§ La poesia della solitudine

Isole d'incanto nella corrente




Oliver Friggieri
Università di Malta



LETTERATURA E INSULARITA' UNA PREMESSA MALTESE

In un vasto inondo largamente costituito da grandissime terre e spesso condizionato dalle loro vicende, ad esclusione di tutte le altre, il ruolo specifico che deve essere svolto dalle minoranze nazionali non è facilmente definibile. E' naturale che lo schieramento dei Paesi, in sede politica e culturale, si riduca praticamente ad uno schieramento di forze organizzate in un insieme, in un grande corpo rappresentativo delle tendenze più tipiche delle maggioranze.
D'altro canto, la stessa esistenza delle piccole nazioni si traduce in una continua sfida. In primo luogo le minoranze provano la dura necessità di sopravvivere, di cercare il proprio sviluppo secondo un ritmo già determinato dalle correnti principali. C'è pure il vivo desiderio di farsi sentire, di guadagnarsi uno spazio vitale, pur limitatissinio, entro il quale poter svolgere compiti degni di una nazione.
Questa dura lotta per il potere politico C culturale è già definita in termini geografici. La limitatezza territoriale è una condizione insuperabile che porta con sé una serie di preconcetti, particolarmente se si tratta di isole autonome come Malta, o di regioni di un Paese assai più grande, come Sicilia e Sardegna. Nonostante ogni tipo di vero progresso interno, la limitatezza dei confini rimane la prima qualità della definizione internazionale di tale entità geografica. Ad ogni modo, anche un trattamento liberale, per così dire, può suscitare perplessità. Ad esempio, si parla spesso allo stesso tempo e nello stesso contesto di Paesi di diversissime dimensioni, senza tenere in mente l'implicita assurdità. Ci sono isole come Malta che sono indipendenti, ed altre, come Sardegna, Sicilia e Corsica, che sono parti di una nazione molto più estesa. Ma siccome anche un piccolo Paese come Malta costituisce in sé una totalità e ha una stia autonomia formale, questa stessa entità va considerata, sotto tutti gli aspetti, come una entità completa. In pratica, un Paese come Malta non significa più, almeno geograficamente, di una città fra tante altre che, prese tutte insieme, costituiscono un grande Paese. Dunque, l'autonomia è qui uno svantaggio, una specie di condanna dignitosa o semplicemente una condizione che va riconosciuta senza discussione? E' evidente che, almeno internamente, questa condizione naturale dà luogo ad un dibattito che sembra interminabile, tormentato e pieno di contrasti, e che si nasconde nell'inconscio collettivo dei cittadini. Spesso capita che tale condizione diventi una fonte di ispirazione per le pagine letterarie più belle: il limite diventa lirica, l'isolamento impone il bisogno di scoprire nuovi spazi. La letteratura dell'infinito e del cosmico spesso nasce dalla consapevolezza del "contrario" come condizione insuperabile.

La condizione storica
L'appartenenza di un piccolo Paese ad un altro più grande (visto come veramente completo) è un argomento che spesso riemerge nel dibattito dei maltesi su se stessi. Un breve cenno alla storia politico-culturale maltese di questi ultimi duecento anni può mettere in rilievo la condizione in cui si agita lo stato d'animo del popolo. Pur avendo subito, lungo questo itinerario, una intera gamma di modifiche, lo spirito maltese ha mostrato un carattere fondamentale, che non sembra facilmente modificabile.
Per interi secoli Malta partecipava da vicino alla cultura dell'Italia. Era italiana la lingua delle relazioni ufficiali, della cultura, delle attività svolte dalle istituzioni più importanti, come la Chiesa cattolica. I letterati hanno formato una tradizione locale con ispirazione, forme tecniche e scelte tematiche e metaforiche di diretta derivazione italiana. Per un lungo tempo gli intellettuali maltesi si consideravano maltesi comportandosi di conseguenza. Ma più che di un avvicinamento si trattava di un completo inserimento, da parte maltese, nel mondo culturale della penisola. Nell'assenza di una tradizione dotta in lingua maltese, di origine araba, l'assimilazione dell'eredità italiana si configurò in eredità "autenticamente" maltese. Lo spirito maltese prescindeva dai limiti imposti dalla separazione geografica e si definiva italiano senza allo stesso tempo chiedersi quale fosse la sua vera identità come abitante di un territorio particolare.
Quando andava maturando in Europa il senso dell'identità nazionale, a Malta cominciava a manifestarsi in diversi modi una forte presa di coscienza politica e culturale. Attraverso questo intimo e ininterrotto rapporto tra Malta e Italia, è stata la stessa sensibilità romantica italiana a suggerire alla ribalta maltese l'esigenza di un radicale esame nazionale. Il Risorgimento ha contribuito molto alla nascita di una coscienza collettiva maltese. La presenza di numerosi esuli italiani, la loro vasta attività a Malta nel campo delle lettere, del giornalismo e della politica, e la simpatia tradizionale dei maltesi verso i loro vicini hanno dato ai maltesi la possibilità di osservare quale fosse il significato più autentico e più pratico delle conquiste romantiche. Per la prima volta in tutta la loro storia i maltesi chiesero a se stessi quale fosse la loro più autentica identità. Si tratta di un discorso condotto alla luce della loro molteplice appartenenza storica e culturale. i maltesi hanno avuto una lunga tradizione culturale italiana, parlano una lingua di origine semitica (il risultato complessivo della presenza araba durante il periodo 870-1090), e nell'epoca risorgimentale erano sudditi coloniali del governo britannico. La loro condizione politica introdusse un altro punto di riferimento: la presenza e poi la diffusione della lingua e della cultura del potere straniero.
Culturalmente i maltesi erano in gran parte italiani; politicamente erano inglesi; linguisticamente si trovarono di fronte ad una scelta difficile. L'italiano era la lingua scritta della classe colta; l'inglese, con il passare del tempo, diventava sempre più la lingua della vita ufficiale; il maltese, allora ancora privo di un regolare sistema ortografico, continuava ad essere scritto arbitrariamente (particolarmente dal 1839 in poi, quando fu concessa la libertà di stampa) e immancabilmente parlato dalle masse e anche da tanta gente di cultura.
Il romanticismo, dunque, ha contribuito immensamente alla formazione di una forte consapevolezza che, pur essendo apparentemente linguistica, era profondamente politica e culturale: l'italiano sembrava la lingua dell'antica dignità nazionale, mentre l'inglese si configurava in un altro emblema di imposizione coloniale. Quest'ultimo era, in primo luogo, la lingua dei dominatori stranieri. Per quanto riguarda il maltese, che oggi gode di tutti i riconoscimenti ufficiali ed è la lingua più importante dell'isola, si deve aggiungere che sono stati i letterati maltesi di cultura italiana (come Mikiel Anton Vassalli, Gan Anton Vassallo, Antonio Emanuele Caruana, Anastasio Cuschieri, Dun Karm, Guzè, Muscat Azzopardi, Ninu Cremona) ad avere iniziato un intero programma di sperimentazione tecnica e di diffusione culturale, oltre allo svolgimento di una gamma tematica tradizionale, in questa lingua. Con la loro assidua attività la lingua assumeva sempre più il carattere di strumento culturale degno e adatto.
La partecipazione, pratica e morale, dei maltesi alle varie attività degli esuli risorgimentali italiani, particolarmente durante il periodo 1804-1860, ha favorito la formazione dei primi gruppi politici, la scoperta della lingua maltese come documento fondamentale di cultura e strumento di istruzione pubblica, e quindi la graduale formazione di una letteratura concepita romanticamente, cioè ispirata alle idealità di tutte le stratificazioni sociali. Il dibattito politico e linguistico che ha caratterizzato la storia sociale del Paese lungo quasi tutta la prima metà del Novecento è adesso terminato. Ma i residui rimangono e spesso risalgono alla superficie in diverse maniere.

La poetica dell'identità
Il superamento del problema linguistico-culturale, che ha visto il riconoscimento del maltese e dell'inglese come lingue ufficiali e che ha dato al maltese lo spazio necessario entro cui si poteva creare una letteratura "autonoma'' e moderna, non significava il superamento del problema politico. Prima della conquista dell'indipendenza nel 1964 i maltesi avevano formato due coscienze nettamente distinte e opposte l'una all'altra: la coscienza che guardava verso l'Italia come la madre terra, e la coscienza che vedeva nell'Inghilterra il nuovo paradiso economico che, mediante una totale integrazione con essa, poteva garantire il futuro dell'isola.
Il confronto linguistico si risolveva ovviamente in un confronto di appartenenza. Si trattava, in ultima analisi, di una stagione agitata e ambiziosa priva di risultati duraturi. I culti del fascismo e dell'imperialismo furono subito spazzati dalle onde di una nuova generazione che vedeva nell'indipendenza l'unica via che doveva essere seguita.
Lo svolgimento delle vicende internazionali e la maturazione del senso dell'identità nazionale hanno distrutto le possibilità rispettive delle due scelte, conducendo la popolazione ad un consenso, pur non privo di aspri contrasti, di fronte alla sfida di una totale indipendenza dal governo coloniale.
Ma anche l'indipendenza di una minoranza nazionale, pur essendo una conquista, rimane problematica, e con il passare del tempo le antiche difficoltà assumono nuove sfumature e chiedono diverse soluzioni. Ad esempio, continua sii vari livelli il dibattito sulla vera identità storica del popolo maltese. Un esame del passato continua a farsi, e le tendenze della popolazione spesso oscillano tra una posizione e un'altra entro la cornice delle precedenti condizioni storiche. Anche qui l'evidenza offertaci dalla riflessione letteraria sembra la più idonea.
La letteratura romantica maltese, quella cioè che si svolgeva lungo l'Ottocento fino agli anni Sessanta di questo secolo, ha sublimato la visione di una patria nettamente distinta dalle altre e ha ribadito il concetto dell'identità nazionale. 1 poeti e i romanzieri hanno rivisitato nostalgicamente tutte le epoche della storia per mettere in rilievo la forza di resistenza degli antenati - i "padri" - di fronte alle sfide di annientamento. Le epoche storiche sono viste come un lungo e faticoso cammino verso l'autodefinizione. Il conflitto tra lo straniero (l'oppressore ingiusto e spesso infedele) e il cittadino maltese (l'oppresso che si ribella e che è pieno di fede) è il tema fondamentale che poi si andava trasformando in un emblema politico. La lotta mortale tra il bene e il male è qui ridotta ad un confronto tra due nazioni.
Il binomio mazziniano Dio e Popolo si tradusse con facilità in un programma di rivincita nazionale. Il poeta nazionale Dun Karm (1871-1961) è riuscito a tradurre la storia antica in autentica attualità e a sciogliere le vicende dei padri in una psicologia dei contemporanei.
Con l'arrivo dei tempi nuovi, che per Malta iniziano su larga scala negli anni Sessanta di questo secolo, la scoperta dell'identità storica andava perdendo il suo significato. Il concetto di individualità si è trasformato per la nuova generazione intellettuale in un dilemma. Tanta letteratura maltese di questi ultimi venti anni è fondata sull'idea dell'identità maltese concepita come problema. La certezza tradizionale si è sciolta in uno sconvolgimento che investe tutti gli aspetti della vita. Lo spazio limitato del Paese è diventato claustrofobico, la storia ha perso il suo carattere epico e sacro, assumendo allo stesso tempo la funzione di uno spunto ironico. L'inno si tradusse in satira, e la fede nella patria divenne sfiducia struggente in una terra priva di prospettive, almeno intellettuali. L'eroe, una volta sublime portavoce di un intero popolo, si ritirò nel labirinto dei dubbi e delle incertezze. L'anti-eroe moderno maltese è un tipo psicologico molto diffuso, una personificazione delle delusioni di una nuova generazione che si nega la facoltà di creare quelle che i romantici chiamavano conquiste e che adesso si definiscono illusioni e preconcetti. L'analisi fatta da questo gruppo non è del tutto giusta, giunge frettolosamente a facili conclusioni, e spesso perde di vista le vere condizioni storico-culturali che hanno condotto al rinnovamento effettuato dai romantici. Ma il loro discorso costituisce un sicuro punto di riferimento per la conoscenza delle aperture puramente letterarie.
La narrativa tradizionale ha guardato l'emigrazione come esilio; gli autori moderni, alcuni dei quali cercano di scoprire di volta in volta i Paesi stranieri come turisti spirituali e irrequieti, la guardano come un superamento delle restrizioni territoriali. Questo aspetto è di particolare importanza, dal momento che ci sono più maltesi dispersi nel mondo che a Malta. Alla base di questa mentalità c'è un radicale cambiamento di prospettive. Malta non è più vista come un piccolo mondo a sé, capace di condurre in silenzio una propria vita al di là delle tensioni che si agitano nei grandi centri. La psicologia moderna maltese vede l'isola come una parte di un intero continente, e spesso sente la lontananza come esilio insuperabile. La posizione geografica e le possibilità legate al valore strategico dell'isola, le diverse vie scelte dai politici nel campo dei rapporti internazionali, e le incertezze che caratterizzano un mare così turbato e irrequieto come il Mediterraneo sono alla base della riflessione maltese sull'isola, sull'intera regione e sul mondo.

Una definizione ambigua
Il dualismo culturale dell'isola, particolarmente riflesso nel campo linguistico, contribuisce all'ambiguità che sembra caratterizzare la condizione psicologica dei maltesi. La cultura è fondamentalmente europea, satura di influssi latini e particolarmente italiani; la lingua nativa è largamente cresciuta attraverso un complesso processo di assimilazioni lessicali e sintattiche e idiomatiche tutte integrate con il proprio carattere semitico.
il futuro di Malta sembra determinato da una duplice sfida: quella di aprirsi ai nuovi contatti continentali ed extracontinentali, e quella di non lasciarsi trascinare dai nuovi sviluppi che possono distruggere con facilità la sua antica identità. Non è facile distinguere con chiarezza, comunque, tra un tipo di nazionalismo fuori moda e la coltivazione di valori e di patrimoni che devono continuare ad esistere intatti in un programma di adattamento e di modernizzazione. La letteratura continua ad essere l'espressione più autentica e anche sofferta di tale condizione naturale e storica. I modelli comportamentali e sentimentali che si trovano nei testi più importanti saranno sempre, inevitabilmente, quelli di gente che dovrà continuare a vivere nell'isolamento, anche se relativo, lontana dai centri. Il limite e l'insularità, dunque, si configurano in categorie assolute dello spirito, insuperabili e altrettanto caratteristiche, distintive.

LA NECESSITA' DEL SUPERAMENTO DEL LIMITE

La ricerca dei temi universali
Si trovano pure nelle piccole letterature, o in quelle concepite e nate in chiusi territori come quelli isolani, i punti di sviluppo e di continuazione dei temi fondamentali della storia del pensiero umano. Dentro le comunità minori c'è la stessa ispirazione collettiva del secolo che poi si dispone secondo orientamenti dettati da un particolare modo di vivere piuttosto chiuso e troppo consapevole di sé. Ma proprio per questo motivo la critica ha specifiche possibilità di fare risalire alla superficie interi tessuti di tradizioni e di costumi che sopravvivono ancora nelle località lontane dai centri, dove la rapidità delle trasformazioni non concede più spazio a manifestazioni di un certo tipo. Per quanto riguarda il dibattito sulla formazione di una sociologia della letteratura, la valutazione giusta delle letterature minoritarie come tali sembra dipendere molto da quale via si batte di fronte alla scelta tra critica sociologica e sociologia della letteratura.
L'espressione delle letterature isolane, qui considerate come letterature minoritarie, va analizzata dunque sotto due profili: quello popolare, direttamente appartenente all'uomo come cittadino di una comunità autonoma, e quello umano ed esistenziale, comune alla collettività come partecipe dell'esperienza universale. Alla luce di questa indagine i temi che sembrano provinciali acquistano una loro giustificazione storico-attuale, mentre il trattamento dei temi fondamentali fa entrare l'opera regionale nell'ampio complesso della letteratura continentale e mondiale. E' compito della critica passare dal particolare all'universale, senza perdere di vista le prerogative che in tale processo dal punto di partenza (locale, identificabile) conducono al punto d'arrivo
(universale, misterioso). Si suggerisce così una interazione della critica storica con la critica estetica. Attraverso la prima si studia l'opera come riflesso di attività svolta in un luogo e in un tempo ben definiti; attraverso la seconda si arriva alla valutazione dell'opera come riflessione lirica e spirituale. Dalla conoscenza della letteratura come fatto o esperienze si risale alla scoperta della letteratura come creazione o intuizione. L'isola geografica si trasforma gradualmente in una metafora della stessa condizione umana. Una lettura critica di vari testi di autori isolani mette subito in evidenza tale dinamica, che sembra tipica ed inevitabile.
Nelle seguenti riflessioni critiche si cercherà di analizzare i temi universali della solitudine, dell'ansietà esistenziale, della precarietà della vita, e di altri che insistono su una particolare concezione dell'esistenza e della storia, e di interpretarli come espressioni della coscienza dell'essere isolano. Il senso del limite geografico si traduce letterariamente in un simbolo del limite filosofico nei confronti della problematica dell'inserimento del singolo nel collettivo. La ricerca dell'infinito parte proprio dalla consapevolezza del finito, così che finalmente il raggiungimento del significato universale continua ad evocare ineluttabilmente il punto iniziale, il suo luogo di nascita, l'isola, lo spunto per una rappresentazione che non è più geografica e localizzabile.

VOCI DELLE ISOLE

L'ansietà del presente continuo
La problematica del conoscere, l'angst fondamentale dell'essere, la crisi dell'identità personale e collettiva, il confronto moderno tra l'essere e l'avere: entro questi spazi Nino Muccioli, siciliano, sviluppa un discorso particolare e si propone con una tipica insistenza come voce tormentata di un'epoca satura di paradossi. Prendendo le mosse da una specie di definizione della sicilianità come paradigma del mondo, Muccioli naviga nel mare dei temi essenziali: nella solitudine e nel silenzio si scoprono, imponendosi implacabilmente sulla sensibilità, verità superiori alle condizioni di luogo e di tempo.
Sono i sentimenti più elementari che Muccioli cerca di riscoprire e di risanare, mettendo in risalto il contrasto tra esistenza ed essenza, cioè la lotta tra il modello archetipico e la sua realizzazione particolare. Alla base della sua poetica e della sua poesia c'è una intera tradizione filosofica e letteraria che egli visita con attenzione sistematica, ma anche con una sua caratteristica sofferenza esistenziale. La sua è una lirica del disagio, dell'incomprensione, del paradosso, facilmente identificabile con una Palermo tormentata da vicende violente e da problemi istituzionali. In effetti, la sua opera si scioglie spesso in ironia; si tratta, comunque, di una ironia malinconica, quasi incapace di far fronte alle sfide della quotidianità, qui vista alla luce della crisi che sta attraversando a causa di quella che, nell'ottica di Muccioli, sembra la perdita delle prospettive, del senso dell'ordine e dei punti di riferimento assoluto. La soluzione, la via d'uscita, sembra soltanto la scoperta del senso della vita, cioè della coscienza della morte, la tappa finale, la condizione inalienabile in cui l'uomo deve ironicamente maturare e prendere piena coscienza di se stesso e del mondo intero:

Dell'orologio il pendolo
impiccato al ritmo del tempo
a seguire la nostra sorte
segna l'urlo che strazia la ragione:
- Solo sempre dell'uomo è la morte?

Smarrimento

L'intuizione dell'eterno e dell'assoluto, acquisita dal poeta attraverso un radicale esame di se stesso e della coscienza che ha dell'essere, si fa presente poeticamente in passaggi apparentemente descrittivi. Delle volte il poeta ricorre alla forma della narrazione, e spesso si perde in momenti di limpida riflessione. Il suo punto d'appoggio è il paesaggio che egli evoca con nostalgia di un passato quasi mai esistito, ma profondamente sentito come un presente continuo vissuto nell'anima. Muccioli parte da uno spunto pittorico o scultoreo e arriva gradualmente alla formazione di un paesaggio del tutto psicologico e spirituale. Da una materia di costruzione di tipo empirico riesce a costruire un suo nuovo edificio interiore, in cui ambienti fisici si traducono in stati d'animo, dando così luogo a dei momenti lirici privi di ogni residuo retorico, espressi con un linguaggio semplice nella costruzione e saturo di significati.
Il suo Smarrimento è causato da esperienze intellettuali del tutto identificabili: hanno le loro radici nella tradizione cultura della quale si è alimentato nella sua ricerca del senso fondamentale dell'essere. E' la stessa cultura che ora si configura in un limite oltre il quale non gli è concesso di andare:

Ho amato il gioco d'ombre
nella caverna di Platone
e quella inutile malia
che si chiama poesia.

Anche la certezza con cui un Cartesio ha affermato la propria esistenza come res cogitans diventa qui motivo di dubbio e di incertezza. L'atto dello scrivere, invece di offrire al poeta la possibilità di arrivare ad una risposta, si riduce ad una domanda, negando le affermazioni precedentemente conosciute, svestendo il poeta di una propria definizione. La parola, di cui l'autore continua a innamorarsi, non è vista più come forza salvifica, anzi fa crescere il senso dell'inutilità e della stranezza. Mettendosi ostinatamente a scrivere, Muccioli ha il coraggio di arrivare al momento in cui intuisce il suo smarrimento totale:

Perché scrivo? Perché forse il mio tempo
ci costringe a parlare da soli.

Legando la posizione pirandelliana con quella cartesiana, Muccioli dubita e, dunque, afferma:

Chissà, sembro, forse sono.

Queste posizioni, pronunciate con fermezza in Sembro... forse sono, risalgono alla superficie in numerosi momenti di questa esperienza. E' Muccioli stesso a restaurare il senso della poesia, appena perso, e a concedere di nuovo all'atto poetico il suo vero valore di momento magico e privilegiato: queste realtà "non possono essere colte che in attimi di altezza dello spirito e per intuizione o per fede". Questa visione si riafferma con particolare vigore in Presenza dell'uomo (1987), e ricorda le precedenti posizioni prese in altre tappe di questo itinerario spirituale, cioè in Per restare uomo (1978), Fino all'ultimo sole (1980), Circuità dell'esistere (1982) e Le stagioni del tempo (1984). Come sembrano concludere alcuni dei maggiori critici italiani che si sono occupati dell'opera di Muccioli (Giuliano Manacorda, Walter Mauro, Giorgio Bàrberi Squarotti, Giancarlo Vigorelli), questi momenti lirici costituiscono un unico periodo, una sola indagine animata da una sua organicità interiore di natura tematica e formale.
Sotto questo profilo Muccioli ha il merito di non tradire una intera tradizione poetica che si èoccupata ininterrottamente della problematica esistenziale. Le proposte di un Petrarca, di un Leopardi e di un Foscolo, e poi quelle di un Quasimodo, Ungaretti e Montale, sono colte con una sensibilità particolare che le assimila e le digerisce. Lungo questo cammino, inizialmente culturale, e quindi espressione della sua sicilianità, Muccioli sembra scoprire la propria individualità, la fede con cui viene avanti con la sua proposta ispirata a nuove condizioni sociali e legata ad ambienti storico-politici abbastanza identificabili, che hanno trovato in lui una loro voce. La novità della lirica del poeta sta soprattutto nella sua capacità di capire il discorso "storico" e di svolgerlo in prima persona, assumendosene tutte le responsabilità. Da tutta l'analisi della tradizione italiana e siciliana, dall'osservazione di un intero ambiente paesaggistico e urbano, da una serie di meditazioni sul significato metafisico del mondo fisico, dall'indagine sulla funzione (anche se sottintesa) che spetta al poeta nel mondo d'oggi, Muccioli trae la sua conclusione, espressa in termini moderni, ispirata ad un modello archetipico dell'essere poetico:

Sento che tutto è spirito o illusione
è quest'affanno che chiamiamo vita.

Questo suo coraggio di riconoscersi nelle caratteristiche tematiche della sua tradizione poetica ha anche il valore di indicare l'appartenenza etnica e geografica del poeta, e perciò di tutta l'arca in cui si trova. Malgrado l'invasione violenta di una poesia del tutto diversa, estranea alla spiritualità mediterranea, Muccioli conserva la propria identità e trova il modo di proporre un discorso poetico che non si confronta con l'identità mediterranea. Muccioli propone la sua mediazione tra mediterraneità e modernismo, cioè tra passato immobile e presente continuo. Invece di ricorrere a dei modelli concettuali, tipici di tanta produzione di provenienza anglo-americana, il poeta va in cerca delle proprie radici e, scoprendo la propria individualità mediterranea e meridionale, arriva ad una sintesi del mondo esterno e di quello interiore.
Forma moderna e contenuto classico: forse è questa la sostanza del contributo di Muccioli, che va inteso sia come proposta siciliana, sia come partecipazione alle correnti continentali. Altrimenti sarebbe difficile spiegare come in un secolo caratterizzato da un "ottimismo'' voluto o addirittura imposto un poeta possa gridare ad alta voce:

Sì, la vita è una rete
per acchiappare il vento
e resta solo polvere.

Intrecciando lirica ed ironia, descrizione e riflessione malinconica e inno alla vita, Muccioli arriva ad una sua visione dell'unità, dell'essere, attraverso una indagine delle diversità del sentire. Alla base di tutto ciò c'è una fede che battezza l'esperienza, triste perché sottomessa allo scrutinio di uno spirito che chiede risposte ed esige certezze. Scoprendo i retmi del parlare quotidiano, il poeta crea i suoi ritmi, compone brani di musica, celebra la purezza della parola e allo stesso tempo detesta la sua arrogante ambiguità. Tutto inizia con l'acquisizione del senso di C'era una volta, cioè della "fiaba" che appena narrata raggiunge la fine. Dall'intuizione del paradosso esistenziale, del confronto tra il particolare e l'universale, Muccioli costruisce un suo mondo poetico pregno di incanto e di nostalgia, degno di attenzione per la sua suggestiva e sentita vocazione della tradizione siciliana e per l'efficacia con cui mette sotto esame tutta l'essenza dell'uomo, che da una vaga astrattezza diventa appunto una presenza responsabile, una coscienza costretta a fare i conti con se stessa.

Un isolano in cerca di misteri
La lirica di Gigi Dessì rinuncia ad ogni residuo retorico e barocco della tradizione e si scioglie con estrema naturalezza in un suono puro, in una continua serie i ritmi. Una radicale purificazione del lessico poetico, una profondità apparentemente semplice di strutture sintattiche, e un contenuto universale che si ispira a problematiche fondamentali: sono questi gli elementi più caratteristici di Dessì che dalla sua Sardegna guarda verso il continente e vede gli stessi riflessi della propria terra. Tutto il suo mondo diventa sardo, perché il mondo è un'isola abitata da esuli.
Le origini sarde si fanno presenti come materia di costruzione; il rapporto "storico" con la terra nativa diventa subito un rapporto con un mondo oggettivo comune a tutti; la solitudine tipica del Sud mediterraneo si trasforma in una metafora della solitudine cosmica dell'uomo viaggiatore in cerca di se stesso e, infine, di una patria ideale di tipo psicologico. Uno dei meriti più ovvi di Dessì è la sua capacità di trascendere il contingente e l'immediato e di approdare a terreni inconsciamente conosciuti da tutti. La sua lirica, limpida, scarna, restaura il rispetto per la parola, tanto abusata dall'uso giornalistico e letterario degli ultimi decenni del secolo. Il poeta si salva soltanto attraverso la scoperta di nuovi significati e il suo innamoramento con la parola evidenzia immediatamente una certa paura della lingua stessa. Entro la cornice di tale poetica Dessì produce versi che sembrano sfidare il silenzio e stabilire una specie di compromesso tra il mutismo e l'eloquenza. E' la figurazione lirica di una Sardegna in cerca di nuovi rapporti con il Continente.
Dessì concepisce il momento poetico come un unico itinerario realizzabile attravero la scoperta idonea di tappe singolari. Tutta una serie di poesie si configura in un unico poema, intenzionalmente interrotto da "spazi'' e da fermate temporanee. Il viaggio che continua è sempre uno solo, e i vari momenti costituiscono un'unica storia interiore. E' appunto l'unità tematico-stilistica che caratterizza e accomuna Vetri frantumati (1974), Lincomprensibile uomo (1976), Dionisio e l'uomo (1978), Finestra dei trapassi (1984), Tanche di memoria (1987) e Suggestioni di vita (1988). I numerosi spunti nascosti dentro un'anima abbastanza consapevole della propria identità e la diversità che distingue un momento poetico dal precedente e dal successivo non sono che l'evidenza di un processo interiore, di un graduale raggiungimento di nuove conoscenze spirituali. Non è un caso infatti che la dimensione più importante sia quella del tempo. L'esistenza, personale e ugualmente umana e collettiva, è concepita innanzitutto come consapevolezza della fugacità, della precarietà dell'essere. Su un infinito deserto, metafora di uno stato d'animo particolare, si vedono le luci, fenomeni empirici la cui funzione poetica (e psicologica) è di svolgere il ruolo di punto di riferimento dell'uomo di Dessì, cioè del res cogitans, della coscienza sempre sveglia, sempre delusa dei limiti della propria conoscenza:

Ho frugato fra sterpi.
Ritornerò con l'ombra
dei passeri nel grembo
eterno.
Riceverò forze.
Desideri suggeranno luci.
Sognare comete
primavere
poi lentamente dormire.

Ho frugato fra sterpi

La malinconia, esistenziale più che storica, sembra far parte della definizione psicologica del poeta. Ma è una malinconia molto diversa da quella dei romantici e dei crepuscolari. C'è in questi versi una classicità moderna, una eleganza stilistica ugualmente fresca (cioè contemporanea) ed elaborata (cioè tradizionale, archetipica); Dessì riesce a costruirsi una mediazione fra i due estremi: il dolore (come contenuto) diventa piacere o incanto (come forma).
E' nel campo dei ritmi che il poeta mette di più in evidenza la tranquillità con cui si può ancora comporre nei piccoli centri; l'isolamento geografico e culturale è anche posizione di vantaggio. E' con la massima serenità ambientale che Dessì riesce a dare forma alle sue inquietudini. L'isola è anche tema poetico, la solitudine offre anche maggiori possibilità di riflessione. La parola, amata in sé come suono e come sfida al silenzio, riempie uno spazio; non è un caso che le poesie siano tutte brevi, costruite con attenzione parola per parola, concepite come vibrazioni dell'anima e come documenti di meditazione "storica", cioè antecedente all'atto dello scrivere. Le parole cadono sulla carta per fare un suono, per produrre melodie linguistiche, e per dare corpo ad uno stato d'animo innamorato del mistero e dell'ineffabile.
Sotto questo profilo, Dessì rimane fedele alla tradizione più ricca di tutta la poesia italiana, da Petrarca a Leopardi, da Pascoli a tutti i maestri del Novecento che sono riusciti a rinnovare la poesia senza rinunciare all'identità di tutta una storia letteraria. L'attenzione critica che merita Dessì è dovuta in gran parte alla sua capacità di inserirsi nella corrente più valida della poesia italiana e di trovarsi un posto particolare in cui afferma una sua inconfondibile personalità radicata nelle sue origini sarde.
La sua opera maggiore, Suggestioni di vita, è la voce di uno spirito che, venendo dalla Sardegna, porta con sé un ricco bagaglio di sentimenti e di simboli, e si indirizza ad un pubblico capace di scoprire l'isola che c'è dentro ogni essere umano. Il paesaggio si traduce in contenuto psicologico, il silenzio dell'ambiente si trasforma in una metafora dello spirito turbato, il senso dell'antichità storica si configura in una eternità impenetrabile, le tradizioni (ora diventate memorie di una infanzia satura di "suggestioni") diventano cronaca. Tutta una vita è sottoposta ad un esame lirico in cui fatti, situazioni e personaggi acquistano il significato di punti di riferimento lungo un viaggio altrettanto faticoso e felice.
E' il paradosso tipico di tutta l'opera di Gigi Dessì, poeta di una isola. Ed è per questo che la sua parola si scioglie, anche oggi in mezzo alla cacofonia continentale, in oggetto d'incanto, e che, messa in versi, assume il carattere di una nota musicale. Dietro la pagina pulita, quasi spontanea; si sente la mano di uno scrupoloso lavoratore che riconosce nella parola lo strumento sacro della sua salvezza.

L 'evocazione di una classicità perduta
La dizione "poesia moderna" rischia di perdere il suo vero e proprio significato dal momento che tende ad abbracciare tante diverse, contrastanti tendenze tematiche e formali. Classificazioni di tipo temporale e geografico sono già condizioni inalienabili che portano di necessità categorie diverse all'interno di questo capitolo della storia della poesia. Al di sopra di ogni classificazione rigida e troppo schematica, l'ispirazione mediterranea suggerisce la necessità di una indagine a parte, diversa da quella che spetta alla poesia di altre parti del continente.
E' facile pensare che queste distinzioni facciano parte integrale di ogni metodologia critica di natura storica. Bisogna, comunque, ricordare che comunemente si parla della "poesia moderna" in termini universali, troppo categorici, e raramente ci si ferma a definire la poesia in termini regionali. Regionalità non significa limitazione, arretratezza o alienazione; significa piuttosto la presenza di una gamma di esperienze e di motivi che non si trovano facilmente nei grandi spazi.
Oggi che si stanno facendo vari sforzi per arrivare ad una definizione storica, culturale della "nazione mediterranea", è più che mai opportuno prendere in piena considerazione anche il luogo d'origine, il punto fermo da dove parte, come fenomeno inizialmente locale, la poesia che si avvia, naturalmente, verso le rischieste vette dell'universalità.
In alcuni casi tali considerazioni si impongono con maggiore rilievo.
Si deve parlare di Vincenzo Mascaro, messinese, come di un poeta mediterraneo perché sembrano troppo evidenti sia il suo terreno naturale, più ampio di quello siciliano, sia i numerosi punti di riferimento della sua visione. Mascaro, ad esempio, si riconosce ancora in una specie di eterna classicità superiore alle modalità del tempo, più profonda dei dettami delle forze che tendono a cambiare con ritmo costante l'ambiente.
Ciò non deriva dal fatto che ci troviamo di fronte ad uno scrupoloso studioso della Grecia, ma piuttosto dall'evidenza interna che ci offre in proposito la sua opera creativa. Mantiene una gravità solenne anche di fronte alle cose "banali", cioè agli oggetti di ogni genere che spesso si trasformano in immagini vivissime di verità nascoste e di sentimenti complessi non ancora precisabili. il suo discorso, svolto in sede metaforica e mai razionale, resta sempre lontano dalle caratteristiche di una cruda immediatezza assai identificabile, e si scioglie rapidamente in suggestioni dell'anima.
Le "sue" esperienze sensorie sono sottomesse ad un radicale esame della coscienza, l'unica facoltà che egli mette in funzione per meglio arrivare ad una espressione lirica del tutto cristallina, limpida e spesso lapidaria. Queste sono evidenze di una estetica classica ancora dinamica e piena di vita e di rilevanza, manifestazioni di un consapevole e deciso distacco dalle impostazioni concettuali, intellettualistiche e troppe volte giornalistiche di tanta produzione poetica angloamericana ed europea del Novecento. Sarebbe anche ingiusto definire tale insistente atteggiamento come semplice documento di italianità o "sicilitudine", perché il poeta non manca mai di arrivare presto a significati universali, frutto di una "intuizione lirica e cosmica", per dirla con Croce, che continua ad essere la sostanza più vera della poesia.
Già nelle sue riflessioni critiche Mascaro aveva delineato la sua propria poetica mentre riassume le caratteristiche dei "metodi" del potere contemporaneo. E', da un lato, completamente consapevole dei rischi del modernismo che spersonalizza l'uomo, rendendolo oggetto senza identità e dando luogo ad una attività puramente tecnica, quasi priva di contenuti. D'altro canto, la sua conoscenza di critico si mette in diretto confronto con la sua poetica personale, quella che nella pratica spiega e giustifica i particolari, le strategie, le scelte tematiche e formali dei suoi testi.
La resistenza contro il pericolo e a superficialità contemporanea, anch'essa caratteristica del poeta isolano tanto convinto delle sue certezze, conduce l'uomo ad una riscoperta dei valori fondamentali, ad un ritorno ad una visione etica, sottilmente teologica, non scientifica e meccanica, e 'essere.
Da un punto di vista storico, questa posizione sembra una rielaborazione della distinzione aristotelica tra la storia e la poesia, cioè tra la conoscenza del contingente e del particolare, e l'intuizione pura dell'assoluto e dell'universale.
Tale distinzione, ampiamente discussa e ribadita da Sidney nella sua Defence of Poesie (1595), da Nicholas Boileau nell'Art Poètique (1674) e pure data per scontata nelle impostazioni strutturaliste, cerca di sciogliere il problema dell'impegno poetico di fronte alla tentazione, carissima ai poeti di questo stampo, di continuare a indagare negli spazi infiniti, insondabili dell'anima umana. Per Mascaro il particolare rimane sempre un misterioso microcosmo dell'insieme, del tutto in cui l'individuo si riconosce subito come componente ma anche come totalità. L'osservazione attenta delle banalità quotidiane conduce verso la scoperta di una complesso mistero nascosto dentro le cose:

Riprendono i loro discorsi
dentro ai nidi le rondini.
Lo scirocco si scioglie
in stille d'angoscia.
Breve malinconia del giorno,
fresco piacere che non dura.

Aspettando l'autunno

Il brano mette in rilievo il metodo con cui Mascaro passa dalla costruzione di un semplice, affascinante quadretto all'affermazione amara di una profonda verità. Il bozzettismo, assai caratteristico della poesia delle isole, riassume subito la funzione di un mero pretesto per l'acquisizione di una intuizione. In realtà, il motivo descrittivo è appena accennato e si sottilizza presto in una gamma di sensazioni. La strategia del poeta inizia con una proposta pittorica per arrivare quasi istantaneamente ad una parabola. Siamo lontani dall'aderenza al principio oraziano dell'ut pictura poesis. Mascaro non cerca di imitare i modelli della natura, ma si sforza di conoscerli nella loro sostanza. Abbozzando leggermente alcune sfumature delle "Cose" (adopero la parola nel senso della res latina, cioè i fenomeni, le condizioni, i fatti, gli eventi, le creature, ecc.), il poeta visita il suo mondo con un'ottica emotiva e filosofica, trovandosi poi in grado di definire verità e non apparenze. Fra i due poli estremi della realtà osservata e la verità scoperta si realizza l'itinerario spirituale, una specie di superamento del mediato dall'immediato, una struggente vittoria dello spirito sulla materia. L'angoscia che anima la sua opera rivela la condizione psicologica del poeta man mano che avanza verso la fine del viaggio. Poeti essenzialmente mediterranei si riconoscono subito nell'identità del viaggiatore esemplare, Ulisse, il naufrago.
L'amore, visto alla luce di questa poetica del mistero inafferrabile, allarga il suo significato e diventa la logica del cuore, la scienza più naturale che spiega il cosmo senza ridurlo ad un fenomeno conoscibile in sé. Amare significa qui interrogare le cose, avere fiducia nell'essere, trovare la presenza dell'unità nella molteplicità, passare dalla paura del flusso eterno di Eraclito alla certezza dell'essere assoluto di Parmenide. Amare diventa pure la fede, umana se non addirittura divina, con cui si va al di là della superficie del creato nella ricerca del rapporto che ci deve essere tra la molteplicità e l'unità, appunto tra il mondo delle apparenze e il mondo delle verità. Più di ogni altro, l'isolano ha profonda conoscenza del dualismo; la sua ottica oscilla sempre tra l'io e l'altro, l'interno e l'esterno.
Non è difficile intravvedere l'intimo legame che c'è tra Mascaro e una intera tradizione mistica capeggiata da Pascoli, Quasimodo, Montale, Ungaretti. Anche in loro gli spunti descrittivi si trasformano in psicologismo. Il rifiuto di impegnarsi con "le cose" è paradossalmente un impegno a favore delle "lacrymae rerum" virgiliane. La grande malinconia, acquisita - perché si tratta di una qualità positiva e non di un male - attraverso una lettura religiosa dell'esistenza, segnala una tappa, un momento di maturazione dell'anima, e non equivale ad una facile, irresponsabile fuga dalla realtà quotidiana. La noia esistenziale è appunto superata con il ricorso alla sublimazione lirica. Questo lirismo, mai retorico e altisonante, si tuffa nel mare degli oggetti e ne esce purificato o addirittura trasformato.
Il continuo rivolgersi di Mascaro al mondo delle esperienze empiriche e poi l'istantaneo ritirarsi in un altro mondo interiore sono due momenti che spesso arrivano simultaneamente o almeno nella forma di uno strano ma coerente susseguirsi, come se fosse la meditazione a seguire l'osservazione. La tormentata convivenza del mondo esterno con quello interiore si manifesta come un compromesso necessario tra il vivere (la noia della prosa, la ripetitività quotidiana) e il poetare (il piacere della lirica, l'unicità dell'atto creativo), così che finalmente l'esito letterario si configura in una voluta alternativa all'azione.
I contenuti suggestivi, spesso nostalgici, della memoria non sono semplici residui di un passato remoto; spesso prendono la forma di scintille strane ed evanescenti di un cuore aperto all'esperienza del mistico e del misterioso. La magia deriva dal fatto che l'irraggiungibile è continuamente sentito e vissuto. il tono dolce con cui Mascaro sembra indirizzarsi al lettore è allo stesso tempo forma e contenuto, metodo di espressione e materia espressa.
La fusione tra gentilezza e tormento ha le sue radici in una maturità raggiunta non meramente con il passare degli anni, ma piuttosto attraverso un voluto ritorno alla fanciullezza, in cui le certezze e le definizioni perdono i loro precisi contorni e diventano fonti di ambiguità preziosa, spunti di ambivalenza necessaria. Da queste condizioni nasce il tormento dal quale la lirica ha poi la capacità di trarre il paradossale piacere e di sublimare in una specie di magia richiesta dallo spirito tutta la noia esistenziale:

Aperto cuore mi rimane, intatto
cuore senza velami e senza smorte
invidie. Questa gloria mi rimane
ch'è specchio del mio vivere dappoco
e gonfalone del tempo passato.
E così sia. Ch'altro un giorno vorrò
se non del verso la consolazione
e la mercede di una dolce morte?

Aperto cuore

La malinconia mediterranea, particolarmente quella del Sud, sembra inizialmente motivata da identificabili condizioni storiche e geografiche. L'atto poetico, comunque, purifica questo malessere da ogni tipo di immediatezza e lo traduce in una categoria dello spirito umano. Prendendo le mosse da una osservazione dell'esperienza diretta, Mascaro risale al livello lirico allargando la rilevanza del concetto della malinconia, approfondendone il significato e applicandolo a tutta l'umanità. L'isola non è più il paese nativo, la solitudine non rimane una precisa condizione civile, il silenzio non indica più la lontananza dai grandi centri dell'attività poetica e culturale. L'insularità è vista sotto il profilo filosofico, come la condizione ineluttabile di una intera nazione umana, ed è finalmente la terra a configurarsi in una isola perduta nella vastità del cosmo.
Anche di fronte a spunti di carattere remotamente culturale, Mascaro coglie il senso del misterioso e dell'universale, e la vera e propria geografia che delinea diventa quella della coscienza angosciata. L'uomo civile cresce gradualmente in uomo filosofico, e le "lunghe attese", le delusioni dei tempi passati, i contenuti della memoria (cioè della storia) si sviluppano assumendo la natura di grandi metafore perenni della condizione esistenziale. Il trapasso dall'esperienza dei sensi all'intuizione si rivela come lo sciogliersi degli eventi in simboli:

Maledizione e amore questo
sud di pietra che prendiamo a pugni
da secoli, aridità e gioia
segreta delle lunghe attese.

Attesa

La sofferenza con cui Mascaro sceglie il suo frasario più tipico e costruisce forme espressive chiare e solide nella loro determinatezza, risulta l'aspetto più evidente del rapporto tra la forma e la tematica. La morte, la vita, l'amore e la delusione, la magia del paesaggio e la fatalità del processo incessante della natura, il ricordo del passato e la gravità del presente, l'eloquenza del silenzio e la passione per la parola, la certezza della storia e l'ambiguità dei sentimenti: sono alcuni dei numerosi spunti che in Mascaro, collegandosi in un insieme organico, assumono la dignità di un amaro verdetto sull'esistenza, anche se dalle fessure trapela la speranza di un'alternativa trascendentale. Il suo lirismo, svolto con sicura duttilità stilistica, nasce sul terreno del tormento umano e raggiunge la maturità superando con facilità lo scoglio dell'immediatezza e del commento cronachistico dai quali tanta produzione poetica contemporanea è condizionata.

La vita come tormento
Nella schiera dei poeti maltesi che hanno svolto la loro attività nella prima metà del Novecento e hanno appena sfogliato la seconda, il nome di Ruzar Briffa, nato alla Valletta, emerge con una sua individualità inconfondibile. Rappresenta soprattutto un filo diretto tra quel presente e un futuro molto diverso. Quel presente è identificabile soprattutto per una gamma di ragioni con le impostazioni più tipiche dell'Ottocento romantico che sotto l'influsso dell'esperienza italiana diede contenuto e forma all'ispirazione dell'isola; quel futuro è caratterizzato da una graduale presa di coscienza alimentata da esigenze di una società trasformata sotto vari profili.
Con Briffa si ha la figura del poeta integrale, della personalità che riassume nell'atto poetico tutti i vari, multiformi aspetti dell'essere professionale, sociale, familiare, civile. Essere poeta significa investire l'esistenza di un contenuto e di una forma particolare. L'intuizione lirica e non la poesia della letteratura e della rigidità formale, il senso del mistero e non la consapevolezza delle certezze nazionali, la lingua ricostruita con sofferenza dalle rovine di una sensibilità malinconica e non la normalizzazione decisa della sintassi e del lessico: in queste scelte, intimamente legate tra di loro, appare la figura del poeta come essere quasi privato, racchiuso in sé, piegato su se stesso, separato dalle masse, ispirato soltanto ai sussurri che si fanno sentire nel suo intimo angoscioso, del tutto noncurante della problematica storico-culturale. il poeta che abita nell'isola è diventato lui stesso un'isola; il carattere geografico del suo Paese diventa il paradigma e a sua identità spirituale. Briffa riassume nella sua personalità l'isolano sperduto, il viaggiatore introverso che cammina verso una meta già conosciuta come irraggiungibile.
Lo sfondo di Briffa non è l'età dei contemporanei, ma un eterno mondo di solitudine, privazione e tristezza, una mitica terra interiore. Le dimensioni di luogo e di tempo, mai evidenze di dati precisi, sono forme archetipiche entro le quali quasi tutte le sue brevi meditazioni trovano una cornice per presentarsi come poesia, cioè come parola salvifica, sfida al silenzio continuo:

Il-ferha tà bla tarf li jien poeta
darba hassejt,
u bkejt
bil-qalb mimlija
x'hin l-oghna holm tal-hajja
ghannejt.

Mill-Gdid Poeta

[Ho provato una volta la felicità infinita di essere poeta, e piansi con un cuore pieno, mentre cantavo i più ricchi sogni della vita].

I suoi luoghi sono spazi desolati, lontani dalle città della convivenza, distinti dal mondo dell'attualità; ad esempio, cimiteri, cattedrali dimenticate, castelli, vecchie chiese, spiagge lontane, strade disabitate, tombe, chiese demolite, fontane solitarie, città desolate. i suoi tempi e le sue stagioni sono momenti e periodi facilmente identificabili con la sofferenza, ad esempio, l'inverno, la notte, le ore della tempesta e quelle della pioggia.
Il passato con le sue ricordanze amaramente nostalgiche è un presente continuo, una "eternità" storica vissuta entro cui l'esperienza diventa psicologica, e il presente perde la sua attualità per diventare momento ambiguo dominato dalla memoria:

Qatt ma kien hemm ilbierah,
m'hemmx ghada jew pitghada,
il-bniedem fassal wahdu
il-jiem tac-civiltà...
Imm'Alla halaq qablu
it-tul t'Eternità.

Il-Hadd Filgbaxija

[Non c'era mai ieri, non c'è domani e dopodomani, l'uomo disegnò da solo i giorni della civiltà... ma Dio creò prima di lui la lunghezza di una Eternità].

L'insistenza su vocaboli che evocano limitatezza, tenerezza, introversione, timidezza, piccolezza richiede una precisa interpretazione. Il linguaggio poetico di Briffa costituisce già un concentrarsi su un tipo particolare di lessico: è scelto istintivamente, con criteri psicologici, e non letterariamente, con criteri stilistici. Invece di cercare di ampliare il proprio vocabolario e di trovare le parole meno note, più antiche e pure (cioè di origine semitica, siccome il concetto di purezza, ormai da tempo superato, significava l'eliminazione dei vocaboli di origine latina), il poeta riduce il suo dizionario ad un glossario elementare, quasi specializzato, ispirato soltanto alla tematica del tormento esistenziale. Non risale mai alla superficie l'ambizione di chi desidera dare evidenza della vastità e dell'efficacia espressiva della lingua maltese, tradizionalmente incolta. Passando dalla langue alla parole Briffa arriva ad una lingua scheletrica, scarna e del tutto priva di ogni elemento decorativo. Non c'è un rifacimento della comune lingua parlata; si tratta di una riduzione estrema, evidenza letteraria di un retrocedere psicologico. Anche la poetica della lingua diventa così un documento di una particolare vicenda interiore.
Dati i limiti entro cui poteva svolgersi l'attività letteraria, e considerando il grave svantaggio imposto sull'antico idioma di origine araba, sempre vissuto in condizione di subalternanza culturale e politica rispetto alla tradizione latina dell'isola, una tale scelta "linguistica" (così appare a prima vista, e così è anche, ma non soltanto, nel quadro della vita culturale maltese del primo Novecento) costituisce una importante novità nella storia della poesia del Paese. Significa l'affermarsi del contenuto sulla forma, il superamento del preconcetto che attività linguistica equivale ad attività creativa. Tirando le somme, dunque, ciò significa che il contenuto (l'atto poetico) non doveva dipendere più dalle condizioni del programma di ricostruzione sintattica e lessicale, oltre che morfologica, della lingua popolare. Poetare ora significa soltanto scoprire la propria metalingua entro la lingua, restringere ancora, tormentare i nuovi modi, ricreare una forma espressiva che in ultima analisi non contribuisce in nessun modo all'avanzamento della lingua in termini di standardizzazione scientifica e colta. Alla base di questa poetica c'è il profondo senso di isolamento tipico di Briffa, uomo e poeta. Il suo distacco dalle mode letterarie maltesi del suo tempo è soltanto espressione del suo stato d'animo.
Trovandosi privo di una propria formazione letteraria, essendo un medico occupatissimo, Briffa aveva paradossalmente il vantaggio di poter distanziarsi senza polemiche dai formalismi necessari storicamente nell'ambito della breve storia letteraria della lingua maltese, e richiesti dalla condizione difficile dell'idioma non ancora sufficientemente elaborato in sede estetica. Messo nella foto di gruppo dei suoi contemporanei, Briffa appare isolato anche come poeta e non soltanto, caratterialmente, come persona. La sua distanza psicologica si traduce presto in distanza linguistica e formale, quasi per mettere in evidenza il fatto che la prima condizione fosse la causa della seconda, e che tra l'uomo e l'artista non potesse esserci alcuno spazio in comune.
La sua lingua ridotta, costituendo un compromesso con il silenzio e con il mutismo, è frammentaria, sciolta e sconvolta. Il lessico è scarno e "povero" oggettivamente, fedele alla condizione di privazione e di negazione che l'autore intende proiettare. Le forme si creano nel processo dello scrivere, anche se spesso utilizzano le stanze precise della tradizione, particolarmente la quartina. Entro la formalità, comunque, cresce il nervosismo personale di chi non trova facilmente lo spazio adatto allo spirito in cerca di comunicazione.
Il contrasto con l'impressione che viene fuori dall'opera collettiva dei contemporanei ha condotto Dun Karm, il maggiore poeta maltese dell'epoca, troppo avaro di solito nel giudicare i suoi colleghi, a riconoscere in Briffa un autentico poeta. In fondo si tratta di un anti-letterato valido che ha prodotto alcune delle liriche più belle scritte in maltese nella prima metà del Novecento.
E' una condizione paradossale. Questa bellezza sta soprattutto nell'informalità, che presto dà prova dell'intraducibilità del testo. La spontaneità risiede essenzialmente nella naturalezza istintiva, anti-accademica, con cui ha colto dopo lunghi periodi di riflessione la forma pronta ad essere semplicemente registrata su un pezzettino di carta. Cogliendo il momento opportuno, dovuto alla sua psicologia di sconvolto pensatore, disorganico e deciso sentimentalmente, che sente e non concepisce, Briffa riesce a creare la forma nell'atto stesso di trascriverla. Scrivere significa qui, dunque, tradurre la poesia interiore in poesia esteriore, arrestare il sentire attraverso lo scrivere, uscire in qualche modo, temporaneamente, dal proprio isolamento.
Le tensioni rivissute a livello privato conducono al bisogno di creare pure le proprie modalità espressive. Il diarismo, la psicologia in cui si riassume tutta la poetica di Briffa, spiega l'intero procedimento: i temi della tradizione sono sofferti dall'individuo, e la trascrizione personale riesce a creare le forme "private" che placano di più le esigenze dello spirito. Anche il comportamento letterario è tipicamente quello dell'isolano.
La prima lirica, Lacrymae rerum (1924) e l'ultima, Ballatella tal-Funtana (1962), non sono poi molto diverse. Si prestano facilmente ad un confronto che le definisce come tappe lontane di un unico ininterrotto procedimento stilistico e formale, esprimente una sola preoccupazione. La monotematicità, una delle conclusioni acquisite attraverso un tale confronto, mette ancora in risalto la condizione da cui parte la poesia di Briffa: l'uomo richiede una sua espressione, ed è l'uomo, al di là della storia letteraria del Continente e del proprio Paese, che deve ricostruirsi le forme. Il diario della solitudine, così, diventa poesia.


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