestà. Un intero ceto politico era convinto di essere immune e irresponsabile. Rubava a man salva, nella convinzione che nessun giudice, nessun Parlamento, nessuna opposizione lo avrebbe mai messo in mora. E, anche qui secondo una consolidata tradizione italica, rubavano tanto i partiti di governo quanto quelli dell'opposizione. Naturalmente, con le rispettive quote e secondo un perfetto "manuale Cencelli" del saccheggio.
La Banca Romana favorì le tangenti estorte da sovrani, da primi ministri, da deputati di maggioranza e di minoranza, da funzionari statali, da giornalisti (a magra consolazione, si potrebbe dire che quelli del 1893 erano anche peggiori dei confratelli del 1993), da Padri della Patria risorgimentali. E stampò denaro falso per cifre che per quell'epoca erano semplicemente vertiginose: dai nove ai trenta milioni di lire dell'epoca, e a quel tempo la lira era proprio buona.
Il solito, poverissimo e disgraziato popolo italiano subì tutto, esattamente come ora. A quei tempi non c'era il modello 740, ma soltanto nove anni prima era stata divelta a furor di popolo l'odiosa tassa sul macinato che affamava i contadini e di cui splendidamente racconta Riccardo Bacchelli nel suo Mulino sul Po.
Ci furono tentativi disperati per adottare provvedimenti-spugna che cancellassero le pene. Francesco Crispi, gran tenore garibaldino del Risorgimento e dopo poco tempo primo imperialista dell'Italia liberale, attacco violentemente Giolitti. Il patrimonio ideale del Risorgimento venne quasi disperso. "Dove andiamo?", si chiese con angoscia Pasquale Villari. E' un grido che si ripete anche ai nostri giorni.
Un vero e proprio romanzo, una storia intrigante e drammatica. Napoleone Colajanni, da soli due anni in Parlamento, deputato siciliano (con cattedra a Napoli) della Sinistra Estrema, il sabato 10 dicembre 1892 ricevette un biglietto sorprendente: "Illustre onorevole, venga questa sera alle 10 nella prima sala d'attesa della Camera. Le verranno forniti dettagliati elementi su un gravissimo scandalo nel quale è coinvolto il governo. Sono in gioco le sorti del Paese. Non manchi, l'aspetto. Un amico".
Nelle storie di questo genere non manca mai una gola profonda. E per trovare la sua, quella notte, come nel più classico dei romanzi gialli, sospettando di essere preso in giro, Colajanni si recò nella sala del Parlamento densa di ombre, mentre i commessi attizzavano le fiamme dei lumi a petrolio. E si vide venire incontro Maffeo Pantaleoni, grande nome dei nostri studi economici. Pantaleoni gli fece vedere (glielo consegnò in un secondo momento) il micidiale rapporto Alvisi-Biagini che scoperchiava tutto l'immondo verminaio governativo.
Da questo momento si snoda una "storia all'italiana" come un'appassionante sequenza di scene teatrali in cui si muovono decine di protagonisti e di caratteristi: il viscido Tanlongo, l'irruente Crispi, la volpe piemontese Giolitti, il Papa desideroso di uscire dal Vaticano per riprendersi "Roma usurpata", l'arrogante Nicotera, i funzionari fedeli, l'implacabile accusatore Colajanni, e quel discusso re Umberto I che passerà dagli scandali interni alla disastrosa avventura africana finita nella catastrofe di Adua, che con le congiure della corte farà pensare a un colpo di Stato, che applaudirà alle cannonate di Bava Beccaris e ai massacri di Milano e infine avrà la sua tragica "punizione" in quel di Monza, il 29 luglio 1900.
Se poi si esclude l'incipiente questione africana che fa da prologo al tramonto umbertino, altri temi dominanti dell'epoca erano la diffusa criminalità e la riforna elettorale, che nell'andirivieni dei governi ballerini e instabili veniva continuamente riproposta e ritirata tra l'ostilità dei conservatori. Vent'anni dopo l'Unità, l'"Italietta" debole e scollata era alle prese con problemi che attenevano la pura sopravvivenza, uno straccio d'istruzione per tutti, l'incolumità fisica, così che i tempi non sembravano meno calamitosi e cupi di quelli di Leopardi, il quale scrivendo al padre da Roma diceva che conveniva sempre tremare per gli amici e i parenti che si trovavano fuori la sera, "non passando sera che non accada qualche assassinio ... ".
Nel 1875 il ministro dell'Interno Cantelli aveva proposto due provvedimenti straordinari di Pubblica Sicurezza per combattere "mafia e camorra". Ma Crispi, siciliano, era insorto, più che mai sdegnato. I provvedimenti governativi ledevano la dignità del Mezzogiorno, criminalizzavano un'intera popolazione e dividevano il Paese in cittadini onesti da una parte e in reprobi dall'altra. E' brutto - disse il vecchio garibaldino - dividere l'Italia in due pezzi anche moralmente. Non è carità di patria supporre che la moralità delle popolazioni del Mezzogiorno sia inferiore alla moralità di quelle che sono al Nord".
In quella stessa circostanza fecero scalpore le dichiarazioni dell'onorevole Diego Taiani, già Procuratore generale presso la Corte d'Appello di Palermo, che incominciò definendo i mafiosi "oziosi, i quali non avendo mestiere di sorta intendevano di vivere e talvolta di arricchire per mezzo del delitto". Qualcuno era convinto che l'affievolimento del sentimento religioso fosse in gran parte causa del fenomeno mafioso. Al contrario per Taiani lo sviluppo del fenomeno criminale era dovuto al pervertimento del sentimento della religione. E in proposito raccontò un episodio.
Nel 1868 alla Procura gli era venuto sott'occhio uno strano documento, una bolla pontificia che non aveva ancora ottenuto l'exequatur. In sostanza, con questa bolla la Curia romana autorizzava tutti i confessori della Sicilia a transigere con coloro che avevano perpetrato ogni sorta di delitto e la transazione si faceva a suon di denaro. Stupro, omicidio, rapina: tutto aveva un prezzo. Assassinii, furti, rapine, grassazioni rimanevano in gran parte impuniti grazie alle connivenze tra questura e malavita. Nel 1871 il questore di Palermo, Albanese, era stato rimosso per collusione con la mafia. Il degrado morale non risparmiava la vita pubblica e l'occasione di una sterzata venne col ritorno al potere nel 1880 di Agostino Depretis da Stradella, il quale nell'intento di allargare la base del consenso aggregò alla maggioranza di sinistra elementi di destra, dando luogo ad un esperimento tipicamente italiano: il trasformismo.
Depretis presentò alla Camera un disegno di legge per la riforma elettorale basato sul principio dello scrutinio di lista e dell'allargamento del suffragio universale. La base si ampliò, ma non più di tanto. E' vero che il progetto abbassava l'età dell'elettore da venticinque a ventuno anni, dimezzava la quota d'imposta necessaria per esercitare il diritto di voto, ma restavano esclusi, oltre a tutte le donne, anche i maschi che non avessero frequentato almeno la quarta elementare o servito nell'esercito per almeno due anni.
Cavallotti, a nome dei circoli democratici, protestò contro questa ipocrisia legale che dava diritto di cittadinanza soltanto ad una minoranza della popolazione. il 24 marzo ebbe inizio la discussione in aula sulla riforma elettorale. La sinistra storica vedeva nello scrutinio di lista un mezzo per colpire le clientele elettorali dei moderati che dominavano nei collegi uninominali dei piccoli centri, in particolar modo nelle regioni del Mezzogiorno, con poche centinaia di elettori facilmente manovrabili.
Il nuovo sistema elettorale raggruppava e diminuiva il numero dei collegi, presentava liste con più candidati, rompendo, nelle intenzioni, il rapporto di complicità tra candidato unico ed elettore. Ma non tutti la pensavano in questo modo. Fedele interprete delle tesi governative fu l'onorevole Lacava il quale, parlando in favore dello scrutinio di lista, affermò che esso avrebbe elevato la coscienza degli elettori facendo sparire ogni idea di campanilismo; avrebbe, abolendo i feudi elettorali, reso più degni e liberi gli stessi deputati; avrebbe favorito l'organizzazione e lo sviluppo dei partiti e impedito l'ingerenza governativa e il dilagare della corruzione.
Giustino Fortunato, meridionalista e galantuomo, difese invece a spada tratta il collegio uninominale. A parte che il suffragio universale l'avrebbe voluto universale per davvero e che esso era punitivo per il Sud perché là c'erano molti più analfabeti che al Nord, affermò che semmai lo scrutinio di lista accresceva la corruzione e il dominio dei grandi elettori. Inoltre snaturava il principio della rappresentanza. Lo snaturava perché l'elezione era la scelta di un uomo, non di un partito o di una bandiera.
Con lo scrutinio di lista non si badava alle qualità personali, all'ingegno, alla probità. Concluse che il Collegio uninominale, ravvicinando il candidato all'elettore, dava la garanzia di un criterio di scelta più coscienzioso. Il nuovo sistema, approvato nel 1882, favorì le camarille e i gruppi di potere che manovravano il Parlamento a danno delle rappresentanze singole e della volontà popolare.
Il degrado sfociò nello scandalo della Banca Romana, il più sensazionale del secolo. Nel 1891 lo scrutinio di lista venne abolito e si tornò al collegio uninominale. Ma la crisi del regno era irreversibile. Le leggi le fanno gli uomini e forse non bastano. Resta il rammarico che non cambino la natura umana.

La fine delle Grandi Famiglie
Si può misurare il ritardo del Sud sui tempi di flop delle Grandi Famiglie. Nelle regioni meridionali cominciarono a sparire dalla circolazione nel dopoguerra e nel corso degli anni Cinquanta: l'agricoltura andò a rotoli, l'economia italiana incominció ad entrare nel circuito internazionale dei Paesi industrializzati, l'emigrazione di milioni di contadini e di disoccupati fece il resto. Chi non ebbe la capacità, la prontezza, il coraggio di trasformare la propria economia, una volta fondata sul settore primario, colò a picco. Chi non introdusse le colture primaticce, specializzate, d'esportazione, o chi non fu in grado di trasformare grandi territori agricoli in aree di lottizzazione edilizia, fece la stessa fine.
Trent'anni dopo, è stata la volta delle imprese industriali, vale a dire delle Grandi Famiglie del Nord: chi non ha rinnovato gli impianti, ristrutturato, ammodernato, agganciando la produzione ad una solida politica commerciale, è crollato. Chi non ha diversificato, concentrato, investito, ammortizzato convenientemente, e chi non ha tenuto sotto controllo i debiti e le esposizioni bancarie, ha fatto la stessa fine. La storia, che poi finisce per non insegnare nulla, si è ripetuta. La crisi di tante Grandi Famiglie, dove la prima generazione lavorava sodo e faceva i soldi, la seconda li spendeva ma non distruggeva il patrimonio e la terza infine arrivava alla frutta, è sotto i nostri occhi.
A guardare gli imperi di famiglia degli anni Settanta ad oggi, le sorprese non mancano. Chi ricorda ancora che sono esistiti i Motta, gli Alemagna, gli Invernizzi? Nel 1960 scomparve Adriano Olivetti. Gli credi riuscirono a tirare avanti soltanto quattro anni, poi dovette intervenire un consorzio di salvataggio guidato da Mediobanca che, nel 1978, passò la mano all'ingegner Carlo De Benedetti. Nell'azienda, dei dodici Olivetti viventi della terza generazione, c'è solo il cugino Davide, che lavora all'ufficio design.
Quanto agli elettrodomestici, che procurarono quasi da soli il Nobel alla nostra lira, e furono protagonisti degli anni del boom, stessa caduta a vite. I Borghi hanno dovuto cedere la Ignis al gruppo olandese Philips; gli Zanussi, dopo la morte di Lino, il fondatore, si erano affidati a un manager che sembrava bravissimo, ma che alla fine, di fronte alla prospettiva di Un crac, fu costretto a vendere tutto alla Electrolux. Gianfranco Zoppas, crede di un'altra dinastia di elettrodomestici, e marito di Antonia Zanussi, è l'unico di famiglia nel gruppo: fa il supermanager e presiede la Zanussi grandi impianti.
Quanto ai Buitoni, il gran nome della pasta e dei cioccolatini Perugina, ormai passano il tempo a ricordare quel maledetto 1985 in cui cedettero l'azienda gravemente indebitata all'ingegner De Benedetti per una cinquantina di miliardi. Tre anni dopo, De Benedetti, dopo una drastica cura di ristrutturazioni e di risanamenti, girò tutto alla Nestlé per 1.500 miliardi: uno degli affari più clamorosi mai portati a termine.
Brutta fine anche per i mitici nomi dell'editoria: i Rizzoli, i Mondadori. Angelo Rizzoli oggi fa il produttore cinematografico, e il suo gruppo di periodici e quotidiani come il "Corriere della Sera" finì dapprima in amministrazione controllata e poi sotto il controllo della Gemina, la finanziaria in cui la Fiat ha per ora la maggioranza relativa. Quanto ai Mondadori, basta guardare gli annunci di Borsa per capire la tristezza di un tramonto: la celebre Ame, la Arnoldo Mondadori Editore, è fusa nella Sbe, la Silvio Berlusconi Editore. A Leonardo Mondadori e a Luca Formenton, i due cugini che avevano ereditato il patrimonio, non restano che posti di consolazione nei vari consigli di amministrazione.
"Appena vedo un foulard con il nome della casata mi commuovo, e la stessa cosa capita a mio fratello Piero", diceva Giansandro Bassetti, ricordando, nel 1985, l'abbraccio obbligato con il gruppo Marzotto. Ma non è il solo ad avere questi sentimenti: anche Eva Agnesi, la gentile e decisa manager che gestiva con competenza il pastificio ligure, ancora oggi rammenta con profonda amarezza la lunga battaglia familiare che l'ha costretta a passare la mano ai francesi della società Bsn-Danone.
Quanto agli Innocenti, dopo aver fatto fortuna negli anni Sessanta con la "Lambretta", sono stati costretti a mollare. Stessa storia con i Borletti, ormai in mano Fiat. Gli Agusta prima hanno trasferito gli elicotteri all'Efim, e ora, dopo la morte del conte Corrado, gli credi, il figlio di primo letto e la vedova si sfidano nelle aule del tribunale per controllare l'eredità. in tribunale erano finiti anche i Gucci che poi hanno preso miglior partito, vendendo il marchio agli arabi. Meno fortunati di loro, oltre ai Lauro, i Fassio, celebri armatori rimasti senza flotta ormai da decenni, in seguito a un vero e proprio crac.
E la mitica Anna Bonomi Bolchini, quella che si era meritato il soprannome di signora della finanza italiana per il suo ruolo nella Bastogi, la finanziaria-salotto buono dell'Italia del boom? Come frequentatrice della Scala è sempre in auge. Ma come personaggio della finanza uscì di scena quando il figlio Carlo, alla guida della Bi-Invest, si lasciò tranquillamente scalare da Francesco Micheli per conto di Mario Schimberni, allora potentissimo presidente della Montedison.
Quello che a qualcuno sembrò un vero e proprio scippo portò invece fortuna a Carlo Bonorni e sfortuna a Schimberni: il primo si buttò nella Saffa costruendo un piccolo impero, l'altro fu colto da uno sfrenato desiderio di potere che lo portò a sfidare Mediobanca, ad entrare in Fondiaria, e infine ad essere scalato da Raul Gardini. Oggi la parabola di Schimberni, il manager che aveva giocato contro i suoi padroni, è arrivata alla fine: entrato nell'editrice Curcio, attualmente deve fare i conti con l'amministrazione controllata. Ed ètragicamente nota la fine dell'altro scalatore, Gardini, mentre i Ferruzzi, ormai stremati, contano quanto il due di picche. Peggio di così...

Roma docet
"Si dice che ad Efeso, famosa e grande città greca, esiste un'antica legge, che pur essendo molto severa non è certamente ingiusta. L'architetto, infatti, assumendosi l'incarico di eseguire un'opera pubblica, deve garantire per giuramento l'entità della spesa, e i suoi beni, il cui ammontare viene stimato dal magistrato, vengono ipotecati fino al completamento dell'opera. A lavoro ultimato, se la spesa corrisponde al preventivo, egli viene pubblicamente lodato e onorato; se la spesa supera il preventivo di un massimo di un quarto, il maggiore dispendio va a carico dello Stato e l'architetto non subisce alcuna penale; se la spesa risulta invece più elevata, la differenza si prende dai suoi beni". Così si legge nella prefazione al Libro X del "De Architectura" di Vitruvio, architetto e trattatista romano del primo secolo a.C.
Le più immediate considerazioni che possono farsi dalla lettura del brano sono evidenti: ammesse le responsabilità di politici e imprenditori dei nostri giorni, dove sono i nomi dei liberi professionisti che, relativamente a lavoro e ad opere pubbliche, hanno firmato gli stati di avanzamento in sede di appalti e, specularmente, in sede di progetto? E di quelli che hanno firmato le varianti in corso d'opera e le perizie suppletive? Assolti o assolvibili perché affetti da timor reverenziale nei confronti dei primi?
Qualcuno dovrebbe tener conto di quanto Cicerone severamente disse durante il processo al senatore Verre (70 a.C.) che `rubò con gli appalti e impose i suoi parenti" e contro i colleghi che lo difesero "tirando in lungo e ricordando che era abitudine generale": "Questo è il processo in cui voi giudicherete l'imputato, e il popolo romano giudicherà voi".

Ricordare Bisanzio
Bisanzio fu "il trionfo della barbarie e della religione" scrisse il laico Gibbon. in realtà, questa metropoli ebbe un'esperienza di governo di millecinquecento anni: "Non vi è monarchia antica , non quella degli Assiri e dei Medi, né dei successori di Ciro e Alessandro, che offra esempio d'un Impero di così lunga durata". Bisogna ricordare Bisanzio, quella della realtà storica, per capire che cos'è la corruzione. Intendiamo dire la Bisanzio di Teodora "meretrice sul trono", per capire perché nel Parlamento italiano sia finita in tempi recenti una sua moderna replica; e la Bisanzio giustinianea, con l'imperatore passato alla storia per il suo "Codice`, ma che si sarebbe distinto, secondo gli Anekdota di Procopio, nell'accusare "qualcuno di colpe mai commesse, interpretando le decisioni altrui come donazioni a suo beneficio. Molti, dimostrati rei di omicidio o di altri delitti, gli cedettero i propri beni e riuscirono così a scampare alla punizione; persone che contendevano ai vicini terre sulle quali non avevano alcun diritto, non riuscendo a prevalere nel giudizio arbitrale, risolvevano la situazione donando l'oggetto della lite all'imperatore: così, con un regalo che non era costato un soldo, guadagnavano di mettersi in luce ai suoi occhi e con un espediente d'inaudita iniquità trionfavano giuridicamente siigli avversari".
Palude politica e incendio sensuale. Fu la Bisanzio di Antonina, di Teodora, di Belisario, di Giustiniano, che D'Annunzio evocò nella Comnena della Gloria, nella Dogaressa del Fuoco, e in particolare nella Basiliola della Nave, veneziana "femmina da macelli" dal nome intrigante di "basilisse" sovrane a Costantinopoli: donne fatali, protagoniste di storie d'alcova già raccontate nel VI secolo da Procopio.
E' specularmente, gli uomini rapaci, rotti a tutte le esperienze di corruzione e di "tangentismo". Procopio riferisce gli abusi del referendario Leone, segretario imperiale, il quale persuase Giustiniano alla compravendita della giustizia: "Se uno si metteva in testa di far causa ingiustamente ad una persona dabbene, andava direttamente da Leone, pattuiva di passare a lui e all'imperatore una buona fetta del patrimonio in questione, e il gioco era bell'e fatto: se ne usciva dal Palazzo con la vittoria in pugno". Proviamo a sostituire "causa ingiusta" con "appalto": il prodotto non cambia. La complicità tra corrotto e corruttore è perfettamente proiettabile ai nostri giorni. E ove occorresse ricordare che, come ai nostri giorni, l'autorità "non esitava ad attingere anche alla borsa dell'avversario", non avremmo difficoltà di raffronti. Allora si trattò di basiliche, di cisterne, di ricoveri, e magari anche di mosaici: da Santa Sofia in Costantinopoli ai mosaici ravennati. Ma sempre di tangenti si trattò. E oggi si tratta di strade, ospedali, aeroporti, opere "benefiche", pie e soccorrevoli, con componente tangentizia incorporata. Non dimenticare Bisanzio.

Colpe & discolpe

Il silenzio complice dei "savants"

Qualche tempo fa leggemmo un libro, Perché odio i politici, di Guido Almansi. Si trattava di un 'indagine: un centinaio di intellettuali veniva invitato a dichiarare il proprio dissenso nei confronti dei potenti e dei potentati della terra, arbitri del conseguimento di un incarico, di una licenza amministrativa, di un posto, di una speculazione. Il libro non ebbe gran fortuna, circolò a fatica. Creava troppi imbarazzi. Eppure, diceva molte verità. Gli intellettuali interpellati parlavano all'epoca del referendum sull'abolizione delle preferenze. A quel tempo, la corruzione dei partiti era assodata, ma le dimensioni del .fenomeno erano pressoché sconosciute, e ci sarebbe voluta l'inchiesta "Mani pulite" perché crollasse la sottostima delle cifre relative e assolute. Quell'inchiesta avrebbe messo in luce una delle maggiori ruberie collettive della storia italiana, con entità e modalità sconosciute anche in altri, e non puliti, Paesi europei, a differenza del nostro non disgregati da due milioni di miliardi di debito pubblico, dal disservizio permanente dei servizi pubblici, dalla rovina del paesaggio, dai saccheggi delle, acque e delle coste, dall'abbandono delle opere d'arie.
Il risultato della grande corruzione, piaccia o no, è stato valutato in una ventina d'anni di economia da dopoguerra. Di chi la colpa? Chi ha taciuto? Giorgio Montefoschi colpevolizza gli uomini di cultura più che i politici: "Si sa, gli intellettuali sono fatti tutti allo stesso modo: rubano i soldi nei giornali, alla televisione ( .. ) e coi politici sono dei lacché". Secondo altri, la colpa non spetta agli intellettuali, ma a un po' tutti: governanti e governati, tutti insieme appassionatamente rotti alla ruberia, all'espediente e all'intrallazzo. E' la teoria del "siamo tutti assassini", di una società di malaffare che annulla il concetto stesso di disonestà, perché "tanto sono tutti quanti disonesti". E' la tesi sostenuta da Andrea Barbato, da Furio Colombo e da Renato Minore. Mario Spagnol dà tutte le attenuanti, specifiche e generiche, ai politici: "Mi sa tanto che questo odio verso i politici sia la disperata ricerca di un capro espiatorio".
Contro il generale coinvolgimento insorge Roberto Mussapi: "Un luogo comune dice che ogni popolo ha i politici che merita.. a chi lo ha inventato rispondo di parlare per sé, io non li merito, e centinaia di persone che conosco non li meritano".
C'è chi divaga, chi ci gioca su, chi puntualizza aspetti marginali, chi punta a minimizzare. Roberto Pazzi si chiama fuori, perché la politica "gli fa schiffo". Vincenzo Consolo procede per paradossi: "La nostra
Nazione oggi è una strapotenza industriale. E' un Paese ricco e felicissimo. Lo si vede pure alla tv. Il denaro da noi scorre a fumi, precipita a cascate". Giuseppe De Rita difende invece la supremazia intellettuale dei politici che, a suo avviso, sono dei "ragionatori" finissimi, mentre Beniamino Placido mette sotto accusa il nostro precario assetto sociale. Se si eccettuano Corrado Augias, Giovanni Raboni e Saverio Vertone, e pochi altri, manca la percezione dell'enormità di quanto è accaduto, di quanto dovrà ancora accadere, di quanto con le parole belle o sagge non si possa travalicare una situazione terribile. La percezione è presente in chi osserva che un larghissimo ceto di persone cerca di vivere alle spalle degli altri, e ciò ha creato un sistema che va verso l'autodistruzione: come fu per l'Impero Romano, che si collassò quando l'unica classe produttiva, quella dei contadini, non fu in grado di sostenere le altre classi, tutte parassitarie. Al di là di questa furbesca ed eccentrica interpretazione della storia, insospettisce il capofila di questo pensiero: Gianfranco Miglio. Il suo verbo riporta alle dichiarazioni di quanti, fra tante opinioni intese a stabilire le responsabilità di questo o di quello (ma per lo più di tutti, e dunque di nessuno), hanno dato la colpa all'elettorato. Quale elettorato? Quasi quasi ve lo lasceremmo immaginare. Ma ve lo riassumiamo a onore e gloria dell'intelligenza di codesti intellettuali: la colpa di ogni rovina spetta sì ai partiti politici, ma soprattutto agli italiani del Sud che a questi partiti hanno demandato il saccheggio. E vi pareva!


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