LETTERATURA
E INSULARITA' UNA PREMESSA MALTESE
In un vasto inondo
largamente costituito da grandissime terre e spesso condizionato dalle
loro vicende, ad esclusione di tutte le altre, il ruolo specifico
che deve essere svolto dalle minoranze nazionali non è facilmente
definibile. E' naturale che lo schieramento dei Paesi, in sede politica
e culturale, si riduca praticamente ad uno schieramento di forze organizzate
in un insieme, in un grande corpo rappresentativo delle tendenze più
tipiche delle maggioranze.
D'altro canto, la stessa esistenza delle piccole nazioni si traduce
in una continua sfida. In primo luogo le minoranze provano la dura
necessità di sopravvivere, di cercare il proprio sviluppo secondo
un ritmo già determinato dalle correnti principali. C'è
pure il vivo desiderio di farsi sentire, di guadagnarsi uno spazio
vitale, pur limitatissinio, entro il quale poter svolgere compiti
degni di una nazione.
Questa dura lotta per il potere politico C culturale è già
definita in termini geografici. La limitatezza territoriale è
una condizione insuperabile che porta con sé una serie di preconcetti,
particolarmente se si tratta di isole autonome come Malta, o di regioni
di un Paese assai più grande, come Sicilia e Sardegna. Nonostante
ogni tipo di vero progresso interno, la limitatezza dei confini rimane
la prima qualità della definizione internazionale di tale entità
geografica. Ad ogni modo, anche un trattamento liberale, per così
dire, può suscitare perplessità. Ad esempio, si parla
spesso allo stesso tempo e nello stesso contesto di Paesi di diversissime
dimensioni, senza tenere in mente l'implicita assurdità. Ci
sono isole come Malta che sono indipendenti, ed altre, come Sardegna,
Sicilia e Corsica, che sono parti di una nazione molto più
estesa. Ma siccome anche un piccolo Paese come Malta costituisce in
sé una totalità e ha una stia autonomia formale, questa
stessa entità va considerata, sotto tutti gli aspetti, come
una entità completa. In pratica, un Paese come Malta non significa
più, almeno geograficamente, di una città fra tante
altre che, prese tutte insieme, costituiscono un grande Paese. Dunque,
l'autonomia è qui uno svantaggio, una specie di condanna dignitosa
o semplicemente una condizione che va riconosciuta senza discussione?
E' evidente che, almeno internamente, questa condizione naturale dà
luogo ad un dibattito che sembra interminabile, tormentato e pieno
di contrasti, e che si nasconde nell'inconscio collettivo dei cittadini.
Spesso capita che tale condizione diventi una fonte di ispirazione
per le pagine letterarie più belle: il limite diventa lirica,
l'isolamento impone il bisogno di scoprire nuovi spazi. La letteratura
dell'infinito e del cosmico spesso nasce dalla consapevolezza del
"contrario" come condizione insuperabile.
La condizione
storica
L'appartenenza di un piccolo Paese ad un altro più grande (visto
come veramente completo) è un argomento che spesso riemerge
nel dibattito dei maltesi su se stessi. Un breve cenno alla storia
politico-culturale maltese di questi ultimi duecento anni può
mettere in rilievo la condizione in cui si agita lo stato d'animo
del popolo. Pur avendo subito, lungo questo itinerario, una intera
gamma di modifiche, lo spirito maltese ha mostrato un carattere fondamentale,
che non sembra facilmente modificabile.
Per interi secoli Malta partecipava da vicino alla cultura dell'Italia.
Era italiana la lingua delle relazioni ufficiali, della cultura, delle
attività svolte dalle istituzioni più importanti, come
la Chiesa cattolica. I letterati hanno formato una tradizione locale
con ispirazione, forme tecniche e scelte tematiche e metaforiche di
diretta derivazione italiana. Per un lungo tempo gli intellettuali
maltesi si consideravano maltesi comportandosi di conseguenza. Ma
più che di un avvicinamento si trattava di un completo inserimento,
da parte maltese, nel mondo culturale della penisola. Nell'assenza
di una tradizione dotta in lingua maltese, di origine araba, l'assimilazione
dell'eredità italiana si configurò in eredità
"autenticamente" maltese. Lo spirito maltese prescindeva
dai limiti imposti dalla separazione geografica e si definiva italiano
senza allo stesso tempo chiedersi quale fosse la sua vera identità
come abitante di un territorio particolare.
Quando andava maturando in Europa il senso dell'identità nazionale,
a Malta cominciava a manifestarsi in diversi modi una forte presa
di coscienza politica e culturale. Attraverso questo intimo e ininterrotto
rapporto tra Malta e Italia, è stata la stessa sensibilità
romantica italiana a suggerire alla ribalta maltese l'esigenza di
un radicale esame nazionale. Il Risorgimento ha contribuito molto
alla nascita di una coscienza collettiva maltese. La presenza di numerosi
esuli italiani, la loro vasta attività a Malta nel campo delle
lettere, del giornalismo e della politica, e la simpatia tradizionale
dei maltesi verso i loro vicini hanno dato ai maltesi la possibilità
di osservare quale fosse il significato più autentico e più
pratico delle conquiste romantiche. Per la prima volta in tutta la
loro storia i maltesi chiesero a se stessi quale fosse la loro più
autentica identità. Si tratta di un discorso condotto alla
luce della loro molteplice appartenenza storica e culturale. i maltesi
hanno avuto una lunga tradizione culturale italiana, parlano una lingua
di origine semitica (il risultato complessivo della presenza araba
durante il periodo 870-1090), e nell'epoca risorgimentale erano sudditi
coloniali del governo britannico. La loro condizione politica introdusse
un altro punto di riferimento: la presenza e poi la diffusione della
lingua e della cultura del potere straniero.
Culturalmente i maltesi erano in gran parte italiani; politicamente
erano inglesi; linguisticamente si trovarono di fronte ad una scelta
difficile. L'italiano era la lingua scritta della classe colta; l'inglese,
con il passare del tempo, diventava sempre più la lingua della
vita ufficiale; il maltese, allora ancora privo di un regolare sistema
ortografico, continuava ad essere scritto arbitrariamente (particolarmente
dal 1839 in poi, quando fu concessa la libertà di stampa) e
immancabilmente parlato dalle masse e anche da tanta gente di cultura.
Il romanticismo, dunque, ha contribuito immensamente alla formazione
di una forte consapevolezza che, pur essendo apparentemente linguistica,
era profondamente politica e culturale: l'italiano sembrava la lingua
dell'antica dignità nazionale, mentre l'inglese si configurava
in un altro emblema di imposizione coloniale. Quest'ultimo era, in
primo luogo, la lingua dei dominatori stranieri. Per quanto riguarda
il maltese, che oggi gode di tutti i riconoscimenti ufficiali ed è
la lingua più importante dell'isola, si deve aggiungere che
sono stati i letterati maltesi di cultura italiana (come Mikiel Anton
Vassalli, Gan Anton Vassallo, Antonio Emanuele Caruana, Anastasio
Cuschieri, Dun Karm, Guzè, Muscat Azzopardi, Ninu Cremona)
ad avere iniziato un intero programma di sperimentazione tecnica e
di diffusione culturale, oltre allo svolgimento di una gamma tematica
tradizionale, in questa lingua. Con la loro assidua attività
la lingua assumeva sempre più il carattere di strumento culturale
degno e adatto.
La partecipazione, pratica e morale, dei maltesi alle varie attività
degli esuli risorgimentali italiani, particolarmente durante il periodo
1804-1860, ha favorito la formazione dei primi gruppi politici, la
scoperta della lingua maltese come documento fondamentale di cultura
e strumento di istruzione pubblica, e quindi la graduale formazione
di una letteratura concepita romanticamente, cioè ispirata
alle idealità di tutte le stratificazioni sociali. Il dibattito
politico e linguistico che ha caratterizzato la storia sociale del
Paese lungo quasi tutta la prima metà del Novecento è
adesso terminato. Ma i residui rimangono e spesso risalgono alla superficie
in diverse maniere.
La poetica
dell'identità
Il superamento del problema linguistico-culturale, che ha visto il
riconoscimento del maltese e dell'inglese come lingue ufficiali e
che ha dato al maltese lo spazio necessario entro cui si poteva creare
una letteratura "autonoma'' e moderna, non significava il superamento
del problema politico. Prima della conquista dell'indipendenza nel
1964 i maltesi avevano formato due coscienze nettamente distinte e
opposte l'una all'altra: la coscienza che guardava verso l'Italia
come la madre terra, e la coscienza che vedeva nell'Inghilterra il
nuovo paradiso economico che, mediante una totale integrazione con
essa, poteva garantire il futuro dell'isola.
Il confronto linguistico si risolveva ovviamente in un confronto di
appartenenza. Si trattava, in ultima analisi, di una stagione agitata
e ambiziosa priva di risultati duraturi. I culti del fascismo e dell'imperialismo
furono subito spazzati dalle onde di una nuova generazione che vedeva
nell'indipendenza l'unica via che doveva essere seguita.
Lo svolgimento delle vicende internazionali e la maturazione del senso
dell'identità nazionale hanno distrutto le possibilità
rispettive delle due scelte, conducendo la popolazione ad un consenso,
pur non privo di aspri contrasti, di fronte alla sfida di una totale
indipendenza dal governo coloniale.
Ma anche l'indipendenza di una minoranza nazionale, pur essendo una
conquista, rimane problematica, e con il passare del tempo le antiche
difficoltà assumono nuove sfumature e chiedono diverse soluzioni.
Ad esempio, continua sii vari livelli il dibattito sulla vera identità
storica del popolo maltese. Un esame del passato continua a farsi,
e le tendenze della popolazione spesso oscillano tra una posizione
e un'altra entro la cornice delle precedenti condizioni storiche.
Anche qui l'evidenza offertaci dalla riflessione letteraria sembra
la più idonea.
La letteratura romantica maltese, quella cioè che si svolgeva
lungo l'Ottocento fino agli anni Sessanta di questo secolo, ha sublimato
la visione di una patria nettamente distinta dalle altre e ha ribadito
il concetto dell'identità nazionale. 1 poeti e i romanzieri
hanno rivisitato nostalgicamente tutte le epoche della storia per
mettere in rilievo la forza di resistenza degli antenati - i "padri"
- di fronte alle sfide di annientamento. Le epoche storiche sono viste
come un lungo e faticoso cammino verso l'autodefinizione. Il conflitto
tra lo straniero (l'oppressore ingiusto e spesso infedele) e il cittadino
maltese (l'oppresso che si ribella e che è pieno di fede) è
il tema fondamentale che poi si andava trasformando in un emblema
politico. La lotta mortale tra il bene e il male è qui ridotta
ad un confronto tra due nazioni.
Il binomio mazziniano Dio e Popolo si tradusse con facilità
in un programma di rivincita nazionale. Il poeta nazionale Dun Karm
(1871-1961) è riuscito a tradurre la storia antica in autentica
attualità e a sciogliere le vicende dei padri in una psicologia
dei contemporanei.
Con l'arrivo dei tempi nuovi, che per Malta iniziano su larga scala
negli anni Sessanta di questo secolo, la scoperta dell'identità
storica andava perdendo il suo significato. Il concetto di individualità
si è trasformato per la nuova generazione intellettuale in
un dilemma. Tanta letteratura maltese di questi ultimi venti anni
è fondata sull'idea dell'identità maltese concepita
come problema. La certezza tradizionale si è sciolta in uno
sconvolgimento che investe tutti gli aspetti della vita. Lo spazio
limitato del Paese è diventato claustrofobico, la storia ha
perso il suo carattere epico e sacro, assumendo allo stesso tempo
la funzione di uno spunto ironico. L'inno si tradusse in satira, e
la fede nella patria divenne sfiducia struggente in una terra priva
di prospettive, almeno intellettuali. L'eroe, una volta sublime portavoce
di un intero popolo, si ritirò nel labirinto dei dubbi e delle
incertezze. L'anti-eroe moderno maltese è un tipo psicologico
molto diffuso, una personificazione delle delusioni di una nuova generazione
che si nega la facoltà di creare quelle che i romantici chiamavano
conquiste e che adesso si definiscono illusioni e preconcetti. L'analisi
fatta da questo gruppo non è del tutto giusta, giunge frettolosamente
a facili conclusioni, e spesso perde di vista le vere condizioni storico-culturali
che hanno condotto al rinnovamento effettuato dai romantici. Ma il
loro discorso costituisce un sicuro punto di riferimento per la conoscenza
delle aperture puramente letterarie.
La narrativa tradizionale ha guardato l'emigrazione come esilio; gli
autori moderni, alcuni dei quali cercano di scoprire di volta in volta
i Paesi stranieri come turisti spirituali e irrequieti, la guardano
come un superamento delle restrizioni territoriali. Questo aspetto
è di particolare importanza, dal momento che ci sono più
maltesi dispersi nel mondo che a Malta. Alla base di questa mentalità
c'è un radicale cambiamento di prospettive. Malta non è
più vista come un piccolo mondo a sé, capace di condurre
in silenzio una propria vita al di là delle tensioni che si
agitano nei grandi centri. La psicologia moderna maltese vede l'isola
come una parte di un intero continente, e spesso sente la lontananza
come esilio insuperabile. La posizione geografica e le possibilità
legate al valore strategico dell'isola, le diverse vie scelte dai
politici nel campo dei rapporti internazionali, e le incertezze che
caratterizzano un mare così turbato e irrequieto come il Mediterraneo
sono alla base della riflessione maltese sull'isola, sull'intera regione
e sul mondo.
Una definizione
ambigua
Il dualismo culturale dell'isola, particolarmente riflesso nel campo
linguistico, contribuisce all'ambiguità che sembra caratterizzare
la condizione psicologica dei maltesi. La cultura è fondamentalmente
europea, satura di influssi latini e particolarmente italiani; la
lingua nativa è largamente cresciuta attraverso un complesso
processo di assimilazioni lessicali e sintattiche e idiomatiche tutte
integrate con il proprio carattere semitico.
il futuro di Malta sembra determinato da una duplice sfida: quella
di aprirsi ai nuovi contatti continentali ed extracontinentali, e
quella di non lasciarsi trascinare dai nuovi sviluppi che possono
distruggere con facilità la sua antica identità. Non
è facile distinguere con chiarezza, comunque, tra un tipo di
nazionalismo fuori moda e la coltivazione di valori e di patrimoni
che devono continuare ad esistere intatti in un programma di adattamento
e di modernizzazione. La letteratura continua ad essere l'espressione
più autentica e anche sofferta di tale condizione naturale
e storica. I modelli comportamentali e sentimentali che si trovano
nei testi più importanti saranno sempre, inevitabilmente, quelli
di gente che dovrà continuare a vivere nell'isolamento, anche
se relativo, lontana dai centri. Il limite e l'insularità,
dunque, si configurano in categorie assolute dello spirito, insuperabili
e altrettanto caratteristiche, distintive.
LA NECESSITA'
DEL SUPERAMENTO DEL LIMITE
La ricerca
dei temi universali
Si trovano pure nelle piccole letterature, o in quelle concepite e
nate in chiusi territori come quelli isolani, i punti di sviluppo
e di continuazione dei temi fondamentali della storia del pensiero
umano. Dentro le comunità minori c'è la stessa ispirazione
collettiva del secolo che poi si dispone secondo orientamenti dettati
da un particolare modo di vivere piuttosto chiuso e troppo consapevole
di sé. Ma proprio per questo motivo la critica ha specifiche
possibilità di fare risalire alla superficie interi tessuti
di tradizioni e di costumi che sopravvivono ancora nelle località
lontane dai centri, dove la rapidità delle trasformazioni non
concede più spazio a manifestazioni di un certo tipo. Per quanto
riguarda il dibattito sulla formazione di una sociologia della letteratura,
la valutazione giusta delle letterature minoritarie come tali sembra
dipendere molto da quale via si batte di fronte alla scelta tra critica
sociologica e sociologia della letteratura.
L'espressione delle letterature isolane, qui considerate come letterature
minoritarie, va analizzata dunque sotto due profili: quello popolare,
direttamente appartenente all'uomo come cittadino di una comunità
autonoma, e quello umano ed esistenziale, comune alla collettività
come partecipe dell'esperienza universale. Alla luce di questa indagine
i temi che sembrano provinciali acquistano una loro giustificazione
storico-attuale, mentre il trattamento dei temi fondamentali fa entrare
l'opera regionale nell'ampio complesso della letteratura continentale
e mondiale. E' compito della critica passare dal particolare all'universale,
senza perdere di vista le prerogative che in tale processo dal punto
di partenza (locale, identificabile) conducono al punto d'arrivo
(universale, misterioso). Si suggerisce così una interazione
della critica storica con la critica estetica. Attraverso la prima
si studia l'opera come riflesso di attività svolta in un luogo
e in un tempo ben definiti; attraverso la seconda si arriva alla valutazione
dell'opera come riflessione lirica e spirituale. Dalla conoscenza
della letteratura come fatto o esperienze si risale alla scoperta
della letteratura come creazione o intuizione. L'isola geografica
si trasforma gradualmente in una metafora della stessa condizione
umana. Una lettura critica di vari testi di autori isolani mette subito
in evidenza tale dinamica, che sembra tipica ed inevitabile.
Nelle seguenti riflessioni critiche si cercherà di analizzare
i temi universali della solitudine, dell'ansietà esistenziale,
della precarietà della vita, e di altri che insistono su una
particolare concezione dell'esistenza e della storia, e di interpretarli
come espressioni della coscienza dell'essere isolano. Il senso del
limite geografico si traduce letterariamente in un simbolo del limite
filosofico nei confronti della problematica dell'inserimento del singolo
nel collettivo. La ricerca dell'infinito parte proprio dalla consapevolezza
del finito, così che finalmente il raggiungimento del significato
universale continua ad evocare ineluttabilmente il punto iniziale,
il suo luogo di nascita, l'isola, lo spunto per una rappresentazione
che non è più geografica e localizzabile.
VOCI DELLE
ISOLE
L'ansietà
del presente continuo
La problematica del conoscere, l'angst fondamentale dell'essere, la
crisi dell'identità personale e collettiva, il confronto moderno
tra l'essere e l'avere: entro questi spazi Nino Muccioli, siciliano,
sviluppa un discorso particolare e si propone con una tipica insistenza
come voce tormentata di un'epoca satura di paradossi. Prendendo le
mosse da una specie di definizione della sicilianità come paradigma
del mondo, Muccioli naviga nel mare dei temi essenziali: nella solitudine
e nel silenzio si scoprono, imponendosi implacabilmente sulla sensibilità,
verità superiori alle condizioni di luogo e di tempo.
Sono i sentimenti più elementari che Muccioli cerca di riscoprire
e di risanare, mettendo in risalto il contrasto tra esistenza ed essenza,
cioè la lotta tra il modello archetipico e la sua realizzazione
particolare. Alla base della sua poetica e della sua poesia c'è
una intera tradizione filosofica e letteraria che egli visita con
attenzione sistematica, ma anche con una sua caratteristica sofferenza
esistenziale. La sua è una lirica del disagio, dell'incomprensione,
del paradosso, facilmente identificabile con una Palermo tormentata
da vicende violente e da problemi istituzionali. In effetti, la sua
opera si scioglie spesso in ironia; si tratta, comunque, di una ironia
malinconica, quasi incapace di far fronte alle sfide della quotidianità,
qui vista alla luce della crisi che sta attraversando a causa di quella
che, nell'ottica di Muccioli, sembra la perdita delle prospettive,
del senso dell'ordine e dei punti di riferimento assoluto. La soluzione,
la via d'uscita, sembra soltanto la scoperta del senso della vita,
cioè della coscienza della morte, la tappa finale, la condizione
inalienabile in cui l'uomo deve ironicamente maturare e prendere piena
coscienza di se stesso e del mondo intero:
Dell'orologio
il pendolo
impiccato al ritmo del tempo
a seguire la nostra sorte
segna l'urlo che strazia la ragione:
- Solo sempre dell'uomo è la morte?
Smarrimento
L'intuizione dell'eterno
e dell'assoluto, acquisita dal poeta attraverso un radicale esame
di se stesso e della coscienza che ha dell'essere, si fa presente
poeticamente in passaggi apparentemente descrittivi. Delle volte il
poeta ricorre alla forma della narrazione, e spesso si perde in momenti
di limpida riflessione. Il suo punto d'appoggio è il paesaggio
che egli evoca con nostalgia di un passato quasi mai esistito, ma
profondamente sentito come un presente continuo vissuto nell'anima.
Muccioli parte da uno spunto pittorico o scultoreo e arriva gradualmente
alla formazione di un paesaggio del tutto psicologico e spirituale.
Da una materia di costruzione di tipo empirico riesce a costruire
un suo nuovo edificio interiore, in cui ambienti fisici si traducono
in stati d'animo, dando così luogo a dei momenti lirici privi
di ogni residuo retorico, espressi con un linguaggio semplice nella
costruzione e saturo di significati.
Il suo Smarrimento è causato da esperienze intellettuali del
tutto identificabili: hanno le loro radici nella tradizione cultura
della quale si è alimentato nella sua ricerca del senso fondamentale
dell'essere. E' la stessa cultura che ora si configura in un limite
oltre il quale non gli è concesso di andare:
Ho amato il
gioco d'ombre
nella caverna di Platone
e quella inutile malia
che si chiama poesia.
Anche la certezza
con cui un Cartesio ha affermato la propria esistenza come res cogitans
diventa qui motivo di dubbio e di incertezza. L'atto dello scrivere,
invece di offrire al poeta la possibilità di arrivare ad una
risposta, si riduce ad una domanda, negando le affermazioni precedentemente
conosciute, svestendo il poeta di una propria definizione. La parola,
di cui l'autore continua a innamorarsi, non è vista più
come forza salvifica, anzi fa crescere il senso dell'inutilità
e della stranezza. Mettendosi ostinatamente a scrivere, Muccioli ha
il coraggio di arrivare al momento in cui intuisce il suo smarrimento
totale:
Perché
scrivo? Perché forse il mio tempo
ci costringe a parlare da soli.
Legando la posizione
pirandelliana con quella cartesiana, Muccioli dubita e, dunque, afferma:
Chissà,
sembro, forse sono.
Queste posizioni,
pronunciate con fermezza in Sembro... forse sono, risalgono alla superficie
in numerosi momenti di questa esperienza. E' Muccioli stesso a restaurare
il senso della poesia, appena perso, e a concedere di nuovo all'atto
poetico il suo vero valore di momento magico e privilegiato: queste
realtà "non possono essere colte che in attimi di altezza
dello spirito e per intuizione o per fede". Questa visione si
riafferma con particolare vigore in Presenza dell'uomo (1987), e ricorda
le precedenti posizioni prese in altre tappe di questo itinerario
spirituale, cioè in Per restare uomo (1978), Fino all'ultimo
sole (1980), Circuità dell'esistere (1982) e Le stagioni del
tempo (1984). Come sembrano concludere alcuni dei maggiori critici
italiani che si sono occupati dell'opera di Muccioli (Giuliano Manacorda,
Walter Mauro, Giorgio Bàrberi Squarotti, Giancarlo Vigorelli),
questi momenti lirici costituiscono un unico periodo, una sola indagine
animata da una sua organicità interiore di natura tematica
e formale.
Sotto questo profilo Muccioli ha il merito di non tradire una intera
tradizione poetica che si èoccupata ininterrottamente della
problematica esistenziale. Le proposte di un Petrarca, di un Leopardi
e di un Foscolo, e poi quelle di un Quasimodo, Ungaretti e Montale,
sono colte con una sensibilità particolare che le assimila
e le digerisce. Lungo questo cammino, inizialmente culturale, e quindi
espressione della sua sicilianità, Muccioli sembra scoprire
la propria individualità, la fede con cui viene avanti con
la sua proposta ispirata a nuove condizioni sociali e legata ad ambienti
storico-politici abbastanza identificabili, che hanno trovato in lui
una loro voce. La novità della lirica del poeta sta soprattutto
nella sua capacità di capire il discorso "storico"
e di svolgerlo in prima persona, assumendosene tutte le responsabilità.
Da tutta l'analisi della tradizione italiana e siciliana, dall'osservazione
di un intero ambiente paesaggistico e urbano, da una serie di meditazioni
sul significato metafisico del mondo fisico, dall'indagine sulla funzione
(anche se sottintesa) che spetta al poeta nel mondo d'oggi, Muccioli
trae la sua conclusione, espressa in termini moderni, ispirata ad
un modello archetipico dell'essere poetico:
Sento che tutto
è spirito o illusione
è quest'affanno che chiamiamo vita.
Questo suo coraggio
di riconoscersi nelle caratteristiche tematiche della sua tradizione
poetica ha anche il valore di indicare l'appartenenza etnica e geografica
del poeta, e perciò di tutta l'arca in cui si trova. Malgrado
l'invasione violenta di una poesia del tutto diversa, estranea alla
spiritualità mediterranea, Muccioli conserva la propria identità
e trova il modo di proporre un discorso poetico che non si confronta
con l'identità mediterranea. Muccioli propone la sua mediazione
tra mediterraneità e modernismo, cioè tra passato immobile
e presente continuo. Invece di ricorrere a dei modelli concettuali,
tipici di tanta produzione di provenienza anglo-americana, il poeta
va in cerca delle proprie radici e, scoprendo la propria individualità
mediterranea e meridionale, arriva ad una sintesi del mondo esterno
e di quello interiore.
Forma moderna e contenuto classico: forse è questa la sostanza
del contributo di Muccioli, che va inteso sia come proposta siciliana,
sia come partecipazione alle correnti continentali. Altrimenti sarebbe
difficile spiegare come in un secolo caratterizzato da un "ottimismo''
voluto o addirittura imposto un poeta possa gridare ad alta voce:
Sì,
la vita è una rete
per acchiappare il vento
e resta solo polvere.
Intrecciando lirica
ed ironia, descrizione e riflessione malinconica e inno alla vita,
Muccioli arriva ad una sua visione dell'unità, dell'essere,
attraverso una indagine delle diversità del sentire. Alla base
di tutto ciò c'è una fede che battezza l'esperienza,
triste perché sottomessa allo scrutinio di uno spirito che
chiede risposte ed esige certezze. Scoprendo i retmi del parlare quotidiano,
il poeta crea i suoi ritmi, compone brani di musica, celebra la purezza
della parola e allo stesso tempo detesta la sua arrogante ambiguità.
Tutto inizia con l'acquisizione del senso di C'era una volta, cioè
della "fiaba" che appena narrata raggiunge la fine. Dall'intuizione
del paradosso esistenziale, del confronto tra il particolare e l'universale,
Muccioli costruisce un suo mondo poetico pregno di incanto e di nostalgia,
degno di attenzione per la sua suggestiva e sentita vocazione della
tradizione siciliana e per l'efficacia con cui mette sotto esame tutta
l'essenza dell'uomo, che da una vaga astrattezza diventa appunto una
presenza responsabile, una coscienza costretta a fare i conti con
se stessa.
Un isolano
in cerca di misteri
La lirica di Gigi Dessì rinuncia ad ogni residuo retorico e
barocco della tradizione e si scioglie con estrema naturalezza in
un suono puro, in una continua serie i ritmi. Una radicale purificazione
del lessico poetico, una profondità apparentemente semplice
di strutture sintattiche, e un contenuto universale che si ispira
a problematiche fondamentali: sono questi gli elementi più
caratteristici di Dessì che dalla sua Sardegna guarda verso
il continente e vede gli stessi riflessi della propria terra. Tutto
il suo mondo diventa sardo, perché il mondo è un'isola
abitata da esuli.
Le origini sarde si fanno presenti come materia di costruzione; il
rapporto "storico" con la terra nativa diventa subito un
rapporto con un mondo oggettivo comune a tutti; la solitudine tipica
del Sud mediterraneo si trasforma in una metafora della solitudine
cosmica dell'uomo viaggiatore in cerca di se stesso e, infine, di
una patria ideale di tipo psicologico. Uno dei meriti più ovvi
di Dessì è la sua capacità di trascendere il
contingente e l'immediato e di approdare a terreni inconsciamente
conosciuti da tutti. La sua lirica, limpida, scarna, restaura il rispetto
per la parola, tanto abusata dall'uso giornalistico e letterario degli
ultimi decenni del secolo. Il poeta si salva soltanto attraverso la
scoperta di nuovi significati e il suo innamoramento con la parola
evidenzia immediatamente una certa paura della lingua stessa. Entro
la cornice di tale poetica Dessì produce versi che sembrano
sfidare il silenzio e stabilire una specie di compromesso tra il mutismo
e l'eloquenza. E' la figurazione lirica di una Sardegna in cerca di
nuovi rapporti con il Continente.
Dessì concepisce il momento poetico come un unico itinerario
realizzabile attravero la scoperta idonea di tappe singolari. Tutta
una serie di poesie si configura in un unico poema, intenzionalmente
interrotto da "spazi'' e da fermate temporanee. Il viaggio che
continua è sempre uno solo, e i vari momenti costituiscono
un'unica storia interiore. E' appunto l'unità tematico-stilistica
che caratterizza e accomuna Vetri frantumati (1974), Lincomprensibile
uomo (1976), Dionisio e l'uomo (1978), Finestra dei trapassi (1984),
Tanche di memoria (1987) e Suggestioni di vita (1988). I numerosi
spunti nascosti dentro un'anima abbastanza consapevole della propria
identità e la diversità che distingue un momento poetico
dal precedente e dal successivo non sono che l'evidenza di un processo
interiore, di un graduale raggiungimento di nuove conoscenze spirituali.
Non è un caso infatti che la dimensione più importante
sia quella del tempo. L'esistenza, personale e ugualmente umana e
collettiva, è concepita innanzitutto come consapevolezza della
fugacità, della precarietà dell'essere. Su un infinito
deserto, metafora di uno stato d'animo particolare, si vedono le luci,
fenomeni empirici la cui funzione poetica (e psicologica) è
di svolgere il ruolo di punto di riferimento dell'uomo di Dessì,
cioè del res cogitans, della coscienza sempre sveglia, sempre
delusa dei limiti della propria conoscenza:
Ho frugato
fra sterpi.
Ritornerò con l'ombra
dei passeri nel grembo
eterno.
Riceverò forze.
Desideri suggeranno luci.
Sognare comete
primavere
poi lentamente dormire.
Ho frugato fra
sterpi
La malinconia,
esistenziale più che storica, sembra far parte della definizione
psicologica del poeta. Ma è una malinconia molto diversa da
quella dei romantici e dei crepuscolari. C'è in questi versi
una classicità moderna, una eleganza stilistica ugualmente
fresca (cioè contemporanea) ed elaborata (cioè tradizionale,
archetipica); Dessì riesce a costruirsi una mediazione fra
i due estremi: il dolore (come contenuto) diventa piacere o incanto
(come forma).
E' nel campo dei ritmi che il poeta mette di più in evidenza
la tranquillità con cui si può ancora comporre nei piccoli
centri; l'isolamento geografico e culturale è anche posizione
di vantaggio. E' con la massima serenità ambientale che Dessì
riesce a dare forma alle sue inquietudini. L'isola è anche
tema poetico, la solitudine offre anche maggiori possibilità
di riflessione. La parola, amata in sé come suono e come sfida
al silenzio, riempie uno spazio; non è un caso che le poesie
siano tutte brevi, costruite con attenzione parola per parola, concepite
come vibrazioni dell'anima e come documenti di meditazione "storica",
cioè antecedente all'atto dello scrivere. Le parole cadono
sulla carta per fare un suono, per produrre melodie linguistiche,
e per dare corpo ad uno stato d'animo innamorato del mistero e dell'ineffabile.
Sotto questo profilo, Dessì rimane fedele alla tradizione più
ricca di tutta la poesia italiana, da Petrarca a Leopardi, da Pascoli
a tutti i maestri del Novecento che sono riusciti a rinnovare la poesia
senza rinunciare all'identità di tutta una storia letteraria.
L'attenzione critica che merita Dessì è dovuta in gran
parte alla sua capacità di inserirsi nella corrente più
valida della poesia italiana e di trovarsi un posto particolare in
cui afferma una sua inconfondibile personalità radicata nelle
sue origini sarde.
La sua opera maggiore, Suggestioni di vita, è la voce di uno
spirito che, venendo dalla Sardegna, porta con sé un ricco
bagaglio di sentimenti e di simboli, e si indirizza ad un pubblico
capace di scoprire l'isola che c'è dentro ogni essere umano.
Il paesaggio si traduce in contenuto psicologico, il silenzio dell'ambiente
si trasforma in una metafora dello spirito turbato, il senso dell'antichità
storica si configura in una eternità impenetrabile, le tradizioni
(ora diventate memorie di una infanzia satura di "suggestioni")
diventano cronaca. Tutta una vita è sottoposta ad un esame
lirico in cui fatti, situazioni e personaggi acquistano il significato
di punti di riferimento lungo un viaggio altrettanto faticoso e felice.
E' il paradosso tipico di tutta l'opera di Gigi Dessì, poeta
di una isola. Ed è per questo che la sua parola si scioglie,
anche oggi in mezzo alla cacofonia continentale, in oggetto d'incanto,
e che, messa in versi, assume il carattere di una nota musicale. Dietro
la pagina pulita, quasi spontanea; si sente la mano di uno scrupoloso
lavoratore che riconosce nella parola lo strumento sacro della sua
salvezza.
L 'evocazione
di una classicità perduta
La dizione "poesia moderna" rischia di perdere il suo vero
e proprio significato dal momento che tende ad abbracciare tante diverse,
contrastanti tendenze tematiche e formali. Classificazioni di tipo
temporale e geografico sono già condizioni inalienabili che
portano di necessità categorie diverse all'interno di questo
capitolo della storia della poesia. Al di sopra di ogni classificazione
rigida e troppo schematica, l'ispirazione mediterranea suggerisce
la necessità di una indagine a parte, diversa da quella che
spetta alla poesia di altre parti del continente.
E' facile pensare che queste distinzioni facciano parte integrale
di ogni metodologia critica di natura storica. Bisogna, comunque,
ricordare che comunemente si parla della "poesia moderna"
in termini universali, troppo categorici, e raramente ci si ferma
a definire la poesia in termini regionali. Regionalità non
significa limitazione, arretratezza o alienazione; significa piuttosto
la presenza di una gamma di esperienze e di motivi che non si trovano
facilmente nei grandi spazi.
Oggi che si stanno facendo vari sforzi per arrivare ad una definizione
storica, culturale della "nazione mediterranea", è
più che mai opportuno prendere in piena considerazione anche
il luogo d'origine, il punto fermo da dove parte, come fenomeno inizialmente
locale, la poesia che si avvia, naturalmente, verso le rischieste
vette dell'universalità.
In alcuni casi tali considerazioni si impongono con maggiore rilievo.
Si deve parlare di Vincenzo Mascaro, messinese, come di un poeta mediterraneo
perché sembrano troppo evidenti sia il suo terreno naturale,
più ampio di quello siciliano, sia i numerosi punti di riferimento
della sua visione. Mascaro, ad esempio, si riconosce ancora in una
specie di eterna classicità superiore alle modalità
del tempo, più profonda dei dettami delle forze che tendono
a cambiare con ritmo costante l'ambiente.
Ciò non deriva dal fatto che ci troviamo di fronte ad uno scrupoloso
studioso della Grecia, ma piuttosto dall'evidenza interna che ci offre
in proposito la sua opera creativa. Mantiene una gravità solenne
anche di fronte alle cose "banali", cioè agli oggetti
di ogni genere che spesso si trasformano in immagini vivissime di
verità nascoste e di sentimenti complessi non ancora precisabili.
il suo discorso, svolto in sede metaforica e mai razionale, resta
sempre lontano dalle caratteristiche di una cruda immediatezza assai
identificabile, e si scioglie rapidamente in suggestioni dell'anima.
Le "sue" esperienze sensorie sono sottomesse ad un radicale
esame della coscienza, l'unica facoltà che egli mette in funzione
per meglio arrivare ad una espressione lirica del tutto cristallina,
limpida e spesso lapidaria. Queste sono evidenze di una estetica classica
ancora dinamica e piena di vita e di rilevanza, manifestazioni di
un consapevole e deciso distacco dalle impostazioni concettuali, intellettualistiche
e troppe volte giornalistiche di tanta produzione poetica angloamericana
ed europea del Novecento. Sarebbe anche ingiusto definire tale insistente
atteggiamento come semplice documento di italianità o "sicilitudine",
perché il poeta non manca mai di arrivare presto a significati
universali, frutto di una "intuizione lirica e cosmica",
per dirla con Croce, che continua ad essere la sostanza più
vera della poesia.
Già nelle sue riflessioni critiche Mascaro aveva delineato
la sua propria poetica mentre riassume le caratteristiche dei "metodi"
del potere contemporaneo. E', da un lato, completamente consapevole
dei rischi del modernismo che spersonalizza l'uomo, rendendolo oggetto
senza identità e dando luogo ad una attività puramente
tecnica, quasi priva di contenuti. D'altro canto, la sua conoscenza
di critico si mette in diretto confronto con la sua poetica personale,
quella che nella pratica spiega e giustifica i particolari, le strategie,
le scelte tematiche e formali dei suoi testi.
La resistenza contro il pericolo e a superficialità contemporanea,
anch'essa caratteristica del poeta isolano tanto convinto delle sue
certezze, conduce l'uomo ad una riscoperta dei valori fondamentali,
ad un ritorno ad una visione etica, sottilmente teologica, non scientifica
e meccanica, e 'essere.
Da un punto di vista storico, questa posizione sembra una rielaborazione
della distinzione aristotelica tra la storia e la poesia, cioè
tra la conoscenza del contingente e del particolare, e l'intuizione
pura dell'assoluto e dell'universale.
Tale distinzione, ampiamente discussa e ribadita da Sidney nella sua
Defence of Poesie (1595), da Nicholas Boileau nell'Art Poètique
(1674) e pure data per scontata nelle impostazioni strutturaliste,
cerca di sciogliere il problema dell'impegno poetico di fronte alla
tentazione, carissima ai poeti di questo stampo, di continuare a indagare
negli spazi infiniti, insondabili dell'anima umana. Per Mascaro il
particolare rimane sempre un misterioso microcosmo dell'insieme, del
tutto in cui l'individuo si riconosce subito come componente ma anche
come totalità. L'osservazione attenta delle banalità
quotidiane conduce verso la scoperta di una complesso mistero nascosto
dentro le cose:
Riprendono
i loro discorsi
dentro ai nidi le rondini.
Lo scirocco si scioglie
in stille d'angoscia.
Breve malinconia del giorno,
fresco piacere che non dura.
Aspettando l'autunno
Il brano mette
in rilievo il metodo con cui Mascaro passa dalla costruzione di un
semplice, affascinante quadretto all'affermazione amara di una profonda
verità. Il bozzettismo, assai caratteristico della poesia delle
isole, riassume subito la funzione di un mero pretesto per l'acquisizione
di una intuizione. In realtà, il motivo descrittivo è
appena accennato e si sottilizza presto in una gamma di sensazioni.
La strategia del poeta inizia con una proposta pittorica per arrivare
quasi istantaneamente ad una parabola. Siamo lontani dall'aderenza
al principio oraziano dell'ut pictura poesis. Mascaro non cerca di
imitare i modelli della natura, ma si sforza di conoscerli nella loro
sostanza. Abbozzando leggermente alcune sfumature delle "Cose"
(adopero la parola nel senso della res latina, cioè i fenomeni,
le condizioni, i fatti, gli eventi, le creature, ecc.), il poeta visita
il suo mondo con un'ottica emotiva e filosofica, trovandosi poi in
grado di definire verità e non apparenze. Fra i due poli estremi
della realtà osservata e la verità scoperta si realizza
l'itinerario spirituale, una specie di superamento del mediato dall'immediato,
una struggente vittoria dello spirito sulla materia. L'angoscia che
anima la sua opera rivela la condizione psicologica del poeta man
mano che avanza verso la fine del viaggio. Poeti essenzialmente mediterranei
si riconoscono subito nell'identità del viaggiatore esemplare,
Ulisse, il naufrago.
L'amore, visto alla luce di questa poetica del mistero inafferrabile,
allarga il suo significato e diventa la logica del cuore, la scienza
più naturale che spiega il cosmo senza ridurlo ad un fenomeno
conoscibile in sé. Amare significa qui interrogare le cose,
avere fiducia nell'essere, trovare la presenza dell'unità nella
molteplicità, passare dalla paura del flusso eterno di Eraclito
alla certezza dell'essere assoluto di Parmenide. Amare diventa pure
la fede, umana se non addirittura divina, con cui si va al di là
della superficie del creato nella ricerca del rapporto che ci deve
essere tra la molteplicità e l'unità, appunto tra il
mondo delle apparenze e il mondo delle verità. Più di
ogni altro, l'isolano ha profonda conoscenza del dualismo; la sua
ottica oscilla sempre tra l'io e l'altro, l'interno e l'esterno.
Non è difficile intravvedere l'intimo legame che c'è
tra Mascaro e una intera tradizione mistica capeggiata da Pascoli,
Quasimodo, Montale, Ungaretti. Anche in loro gli spunti descrittivi
si trasformano in psicologismo. Il rifiuto di impegnarsi con "le
cose" è paradossalmente un impegno a favore delle "lacrymae
rerum" virgiliane. La grande malinconia, acquisita - perché
si tratta di una qualità positiva e non di un male - attraverso
una lettura religiosa dell'esistenza, segnala una tappa, un momento
di maturazione dell'anima, e non equivale ad una facile, irresponsabile
fuga dalla realtà quotidiana. La noia esistenziale è
appunto superata con il ricorso alla sublimazione lirica. Questo lirismo,
mai retorico e altisonante, si tuffa nel mare degli oggetti e ne esce
purificato o addirittura trasformato.
Il continuo rivolgersi di Mascaro al mondo delle esperienze empiriche
e poi l'istantaneo ritirarsi in un altro mondo interiore sono due
momenti che spesso arrivano simultaneamente o almeno nella forma di
uno strano ma coerente susseguirsi, come se fosse la meditazione a
seguire l'osservazione. La tormentata convivenza del mondo esterno
con quello interiore si manifesta come un compromesso necessario tra
il vivere (la noia della prosa, la ripetitività quotidiana)
e il poetare (il piacere della lirica, l'unicità dell'atto
creativo), così che finalmente l'esito letterario si configura
in una voluta alternativa all'azione.
I contenuti suggestivi, spesso nostalgici, della memoria non sono
semplici residui di un passato remoto; spesso prendono la forma di
scintille strane ed evanescenti di un cuore aperto all'esperienza
del mistico e del misterioso. La magia deriva dal fatto che l'irraggiungibile
è continuamente sentito e vissuto. il tono dolce con cui Mascaro
sembra indirizzarsi al lettore è allo stesso tempo forma e
contenuto, metodo di espressione e materia espressa.
La fusione tra gentilezza e tormento ha le sue radici in una maturità
raggiunta non meramente con il passare degli anni, ma piuttosto attraverso
un voluto ritorno alla fanciullezza, in cui le certezze e le definizioni
perdono i loro precisi contorni e diventano fonti di ambiguità
preziosa, spunti di ambivalenza necessaria. Da queste condizioni nasce
il tormento dal quale la lirica ha poi la capacità di trarre
il paradossale piacere e di sublimare in una specie di magia richiesta
dallo spirito tutta la noia esistenziale:
Aperto cuore
mi rimane, intatto
cuore senza velami e senza smorte
invidie. Questa gloria mi rimane
ch'è specchio del mio vivere dappoco
e gonfalone del tempo passato.
E così sia. Ch'altro un giorno vorrò
se non del verso la consolazione
e la mercede di una dolce morte?
Aperto cuore
La malinconia
mediterranea, particolarmente quella del Sud, sembra inizialmente
motivata da identificabili condizioni storiche e geografiche. L'atto
poetico, comunque, purifica questo malessere da ogni tipo di immediatezza
e lo traduce in una categoria dello spirito umano. Prendendo le mosse
da una osservazione dell'esperienza diretta, Mascaro risale al livello
lirico allargando la rilevanza del concetto della malinconia, approfondendone
il significato e applicandolo a tutta l'umanità. L'isola non
è più il paese nativo, la solitudine non rimane una
precisa condizione civile, il silenzio non indica più la lontananza
dai grandi centri dell'attività poetica e culturale. L'insularità
è vista sotto il profilo filosofico, come la condizione ineluttabile
di una intera nazione umana, ed è finalmente la terra a configurarsi
in una isola perduta nella vastità del cosmo.
Anche di fronte a spunti di carattere remotamente culturale, Mascaro
coglie il senso del misterioso e dell'universale, e la vera e propria
geografia che delinea diventa quella della coscienza angosciata. L'uomo
civile cresce gradualmente in uomo filosofico, e le "lunghe attese",
le delusioni dei tempi passati, i contenuti della memoria (cioè
della storia) si sviluppano assumendo la natura di grandi metafore
perenni della condizione esistenziale. Il trapasso dall'esperienza
dei sensi all'intuizione si rivela come lo sciogliersi degli eventi
in simboli:
Maledizione
e amore questo
sud di pietra che prendiamo a pugni
da secoli, aridità e gioia
segreta delle lunghe attese.
Attesa
La sofferenza
con cui Mascaro sceglie il suo frasario più tipico e costruisce
forme espressive chiare e solide nella loro determinatezza, risulta
l'aspetto più evidente del rapporto tra la forma e la tematica.
La morte, la vita, l'amore e la delusione, la magia del paesaggio
e la fatalità del processo incessante della natura, il ricordo
del passato e la gravità del presente, l'eloquenza del silenzio
e la passione per la parola, la certezza della storia e l'ambiguità
dei sentimenti: sono alcuni dei numerosi spunti che in Mascaro, collegandosi
in un insieme organico, assumono la dignità di un amaro verdetto
sull'esistenza, anche se dalle fessure trapela la speranza di un'alternativa
trascendentale. Il suo lirismo, svolto con sicura duttilità
stilistica, nasce sul terreno del tormento umano e raggiunge la maturità
superando con facilità lo scoglio dell'immediatezza e del commento
cronachistico dai quali tanta produzione poetica contemporanea è
condizionata.
La vita come
tormento
Nella schiera dei poeti maltesi che hanno svolto la loro attività
nella prima metà del Novecento e hanno appena sfogliato la
seconda, il nome di Ruzar Briffa, nato alla Valletta, emerge con una
sua individualità inconfondibile. Rappresenta soprattutto un
filo diretto tra quel presente e un futuro molto diverso. Quel presente
è identificabile soprattutto per una gamma di ragioni con le
impostazioni più tipiche dell'Ottocento romantico che sotto
l'influsso dell'esperienza italiana diede contenuto e forma all'ispirazione
dell'isola; quel futuro è caratterizzato da una graduale presa
di coscienza alimentata da esigenze di una società trasformata
sotto vari profili.
Con Briffa si ha la figura del poeta integrale, della personalità
che riassume nell'atto poetico tutti i vari, multiformi aspetti dell'essere
professionale, sociale, familiare, civile. Essere poeta significa
investire l'esistenza di un contenuto e di una forma particolare.
L'intuizione lirica e non la poesia della letteratura e della rigidità
formale, il senso del mistero e non la consapevolezza delle certezze
nazionali, la lingua ricostruita con sofferenza dalle rovine di una
sensibilità malinconica e non la normalizzazione decisa della
sintassi e del lessico: in queste scelte, intimamente legate tra di
loro, appare la figura del poeta come essere quasi privato, racchiuso
in sé, piegato su se stesso, separato dalle masse, ispirato
soltanto ai sussurri che si fanno sentire nel suo intimo angoscioso,
del tutto noncurante della problematica storico-culturale. il poeta
che abita nell'isola è diventato lui stesso un'isola; il carattere
geografico del suo Paese diventa il paradigma e a sua identità
spirituale. Briffa riassume nella sua personalità l'isolano
sperduto, il viaggiatore introverso che cammina verso una meta già
conosciuta come irraggiungibile.
Lo sfondo di Briffa non è l'età dei contemporanei, ma
un eterno mondo di solitudine, privazione e tristezza, una mitica
terra interiore. Le dimensioni di luogo e di tempo, mai evidenze di
dati precisi, sono forme archetipiche entro le quali quasi tutte le
sue brevi meditazioni trovano una cornice per presentarsi come poesia,
cioè come parola salvifica, sfida al silenzio continuo:
Il-ferha tà
bla tarf li jien poeta
darba hassejt,
u bkejt
bil-qalb mimlija
x'hin l-oghna holm tal-hajja
ghannejt.
Mill-Gdid Poeta
[Ho provato una
volta la felicità infinita di essere poeta, e piansi con un
cuore pieno, mentre cantavo i più ricchi sogni della vita].
I suoi luoghi
sono spazi desolati, lontani dalle città della convivenza,
distinti dal mondo dell'attualità; ad esempio, cimiteri, cattedrali
dimenticate, castelli, vecchie chiese, spiagge lontane, strade disabitate,
tombe, chiese demolite, fontane solitarie, città desolate.
i suoi tempi e le sue stagioni sono momenti e periodi facilmente identificabili
con la sofferenza, ad esempio, l'inverno, la notte, le ore della tempesta
e quelle della pioggia.
Il passato con le sue ricordanze amaramente nostalgiche è un
presente continuo, una "eternità" storica vissuta
entro cui l'esperienza diventa psicologica, e il presente perde la
sua attualità per diventare momento ambiguo dominato dalla
memoria:
Qatt ma kien
hemm ilbierah,
m'hemmx ghada jew pitghada,
il-bniedem fassal wahdu
il-jiem tac-civiltà...
Imm'Alla halaq qablu
it-tul t'Eternità.
Il-Hadd Filgbaxija
[Non c'era mai
ieri, non c'è domani e dopodomani, l'uomo disegnò da
solo i giorni della civiltà... ma Dio creò prima di
lui la lunghezza di una Eternità].
L'insistenza su
vocaboli che evocano limitatezza, tenerezza, introversione, timidezza,
piccolezza richiede una precisa interpretazione. Il linguaggio poetico
di Briffa costituisce già un concentrarsi su un tipo particolare
di lessico: è scelto istintivamente, con criteri psicologici,
e non letterariamente, con criteri stilistici. Invece di cercare di
ampliare il proprio vocabolario e di trovare le parole meno note,
più antiche e pure (cioè di origine semitica, siccome
il concetto di purezza, ormai da tempo superato, significava l'eliminazione
dei vocaboli di origine latina), il poeta riduce il suo dizionario
ad un glossario elementare, quasi specializzato, ispirato soltanto
alla tematica del tormento esistenziale. Non risale mai alla superficie
l'ambizione di chi desidera dare evidenza della vastità e dell'efficacia
espressiva della lingua maltese, tradizionalmente incolta. Passando
dalla langue alla parole Briffa arriva ad una lingua scheletrica,
scarna e del tutto priva di ogni elemento decorativo. Non c'è
un rifacimento della comune lingua parlata; si tratta di una riduzione
estrema, evidenza letteraria di un retrocedere psicologico. Anche
la poetica della lingua diventa così un documento di una particolare
vicenda interiore.
Dati i limiti entro cui poteva svolgersi l'attività letteraria,
e considerando il grave svantaggio imposto sull'antico idioma di origine
araba, sempre vissuto in condizione di subalternanza culturale e politica
rispetto alla tradizione latina dell'isola, una tale scelta "linguistica"
(così appare a prima vista, e così è anche, ma
non soltanto, nel quadro della vita culturale maltese del primo Novecento)
costituisce una importante novità nella storia della poesia
del Paese. Significa l'affermarsi del contenuto sulla forma, il superamento
del preconcetto che attività linguistica equivale ad attività
creativa. Tirando le somme, dunque, ciò significa che il contenuto
(l'atto poetico) non doveva dipendere più dalle condizioni
del programma di ricostruzione sintattica e lessicale, oltre che morfologica,
della lingua popolare. Poetare ora significa soltanto scoprire la
propria metalingua entro la lingua, restringere ancora, tormentare
i nuovi modi, ricreare una forma espressiva che in ultima analisi
non contribuisce in nessun modo all'avanzamento della lingua in termini
di standardizzazione scientifica e colta. Alla base di questa poetica
c'è il profondo senso di isolamento tipico di Briffa, uomo
e poeta. Il suo distacco dalle mode letterarie maltesi del suo tempo
è soltanto espressione del suo stato d'animo.
Trovandosi privo di una propria formazione letteraria, essendo un
medico occupatissimo, Briffa aveva paradossalmente il vantaggio di
poter distanziarsi senza polemiche dai formalismi necessari storicamente
nell'ambito della breve storia letteraria della lingua maltese, e
richiesti dalla condizione difficile dell'idioma non ancora sufficientemente
elaborato in sede estetica. Messo nella foto di gruppo dei suoi contemporanei,
Briffa appare isolato anche come poeta e non soltanto, caratterialmente,
come persona. La sua distanza psicologica si traduce presto in distanza
linguistica e formale, quasi per mettere in evidenza il fatto che
la prima condizione fosse la causa della seconda, e che tra l'uomo
e l'artista non potesse esserci alcuno spazio in comune.
La sua lingua ridotta, costituendo un compromesso con il silenzio
e con il mutismo, è frammentaria, sciolta e sconvolta. Il lessico
è scarno e "povero" oggettivamente, fedele alla condizione
di privazione e di negazione che l'autore intende proiettare. Le forme
si creano nel processo dello scrivere, anche se spesso utilizzano
le stanze precise della tradizione, particolarmente la quartina. Entro
la formalità, comunque, cresce il nervosismo personale di chi
non trova facilmente lo spazio adatto allo spirito in cerca di comunicazione.
Il contrasto con l'impressione che viene fuori dall'opera collettiva
dei contemporanei ha condotto Dun Karm, il maggiore poeta maltese
dell'epoca, troppo avaro di solito nel giudicare i suoi colleghi,
a riconoscere in Briffa un autentico poeta. In fondo si tratta di
un anti-letterato valido che ha prodotto alcune delle liriche più
belle scritte in maltese nella prima metà del Novecento.
E' una condizione paradossale. Questa bellezza sta soprattutto nell'informalità,
che presto dà prova dell'intraducibilità del testo.
La spontaneità risiede essenzialmente nella naturalezza istintiva,
anti-accademica, con cui ha colto dopo lunghi periodi di riflessione
la forma pronta ad essere semplicemente registrata su un pezzettino
di carta. Cogliendo il momento opportuno, dovuto alla sua psicologia
di sconvolto pensatore, disorganico e deciso sentimentalmente, che
sente e non concepisce, Briffa riesce a creare la forma nell'atto
stesso di trascriverla. Scrivere significa qui, dunque, tradurre la
poesia interiore in poesia esteriore, arrestare il sentire attraverso
lo scrivere, uscire in qualche modo, temporaneamente, dal proprio
isolamento.
Le tensioni rivissute a livello privato conducono al bisogno di creare
pure le proprie modalità espressive. Il diarismo, la psicologia
in cui si riassume tutta la poetica di Briffa, spiega l'intero procedimento:
i temi della tradizione sono sofferti dall'individuo, e la trascrizione
personale riesce a creare le forme "private" che placano
di più le esigenze dello spirito. Anche il comportamento letterario
è tipicamente quello dell'isolano.
La prima lirica, Lacrymae rerum (1924) e l'ultima, Ballatella tal-Funtana
(1962), non sono poi molto diverse. Si prestano facilmente ad un confronto
che le definisce come tappe lontane di un unico ininterrotto procedimento
stilistico e formale, esprimente una sola preoccupazione. La monotematicità,
una delle conclusioni acquisite attraverso un tale confronto, mette
ancora in risalto la condizione da cui parte la poesia di Briffa:
l'uomo richiede una sua espressione, ed è l'uomo, al di là
della storia letteraria del Continente e del proprio Paese, che deve
ricostruirsi le forme. Il diario della solitudine, così, diventa
poesia.