A partire dagli
anni Settanta si è manifestata in tutti i Paesi industriali
una tendenza verso l'aumento della spesa pubblica e dei disavanzi
pubblici.
In Italia la fase di aumento della spesa e dei disavanzi ha avuto
intensità maggiore rispetto agli altri Paesi industriali e
si è protratta per un periodo più lungo.
L'espansione della spesa pubblica e dei disavanzi ha indubbiamente
consentito di attutire gli effetti prodotti dal rallentamento della
crescita economica sul reddito disponibile delle categorie meno protette.
L'incalzare degli eventi, la pressione esercitata dalle varie categorie
hanno tuttavia attenuato la percezione dei limiti dell'intervento
pubblico.
Nella prima metà degli anni Ottanta, nei principali Paesi industriali
si è avviata una fase di ripensamento circa le dimensioni e
il ruolo del settore pubblico nell'economia. Nella gran parte dei
principali Paesi europei tale ripensamento ha condotto all'adozione
di politiche di contenimento della spesa, che alla fine degli anni
Ottanta hanno portato a un ridimensionamento degli squilibri dei conti
pubblici.
Risultati apprezzabili nel ridimensionamento del peso dei disavanzi
pubblici in Italia sono stati conseguiti nella seconda metà
degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta. Il disavanzo complessivo
del settore pubblico è passato dal 13,9 per cento del prodotto
interno nel 1985 all'11,0 per cento nel 1992; il saldo primario che
nel 1985 era negativo e pari al 5,7 per cento dello stesso aggregato,
nel 1992 è divenuto positivo e pari allo 0,4 per cento. Nell'anno
1993 ci sono stati ulteriori miglioramenti.
La riduzione del peso dei disavanzi è stata conseguita soprattutto
per effetto dell'innalzamento della pressione fiscale e contributiva;
essa ha raggiunto il valore medio esistente negli altri Paesi della
Comunità, ma rimane comunque inferiore ai livelli esistenti
in Francia e in Germania, Paesi caratterizzati da un'elevata spesa
pubblica. Le azioni condotte sulle spese sono valse solamente a contenerne
la dinamica.
Nell'attuale fase, per acquisire stabilmente la fiducia degli operatori
economici e per beneficiare della ripresa, che si dovrebbe manifestare
nel corso dei prossimi due o tre anni, è necessario consolidare
i risultati conseguiti e ricercare ulteriori progressi.
L'azione sulla spesa è più efficiente rispetto a quella
sulle entrate al fine di ridimensionare i disavanzi; al contrario
di quella sulle entrate, essa non produce riflessi negativi sui prezzi.
Per contenere la crescita della spesa è necessario procedere
a una ferma attuazione dei principi che ispirano la riforma della
pubblica amministrazione e degli interventi di settore recentemente
definiti dal governo. L'esistenza di ampi margini di inefficienza
e di oneri impropri che, a causa della corruzione, gravano sulla spesa
pubblica potrà favorire il conseguimento di risparmi consistenti.

Le dimensioni della spesa pubblica dovranno risultare compatibili
con livelli della pressione fiscale e contributiva che non frenino
l'attitudine a lavorare e a investire. L'azione sulle entrate dovrà
quindi concentrarsi sulla riduzione dei margini di evasione e di elusione,
tuttora ampi nonostante le misure già adottate, e sul ridimensionamento
delle agevolazioni tributarie, non sempre rispondenti a precisi obiettivi
di politica economica.
Burotagli
Il declino
del travet
Una corsa è
in atto in Europa: la diminuzione dei pubblici dipendenti. Vi sono
Paesi nei quali i dipendenti della pubblica amministrazione superano
il 30 per cento degli occupati: sono gli Stati del "socialismo
nordico", Norvegia, Svezia e Danimarca, nei quali la presenza
pubblica è dirompente, generando un pesante carico fiscale.
L'Italia figurerebbe in media posizione, con il 17,2 per cento del
totale degli occupati impiegati presso la pubblica amministrazione.
In realtà, i dipendenti a carico dei contribuenti non sono
soltanto ministeriali, ospedalieri, parastatali, militari, ferrovieri,
postali, regionali e via dicendo, dai dipendenti di aziende a quelli
di enti pubblici di varia natura: dobbiamo tener conto anche delle
grandi imprese di Stato (Enel, Eni, Iri, eccetera), finora rette dai
contributi di tutti i cittadini. L'Efim è un esempio unico,
in Europa, di un gruppo di aziende mantenute dai contribuenti. Il
numero dei pubblici dipendenti è all'estero elevato perché
comprende anche i part-times, quasi un terzo del totale.
I Paesi Bassi hanno avviato un'operazione che dovrebbe recare, entro
quest'anno, a una diminuzione di 9.000 dipendenti l'1,5 per cento
del totale), con un risparmio calcolabile sui 550 miliardi di lire.
L'Austria ha un progetto quinquennale, che prevede un calo annuo del
2 per cento dei dipendenti. Il 5 per cento globale dei posti pubblici
è il taglio della Finlandia entro il 195; poco di meno (il
4,5 per cento) è la diminuzione entro il '96 dei ministeriali
giapponesi. Si noti che il Giappone ha una percentuale ridottissima
di pubblici dipendenti: 1,8 per cento del totale degli occupati. Evidentemente
nel Sol Levante questo dato sembra elevato.
E l'Italia? I piani dei responsabili della Funzione Pubblica sono
noti, com'è apprezzata la loro volontà di stornare sacche
di spesa, a partire dalla riduzione delle 3.090 aspettative sindacali
retribuite. Tagli di decine di migliaia di posti sono previsti nella
scuola, nelle ferrovie e nelle poste. Non si tratta solo di risparmiare:
c'è di mezzo anche l'efficienza. E che efficienza ci può
mai essere, se il volume dei più recenti quesiti rivolti alla
Funzione Pubblica occupa, con le risposte, 1.058 pagine?
Prendiamo, sempre in tema di raffronti europei, gli orari di apertura
degli uffici pubblici. L'anagrafe municipale è uno dei servizi
più frequentati: se in Italia è di norma aperta la mattina
(solo in alcuni comuni anche il pomeriggio), in Portogallo l'orario
va dalle 9 alle 19, in Inghilterra dalle 8,30 alle 16,30, in Irlanda
dalle 9,30 alle 12,30 e dalle 14,15
alle 16,30, in Francia addirittura dalle 9 alle 18, con apertura il
sabato dalle 9 alle 12,30. Il cittadino è così molto
più favorito all'estero, dove non è obbligato a perdere
una mattinata di lavoro per chiedere, e spesso non ottenere subito,
un qualsiasi documento.
Lo stesso succede per le poste. Da noi la maggioranza degli uffici
sbarra le porte alle 14. In Belgio e in Danimarca, invece, l'apertura
va dalle 9 alle 17; in Grecia gli uffici aprono alle 7,30, tutti quanti,
e chiudono alle 14 se sono periferici, addirittura alle 20 se sono
centrali. C'era un tempo in cui la distribuzione della corrispondenza
avveniva due volte al giorno (tre nei centri maggiori); da un quarto
di secolo si è ridotta a una sola. Gli uffici telegrafici e
postali sono sempre meno aperti: chi vede il dramma di Rosso di San
Secondo, Marionette che passione!, ambientato in un ufficio telegrafico,
non può che stupirsi dell'efficienza dei telegrafi italiani,
funzionanti nei giorni festivi all'inizio del secolo.
L'Europa ci lascia indietro. Pure gli orari delle imposte, del mai
aggiornato catasto, degli uffici amministrativi sanitari sono indice
dell'apertura maggiore che si attua all'estero. Là il cittadino
è favorito perché il pubblico dipendente lavora di più,
lavora meglio ed è meglio compensato.
Europa e Welfare
State
Solidarietà
a caro prezzo
La legge della
discordia, in Olanda, si chiama "Wao", ovvero legge sull'inabilità
al lavoro. In vigore dal 1967, prevede che chiunque sia costretto
ad abbandonare anzitempo il lavoro per cause fisiche o psicologiche
ha diritto a un indennizzo pari al 70 per cento dello stipendio fino
all'età della pensione.
L'efficientissima macchina statale dei Paesi Bassi aveva stimato,
al varo della legge, che i cittadini potenzialmente interessati sarebbero
stati non più di 200 mila. In realtà, alla fine del
1993, i beneficiari della "Wao" erano 918 mila: un vero
e proprio esercito, se si considera che l'Olanda vanta poco più
di 15 milioni di abitanti.
Una consolazione, seppur magra, per l'Italia afflitta dalle tante
pensioni d'invalidità civile probabilmente fasulle. Tutto il
mondo è paese, par di capire, soprattutto quando all'interesse
dei lavoratori s'accompagna il vantaggio per gli imprenditori, forti
di un regime di contributi più appetibile rispetto all'indennità
di disoccupazione. Ora in Olanda si medita la radicale trasformazione
della legge. Una scelta difficilissima. Ma qualcosa si sente di dover
fare.
Il caso olandese serve ad introdurci al tema più drammatico
per l'Europa occidentale. Riuscirà il continente a difendere
lo stato sociale, conquista della seconda metà del secolo e
vero fiore all'occhiello dell'Europa rispetto alle altre aree? Ci
riuscirà, innanzitutto, se le strutture nazionali, federali
o centraliste, dalla Scandinavia a Pantelleria, sapranno trovare i
correttivi efficaci di fronte agli abusi dei governati-elettori, oppure
gli stimoli sufficienti per i pubblici dipendenti, controllori spesso
disattenti o conniventi. Ma il richiamo alla lotta agli sprechi, ormai,
non è più sufficiente.
Lo stato sociale è assediato dalle cifre. Il sistema sanitario
nazionale si qualifica, un po' dovunque, come una piovra sempre più
vorace: in Germania l'incidenza della spesa sul prodotto interno lordo
è passata dall'8,4 al 9,1 per cento dall'80 ad oggi; in Francia
si è saliti dal 7,5 al 9,1; in Gran Bretagna, nonostante il
pugno di ferro di Margaret Thatcher, dal 5,9 al 6,6 per cento. E l'Italia?
Per quanto possa sembrare strano in un Paese di autodenigratori, siamo
in perfetta media europea, essendo passati dal 6,6 all'8,3 per cento.
Ovunque si diffonde la sensazione che il tetto massimo sia vicino,
che le grandi comunità nazionali presto non potranno più
sopportare l'onere della sanità pubblica. E, come conclude
un recente studio della Arthur Andersen dedicato alla sanità
in Europa, ormai si diffonde la convinzione che fra breve "alcune
prestazioni offerte dallo Stato dovranno essere finanziate direttamente
dai cittadini".
Il discorso fatto per la sanità si può ripetere pari
pari per gli altri pilastri dello stato sociale: è in crisi
drammatica il diritto al pieno impiego e con esso la previdenza e
il diritto alla pensione, il diritto all'istruzione viene ridimensionato
e comunque reinterpretato un po' in tutta Europa.
Fino all'89 il sistema, pur con mille crepe, sembrava poter sopravvivere.
Poi la crisi è diventata inarrestabile. Quali sono le cause?
L'invecchiamento della popolazione, prima di tutto, che aumenta la
domanda di servizi sanitari e pensionistici pubblici, mentre riduce
l'incidenza dei lavoratori che pagano contributi. Non si può
dimenticare, poi, che lo stato sociale è frutto di un'epoca
coloniale, nella quale all'Europa mancano grandi competitori industriali,
salvo gli Stati Uniti e il fresco miracolo nipponico. Trent'anni dopo,
l'Europa si scopre all'improvviso vulnerabile contro aree del mondo
che vantano un costo del lavoro molto più contenuto. Soprattutto
l'Est asiatico, ma anche l'Europa orientale, rientrata all'improvviso
in gioco.
L'Europa, inoltre, scopre di aver smarrito quel vantaggio tecnologico,
di preparazione della manodopera, di organizzazione sociale che le
consentiva di realizzare il plusvalore necessario alle incombenze
dello stato sociale. Giappone e Stati Uniti sovrastano l'industria
europea in buona parte dei settori ad alta capacità di innovazione.
I loro sistemi sociali, inoltre, vantano una flessibilità molto
superiore, la ristrutturazione affrontata negli ultimi anni dalle
imprese, soprattutto in Usa, è stata spietata.
Sul piano finanziario, poi, l'Europa si trova denudata delle sue armi
tradizionali: i deficit crescenti rendono inutilizzabile la leva della
spesa pubblica, pena l'esplosione dell'inflazione; né si può
agire sul fronte delle tariffe o di altri incentivi, per le stesse
ragioni.
In termini estremamente brutali, l'Europa può garantirsi soltanto
la solidarietà che i contribuenti sono disposti a pagare. Pagare
subito, s'intende, senza trasferire nuovi fardelli sulle spalle delle
generazioni venture. Diventa questa la nuova frontiera fra "destra"
e "sinistra": tra chi mira a tutelare il welfare con nuovi
prelievi e chi mira a preservare i consumi degli abbienti tagliando
qua e là le prestazioni pubbliche più onerose.
E' una battaglia infinita, con mille fronti, che ha cominciato a delinearsi
già alla fine dell'anno scorso. Dalle tasse scolastiche più
elevate (Francia) al taglio dei precari (Italia), alla proposta di
ridurre la scuola dell'obbligo di un anno (Germania), alla chiusura
degli ospedali (uno su tre in Gran Bretagna), alla drastica compressione
dei diritti alla salute degli stranieri (Francia).
Non è solo questione di entità e volumi del carico fiscale,
ma anche di modalità di pagamento. Basta con la tassazione
diretta, tuonano a destra. No alle evasioni e alla fiscalità-zero
sulla finanza, gridano a sinistra. Più flessibilità
e garanzie per i cittadini, oppressi da un gravame di imposte che
rischia di rendere controproducente lavorare e produrre. Oppure più
governo, anche a costo di trasformare l'Europa nella repubblica dei
giudici e dei gabellieri.
La partita è appena cominciata ed è facile prevedere
che presto diventerà rovente. Anche perché l'Europa
dello stato sociale, delle garanzie, è meno vaccinata di altri
sistemi rispetto alla crisi della precarietà: chi viene escluso
dall'Europa delle garanzie finisce sotto i ponti di Londra o Parigi
o Roma. Senza la dignità di Calcutta o quella di San Francisco.