Sul
finire dell'ottobre del 1963 il Presidente della Confindustria, Furio
Cicogna, e il Segretario generale della stessa, Mario Morelli, mi conferirono
l'incarico di "operatore" direttivo ed esecutivo di quello
che eufemisticamente venne definito "Noto Programma" della
Confindustria. Chi erano quelli che mi proponevano quest'assunzione
di responsabilità? In che consisteva questa responsabilità?
Perché la scelta era caduta su di me? E perché infine
questo mese di ottobre, nella mia vita, ha sempre avuto a che fare con
Roma, sempre meta ma anche residenza della mia vita?
Quest'ultimo interrogativo, forse, è quello che più mi
appartiene. Perché nella mia esistenza, Roma è sempre
stata tutto. Prima ancora che in termini di storia, per il corso della
sua tanto mutevole topografia e per l'immutabilità delle sue
radici di costume, pur nella doverosa e piena apertura all'incalzare,
non di rado però pure immotivato, delle generazioni.
Ma di questa Roma, che per quanti non ci sono stati veramente dentro
(ed io meridionale vi sono stato sin dall'età di poco meno che
tredicenne) le contiguità minacciano di essere più anagrafiche
che non di profondo radicamento, devo dire che il mio inizio di residenza
risale all'ottobre del '22, nei giorni della marcia su Roma, da me constatata
in una stazione ed in un treno (ne ho parlato, ma lo ripeto: a Foggia,
dove la prefettura era stata occupata dalle squadre di Caradonna e la
ripresa del viaggio doveva subire la breve sosta che doveva conciliare
orari ferroviari e pretese di una "rivoluzione" in corso);
quando Roma aveva un numero di abitanti di gran lunga inferiore al milione,
quando agli sventramenti urbanistici non si pensava ancora, quando l'architetto
Piacentini probabilmente faceva ancora lo studente e non pensava certo
al successivo dominante stile littorio, quando però già
c'era un sindaco, che pur chiamandosi solo Filippo Cremonesi, per la
cittadinanza con tolleranza tradizionale e sarcasticamente denunciata
e sofferta, era noto come "Pippo Pappa". Altro che i calzoni
alla zuava di Craxi per capire queste cose!
Allora c'erano pure la Bocca della Verità ai piedi del Campidoglio,
come c'era il busto di Pasquino a Piazza Navona. Ma di queste forze
emblematiche è stata ricca la storia anteriore alla mia generazione,
e tenta talvolta di esserlo, ma solo cartaceamente e per sopravvenuto
auditel televisivo, per le generazioni successive alla mia.
Il discorso di questa Roma, proprio di questa Roma, è molto lungo:
ha spessori e risonanze che ci contrappongono molto di più di
quanto avverrebbe in un campo di calcio. Ma lasciamolo lì, senza
confronti, e perciò ognuno a ricordare e a difendere una Roma
che è solo la propria, con possibili coincidenze con quella degli
altri. Ognuno di noi ha la sua madre, per fortuna ripeto ognuno ha la
sua, ed è chiamato a servirla come valore che conta, che deve
contare per tutti.
La Roma del
nostro io
Chiudo così la parentesi su Roma, nella quale ritornavo dopo
un anno e mezzo di permanenza a Milano, dove dirigevo il più
antico quotidiano economico d'Europa Il Sole, per incarico fiduciario
della società editoriale di proprietà della Confindustria:
giornale di cui per circa un decennio prima ero stato corrispondente
dalla Capitale, ed ero stato nominato direttore il I' maggio del 1962,
con una carriera giornalistica che era iniziata nel dicembre del 1930;
invece Pietro Ottone (già direttore de Il Corriere della Sera,
che forse ad un certo punto ha pensato di poter divenire mostro sacro
del giornalismo, che poi ha fatto pure il "garante" (ma
non c'è stato sempre il direttore per esserlo rispetto ai lettori?)
di me scrisse su di una rivista (era però della "Esso")
che il neo direttore era un "funzionario della Confindustria".
Non so se il termine per lui volesse significare "agente",
ma comunque è chiaro che io sono stato sin dalla più
giovane età giornalista e che della mia collocazione confindustriale
non solo mi sono sempre vantato quando ne facevo parte, ma continuo
a vantarmi oggi, sempre con riferimento a quella Confindustria, nella
quale si confondono anche le mie scelte e radici professionali. Che
non ho avuto necessità mai di cambiare, perché di accomodamenti
o di aggiustamenti non ho avuto mai bisogno, né tantomeno ho
avuto intento di trovarli. E non ne ho merito, perché ho avuto
dalla mia parte la nascita in una zona d'Italia, che si chiama Basilicata,
con quanto essa significa per chi la conosce, e una composizione originaria
e successiva familiare, il cui richiamo per me significa solo privilegio
del quale dovrò sempre sdebitarmi.
Queste, purtroppo, come è chiaro, sono solo divagazioni. Forse
però possono concorrere a far comprendere perché si
accettavano certi incarichi e, non mi lusingo di credere, perché
ci venissero offerti.
L'incarico che mi veniva offerto era quello, come prima dicevo, di
sovraintendere all'attuazione, nell'ambito della Confindustria, del
cosiddetto "Noto Programma". Ma perché si definiva
così? Che cosa soprattutto rappresentava?
Si definiva così, perché questa era denominazione interna
di un'azione che - negli intendimenti dei suoi promotori industriali
- rifletteva un dovere di presenza (per la salvaguardia del contesto
in cui è esercitata l'azione imprenditoriale con i conseguenti
apporti di sviluppo e reale socialità che ne derivano, e per
il contenuto concreto delle conseguenti iniziative che non poteva
non tradursi in una promozione sempre più nettamente determinata
ed operativa.
La prima caratterizzazione è stata sempre immanente nella cultura
imprenditoriale, italiana ed estera. Difatti la stabilità del
contesto politico, sotto l'usbergo della libertà e della democrazia,
è stata sempre la vocazione dell'impresa.
Tanti anni orsono ebbi a definirla la "filia del carabiniere",
ma mi fu facile perché la difesa riguardava solo possibili
degenerazioni di un sistema, quello che minacciava o riusciva a mettere
in atto le statalizzazioni, quello che sempre proclamava le prevaricazioni
del classismo, il cambiamento dell'orbita occidentale e perciò
anche europeista in quella della cosiddetta "nuova via"
al comunismo, che poi all'atto pratico portava solo a Mosca, e così
via. L'imprenditorato italiano ha sempre reagito a queste degenerazioni
e sono sicuro che sempre continuerà a farlo, fino a quando
queste minacce non scompariranno dal nostro orizzonte. E naturalmente
anche da quello dei nostri vicini.
L'identità
immutabile degli imprenditori
In tutto questo periodo c'è pure un ventennio di mezzo, prima
di riprendere il discorso successivo e pure quello attuale. Ed in
questo. ventennio che hanno fatto gli imprenditori?
Si dice che abbiano finanziato la marcia su Roma, ma altri pensando
che da questa parte si potesse trovare più o meno facilmente
qualcosa hanno optato per la componente dei grossi agrari e forse
marginalmente per quella di qualche impresa primaria. D'altra parte
non si può dire che siffatto movimento, a parte gli stipendi
improbabili per taluni, abbia avuto bisogno di grandi risorse. Le
stesse squadre che si muovevano verso Roma avevano più scarpe
rotte che non fucili, questi poi che non fossero in gran parte da
caccia.
Si è detto che c'è stato qualche cannone, probabilmente
asportato da qualche museo o da qualche caserma inconscia della stessa
sua denominazione. Ci saranno state anche bombe a mano, ma queste
sono state sempre restie a farsi da parte, solo perché erano
sporadici esemplari. Le aveva in tasca anche Grandi il 25 luglio di
21 anni dopo, alla seduta del Gran Consiglio.
Lo era stato per Michelino Bicendi, segretario dei Fasci al Congresso
di Napoli che diceva che era inutile restarci perché pioveva.
Il problema grosso era che pioveva. Lo era per Bottai, che comandava
una colonna. Lo era per Igliori, una medaglia d'oro che ne comandava
un'altra. Non lo era per i Quadrumviri allocati al Brufani di Perugia,
che più che dirigere erano in attesa del via vai con Roma di
De Vecchi (per il Quirinale) e di Grandi (per i partiti dai quali
si attendeva che si dessero una mossa di transazione). Non lo era
per Mussolini che stava a Milano, nel palco di un teatro (con Margherita
Sarfatti), intuendo che la sua giornata sarebbe stata solo quella
dell'indomani, quando cioè avrebbe dovuto imbracciare un fucile,
con le bobine di carta dei giornale disposte a difesa di tipografia
e redazione, con bombe a mano però in vista su scrivanie a
distanza.
Ma tutta questa storia è più che nota, solo che io da
ragazzino l'ho vissuta e la ricordo, perché ha a che fare con
motivazioni ideali, ma solo con la mia infanzia. E la fortuna dell'infanzia
è soprattutto quella di poter essere curiosa ed osservatrice,
virtù che valgono se dopo se ne ha memoria.
Due Palazzi
Venezia di fronte
Ma che pensavano e facevano gli industriali allora e durante il ventennio
successivo?
Per quello che ne so - ed è importante che quelli della mia
generazione ne ricordino qualcosa e soprattutto sinceramente ne riferiscano
- le cose stavano così.
Il deus ex machina della Confindustria era Gino Olivetti. Aveva cominciato
a muoversi a Torino, immaginando un'industria italiana tutta intera,
anche organizzativamente. Forse è stato un ammonitore dello
stesso Giovanni Agnelli il fondatore, quello di cui il nipote, Gianni,
ha detto che non ha mai indossato la divisa fascista, solo perché
indossava quella di senatore. Quale goffa e pelosa insulsaggine. Non
ricorda "l'avvocato" che l'orbace c'era per tutti e che
su di essa si poteva applicare solo un quadratino con qualche stella
indicativa dell'appartenenza appunto al senato? E non ricorda l'avvocato
le grandi fotografie della manifestazione al Duce della Fiat, al Lingotto,
con tanta significazione e riconoscenze mussoliniane al federale del
tempo, Gazzotti, poi mio capo e che mai ho evitato di considerare
amico?
E non ricorda e non sa che il capo dei servizi sociali della FIAT
era un inconsueto Brambilla - anche allora esisteva questo cognome,
ma era reale - che poi accompagnò a Roma come segretario proprio
il federale di cui l'avvocato non ha memoria, ma che io posso invece
ricordargli?
Durante il ventennio, comunque, la Confindustria ha certamente collaborato,
ma ne era intrinsecamente per molti versi distante. Ed a me con la
mia età e con i miei trascorsi tocca di dire qualcosa: che,
tutto sommato, nonostante che la sede della Confindustria fosse di
fronte al famoso Palazzo Venezia, che l'orbace fosse indossata da
molti industriali, a cominciare da quelli che, moschetto alla mano,
dovettero fare la guardia all'esterno della Mostra del Ventennale
dei Fasci al palazzo dell'Esposizione in via Nazionale in Roma (e
mi pare che ci fosse anche Alberto Pirelli), gli industriali erano
per lo meno tiepidi.
Benni aveva accettato il patto intersindacale di Palazzo Vidoni, ma
ne avrebbe certamente fatto a meno. Il nuovo ordinamento sindacale
aveva disarticolato le organizzazioni dei lavoratori (per dare un
dispiacere anche al suo segretario generale unico, che era il fascista
Rossoni, da dislocare, alleggerito, altrove); aveva per le organizzazioni
padronali eliminato la funzione di segretario generale (così
anche per l'industria, Gino Olivetti era divenuto disponibile per
altro incarico, che ebbe e vedremo quale); rendeva subalterni organismi
prima prevalenti (fra Comitato Corporativo Centrale e Commissione
per l'autarchia, fra Corporazioni moribonde e Comitati risvegliati
o da creare, ci si è capito solo molto poco). Una volta uno
di questi esponenti - ed era Luigi Fontanelli, e qualcuno lo conosce
perché ha avuto a che fare con la fondazione della UIL - mi
disse che il tutto nel sistema si poteva chiamare anche granita di
caffè con panna, ma sempre per lui era un incitamento verso
un tipo di difesa del lavoro nel suo rapporto con il padronato.
Sennonché questo rapporto è sempre stato un enigma.
Nel ventennio, stando alla Confindustria, ebbi a dire che il corporativismo
in definitiva era la lotta di classe gestita dallo Stato, per conto
dei lavoratori, ma un mio amico da me favorito per la sua assunzione
ai vertici dell'IRI mi disse che questa lotta di classe era gestita
dallo Stato per conto dei datori di lavoro. Quanta confusione, eppure
sono passate le carriere, sono trascorsi i decenni, che ci fanno rivivere
i discorsi, come se l'esperienza, le esperienze, nel frattempo, non
avessero lasciato tracce.
Ma questi venti anni hanno pure significato il Patto di Palazzo Vidoni
(questa era la sede del partito fascista, con tanto di cappella per
i caduti, che molti mai si sono rifiutati di venerare, io tuttavia
non ne ho avuto né necessità né occasione, e
non ne faccio merito); un Olivetti, da Mussolini definito distrattamente
"malinconico signore", perché fra l'altro indossava
il tight", che non accettava discussioni alla Corporazione Tessile
(di cui era presidente perché esponente dell'Istituto Cotonie
e di cui io ero membro) in merito alla composizione dei tessuti, allora
solo comodamente ed incompostamente privi di indicazione della percentuale
delle loro composizioni, da me invano richiesta -; l'osteggiata proposta
da parte degli industriali della costituzione di un ente del latte,
che invece era perorata da chi legava alla propria sopravvivenza la
creazione di un ente tutto fare e perciò inutile: la camicia
nera nascosta dietro un soprabito compiacente, per cercare di evitare
almeno la compromissione esteriore di chi, e purtroppo erano più
burocrati che imprenditori, riteneva che al momento l'unica difesa
praticabile era quella di andare sotto muro.
Ma allora c'erano pure capi del personale confindustriale che preferivano
raccontare barzellette antifasciste rispetto all'espletamento immediato
di pratiche burocratiche. Qualcuno di essi era napoletano. Così
che l'impresa era una cosa, la politica, pure quella delle renitenza,
dell'indifferenza, della attesa, era un'altra.
So che proprio in questo palazzo, mentre un suo rappresentante ad
alto livello burocratico passeggiava nel corridoio nei mesi tragici
dell'occupazione tedesca di Roma, egli stesso mi diceva che nella
stanza accanto, da lui accolta, si svolgeva una riunione del Comitato
Nazionale di Liberazione con Emilio Lussu, corregionale di chi mi
parlava, che stava dicendo la sua.
Molti non sanno che la Confindustria era questa. Non lo sanno forse
molti che oggi la rappresentano. Ma io lo so, ed i computers della
Confindustria non lo sanno certamente per niente.
Il "Noto
Programma"
Ma chi venne, a Milano, ad offrirmi di fare l'operatore del "Noto
Programma"? Venne il segretario generale, Mario Morelli, per
conto del Presidente Furio Cicogna. Ma cominciamo da quest'ultimo,
che poi era il "priore". E spero che a Lui nell'aldilà
piaccia questa definizione, perché negli ultimi anni della
sua vita, forse per invocata remissione dei suoi peccati che i suoi
detrattori dicevano fossero tanti, aveva manifestato una vocazione
mistica, che mi era nota perché sapevo che finanziava la Pro
Civitate Cristiana di Assisi, perché si scambiavano con Don
Rossi i ruoli di maestri e di discepoli, perché aveva dato
un altro significato, ultraterreno, alla propria vita.
Fu così Mario Morelli, il segretario generale della Confindustria,
che certamente ha sempre avuto una certa fiducia in me, sia pure sempre
da parte sua in costante verifica, a domandarmi se ero disponibile
per questo "Nuovo programma".
In me non ci fu alcuna esitazione, per due ragioni: la prima perché
si trattava di concorrere a creare e stabilizzare quel clima per il
quale io lavoravo da decenni e naturalmente con maggiore evidenza
e responsabilità quale direttore de Il Sole di Milano, che
molti a ragione o a torto ritenevano la punta editoriale più
avanzata della Confindustria di quegli anni: Enrico Mattei mi diceva
che la cosa più seria dal punto di vista editoriale realizzata
appunto dalla Confindustria era costituita da Il Sole di quegli anni
e Nino Nutrizio, direttore allora de La Notte, oggi giustamente da
taluni ricordato come maestro di giornalismo, che il primo giornale
che al mattino leggeva era appunto il mio... Sono passati decenni,
e i ricordi vengono inesorabilmente falcidiati. Qualcosa tuttavia
resta.
La seconda ragione è il mio ritorno a Roma, nelle ricorrenze
prima ricordate.
Su quella che a mio parere dovesse essere l'azione della Confindustria
in quella fase con riferimento alla nazionalizzazione dell'energia
elettrica, al significato politico che le si attribuiva come intransigente
condizionamento dell'intera iniziativa privata quale che fosse stato
il campo della sua esplicazione, al precedente sganciamento delle
aziende a partecipazione statale dalla Confindustria, alla nascita
del centro sinistra con tutti gli inasprimenti e pedaggi ideologici
e tattici che gli erano connessi, avevo predisposto un appunto di
una certa ampiezza che feci avere in luglio a Morelli. Sennonché
intervenne la pausa estiva, che però consentì alla Confindustria
di sensibilizzare le Associazioni aderenti, di costituire un apposito
comitato centrale, di predisporre una struttura affiancatrice localmente
delle Associazioni di categoria. Cicogna intendeva dare una svolta
alle tre precedenti fasi di attivazione dell'Organizzazione. C'era
stata la fase di Costa dal 146 fino a poco oltre la prima metà
degli anni '50, fase che sul piano della ricostruzione rappresentò
l'identico percorso per De Gasperi, Einaudi e ripeto Costa, con un
non minore protagonismo in parte conflittuale ma anche realistico
di Di Vittorio. Le idee valide si confrontavano allora e riuscivano
a camminare insieme.
Un sigillo c'era stato con il 1948, ed era stato quello dello sviluppo
con la scelta di campo in quello occidentale (più che una diga,
quella, come fu definita, un muro di difesa che tanto tempo dopo ha
consentito la demolizione di quello di Berlino: e non ci siano dimenticanze
oggi al riguardo o alibi di improvvise resurrezioni da parte di chi
il muro di Berlino ha voluto o approvato). La seconda fase degli anni
150 dovette confrontarsi e reagire ad intenti politici, convinti o
talvolta solo tattici, di indebolire, contestare, troppo condizionare
l'impresa privata.
La reazione di questa, dell'industria, dell'agricoltura, del commercio,
si manifestò nella creazione della Confintesa, sorta ad iniziativa
del nuovo Presidente Alighiero de Micheli, già presidente dell'Assolombarda
ed industriale tessile.
Questa Confintesa voleva significare una posizione unitaria dell'imprenditoria
nella difesa di valori che non rispondevano a specifiche ideologie,
che non pretendevano di costituire lobby (tanto più che in
quei tempi questo termine era tutt'altro che presente nel nostro vocabolario
operativo), che volevano invece mantenere desti un confronto ed un
dialogo.
Ricordiamo ad esempio che quelli erano gli anni in cui l'interlocutore
confindustriale era poco ricercato sia a livello di stampa che a quello
delle cosiddette pubbliche relazioni. I tanti comuni denominatori
che si registrano nella stampa di oggi (un ex direttore di un grande
giornale mi ha detto sul finire del '93 che i titoli in gran parte
comuni della stampa maggiore, titoli che significano sempre pure commento,
sembravano la risultante di comuni telefonate serali) allora non c'erano.
Molti colleghi avevano quasi la preoccupazione di dichiarare la loro
distanza dall'imprenditoria. Era una sorta di infantile provincialismo,
ma abbiamo avuto a che fare anche con questo.
L'azione della Confintesa, nonostante gli intenti ed anche i doveri
che per sé e per gli altri richiamava, certamente non ebbe
successo. Venne di fatto a decadere. Dette luogo poi alla costituzione
di un Centro di Informazioni Sociali (CIS), che si preoccupò
di avviare studi e di mantenere contatti, con una vitalità
non certo vigorosa, ma (lo dico) con la dignità che gli derivava
e dall'origine, cioè dai promotori, e dal fatto per me esteticamente
rilevante di avere una sede nella famosa via dei Condotti di quei
tempi e con un terrazzo su Piazza di Spagna. E così ritorno
a quella Roma di cui prima ho detto, che oggi con il suo sviluppo
tentacolare, da metropoli che si improvvisa e così via non
avrebbe la rilevanza mondiale e perenne che ha se non avesse la sua
anima e la sua identità vera in queste strade e in queste piazze,
in questi monumenti. Comunque in questa sede di via Condotti vado
anch'io per la realizzazione del Noto Programma.
Che trovo? Anzitutto il Comitato di cui prima ho detto, presieduto
da Cicogna, Presidente della Confindustria, composto da De Micheli
ex Presidente, da Dubini dell'Assolombarda e della Pirelli, dall'ing.
De Biasi dell'Edison, da Radice Fossati, da Borasio dell'Eridania,
da Telesio ex direttore de Il Resto del Carlino, da Morelli, e da
me divenuto segretario.
In periferia c'erano i delegati circoscrizionali (l'importanza organizzativa
delle Circoscrizioni allora condizionata e sottomessa dai partiti,
veniva invece percepita dagli industriali anche con la proporzionale:
oggi se ne accorgono quanti devono fare i conti con la maggioritaria),
ai quali si affiancavano, come segretari, i cosiddetti coadiutori.
Mi sembra però che questo termine sia mutuato, non so con quale
intuizione, dagli organigrammi religiosi.
Ma come un Comitato così? C'era fra di essi lo specialista
e l'incaricato per l'organizzazione, o per lo studio del comunismo
ed aggiungo relativa contraccezione, per lo studio dei rapporti con
la Chiesa, per l'utilizzo di mass media, televisione e cinegiornali
(esistevano ancora dopo quelli LUCE), per le manifestazioni culturali
e così via.
Cicogna aveva molta fiducia in questa "centrale", tant'è
che una volta ebbe a dirmi - ed io ne restai. particolarmente sbalordito
- che i dieci membri circa del Comitato erano di buon auspicio, perché
il massimo dei messianesimi si era iniziato ed aveva avuto il seguito
millenario che rivive giorno per giorno nei nostri spiriti con solo
12 Iniziatori.
Quale confusione e soprattutto quali assurdi confronti, con il pronto
soccorso del misticismo, con gli ampi margini assicurati all'esistenza,
alla redenzione ecc. e per contro con i piedi per terra assicurati
a tutto il resto. Ed in questa materia, per fortuna, ognuno fa il
proprio pensiero, i propri doveri di comportamento, le proprie affinità
e così via. lo naturalmente ho i miei e giorno per giorno mi
confronto e sempre - anche illusione e speranza? - mi sono confrontato.
Ma chi dovevano essere - ed io non li avevo scelti - i miei collaboratori?
Ho avuto a fianco Federico Orlando, che ha collaborato con me per
vari mesi, molti di più di quanti ne ricordassi e lui li ricorda
invece. Ed io ne sono contento. Un generale, Manlio Gabrielli, che
collaborava con me per la parte organizzativa: era stato Capo della
Casa militare del luogotenente del Re in Albania e Addetto militare
presso l'Ambasciata italiana in Spagna, durante la guerra civile,
da lui definita guerra per la libertà in un suo libro. Di Gabrielli
parlano in maniera critica i diari di Ciano. Ma ciò non mi
interessa, perché abbiamo lavorato insieme fino a quasi i suoi
ultimi giorni.
E poi c'erano gli ex dirigenti burocratici della Confederazione che
mi venivano riciclati, perché ritenuti esuberi da non mandare
a casa. E così venivano anche da me. Ma era lo staff di segreteria
e di uscieri quello che ho sempre rivendicato avesse la massima possibile
efficienza, ed io ho la fortuna di averla avuta, vedendola sopravvivere
nel reciproco ricordo di chi è stato a mio fianco ed io al
loro.
Ricordo che nell'accomiatarmi dalla Confindustria, a mezzo del direttore
generale d'allora Paolo Savona, questi mi disse - perché mi
conosceva da distante - che "tutti gli avevano parlato bene di
me". Ma io gli replicai che certamente lo avevano fatto dattilografe
ed uscieri, miei collaboratori.
Forse queste sono le parole di fierezza che accompagnano certi importanti
distacchi, nei quali una nota di delusione non manca quasi mai. Ma
c'è anche la doverosa rivalutazione di chi tanto ci ha aiutati,
ed io questo aiuto l'ho sempre avuto, in misura certo maggiore dal
punto di vista umano degli altri che mi sono stati vicino, e che sempre
hanno fatto i conti con quanto mi davano e con quanto ricevevano.
Ma queste sono le riflessioni di tutti ed io aggiungo le mie.
Ma nel chiudere questa "voce" del mio scritto, voglio ricordare
Costa, che mi volle fra i suoi vicini all'atto del suo secondo commiato
dalla presidenza della Confindustria (1970, dopo il famoso rapporto
Pirelli), Morelli, l'ultimo segretario generale della Confindustria,
stesso anno, cui sono stato amichevolmente vicino fino alla vigilia
della sua morte: forse l'unico ultimo suo amico assiduo Franco Mattei,
nuovo direttore generale fino al '76, che curò personalmente
la mia liquidazione contabile con personale diligenza.
Quest'ultimo - come ho già detto - era un assoluto fuori classe,
al punto che - e lo ripeto qui - ritenevo di potergli dire senza alcuna
intenzione di piaggeria che le sue alte capacità erano addirittura
sprecate per la Confindustria. Cose analoghe si scrivono normalmente
nei necrologi, ma io le ho sempre scritte parlando degli altri a me
stesso e per i loro parenti. E so che queste sono le sole testimonianze
che per essi contano.
I conti di
ieri
Ma sto parlando di persone con le quali ho avuto a che fare in questa
fase della mia attività, e naturalmente non tutte mi sono rimaste
impresse. Debbo comunque premettere che per le mie mani non sono mai
passati soldi ed io ne ho sempre evitato i maneggi anche per le cifre
minime. E ciò caratterialmente per me, con una Confindustria
che per conto suo centralizzava l'intera amministrazione, anche nelle
spese minute, i cui rendiconti - come ho detto - erano da me voluti
estranei. Con una Confindustria che anche per questi affari aveva
un vice Segretario Generale, che si chiamava Codina, che - ma l'ho
già detto - conosceva solo i soldi propri che poneva in una
tasca dei pantaloni sapendo solo che dovevano, come solo stipendio,
bastargli, e con un amministratore solo modestamente contabile a lui
sottoposto, che si chiamava Forconi. Un cognome già minaccioso
per conto proprio.
Ed assiduità ne ho avuto in quei tempi per la messa a punto
di iniziative, con Malagodi, Piccoli, Michelini, Valitutti, Lessona,
Cantalupo, Ciccardini, Giovannini (ex Ministro) Renato Mieli (padre
di Paolo, ex comunista, ma fondatore di un CESES, sponsorizzato da
De Biasi della Edison, che sottoponeva ad una revisione teorica e
critica il comunismo), Zincone (che redigeva un bollettino di "Cronache
Parlamentari" edito nel mio ambito) e tanti altri. E tutto ciò
solo nel confronto delle nostre idee, senza soldi in entrata o in
uscita, e nella ricerca di possibili comuni tratti di cammino. Ci
sono stati? Non ci sono stati? Non lo so. Perché questi tipi
di bilancio non si esauriscono mai negli immediati risultati che raggiungono,
ma vanno ripresi in mano dopo un certo periodo, dandoti solo allora
l'ottica meno distante dal reale.
Qualche parolaccia
di 20 anni fa
Comunque, di questo "Noto Programma" del quale fin qui vi
ho parlato, non con le carte alla mano che non ho, ma con i ricordi
che per me veramente contano perché rivivono e mi parlano più
dei cosiddetti documenti (i testimoni servono solo per questo, e non
tanto per i registratori, i computers, le fotocopie, ecc. che se esistono
sono quasi sempre solo un coro, mai capace di sovrastare la voce),
desidero riportare non già quanto hanno scritto i giornali
(non ne possiedo un ritaglio), ma quanto èscritto in libro,
che non so quanti abbiano, ancora, ma che io ho. E lo cito perché
semplicisticamente parla male, e certamente lo fa anche pregiudizialmente.
Ma lo fa anche se è oggi certo rientrato nell'anonimato, ma
quando scrisse questo libro certamente credeva di non rientrarvi.
Il libro è di Donato Speroni. Il titolo è Il romanzo
della Confindustria, dal 1910 al 1975. Reca in copertura le fotografie
di Franco Mattei e di Gianni Agnelli (è da notare che il primo
si era dimesso da direttore generale della Confindustria perché
il secondo non lo aveva avvertito della sopravvenienza di Guido Carli
voluto alla presidenza della Confindustria, ed è da aggiungere
che Mattei è stato posto alla presidenza della Gemina perché
era quello che era). L'editore è Sugar e l'edizione è
del settembre 1975.
Speroni, comunque, dieci anni dopo così scrive del Noto Programma.
Dopo aver spiegato le ragioni della nuova attivazione della Confindustria,
ed evitiamo di confutarne le affrettate, approssimative motivazioni,
lo Speroni, con una sua biografia di sempre prevalente aspirante e
non ne conosco il seguito, precisa:
"Nel complesso la Confindustria riuscì a raggranellare
tre o quattro miliardi (ma la genericità della cifra - aggiungo
io - mi ricorda quella stessa di certe testimonianze nelle indagini
di Tangentopoli, quando chi riferisce pur da beneficiario non ricorda
se si tratti di tre o quattro o di più di cinque miliardi,
però di oggi) che furono poi gettati in iniziative assurde.
Tipico esempio di questa politica fu il Centro di iniziativa speciale
(CIS) affidato a Gennaro Pistolese che aveva lasciato la direzione
de Il Sole dopo la fusione di questo giornale con 24 Ore. Il Cis organizzava
inutili dibattiti ad alto livello fra diplomatici, il cui testo era
poi diffuso in migliaia di copie fra gli industriali; stampava in
400 mila copie la Gazzetta dei lavoratori, giornale di tono violentemente
anticomunista, destinato ai dipendenti delle imprese, arrivò
a curare l'affissione di manifesti antisovietici e l'invio di una
lettera settimanale ai parroci, sempre in chiave anticomunista a firma
Pietro l'Eremita. Il tutto faceva parte di un programma studiato da
Cicogna e Morelli e considerato segretissimo a cui si alludeva come
N.P. (Noto Programma). Ma era il segreto di Pulcinella: fra i giornalisti
della Confindustria se ne parlava correntemente con il nomignolo 'Nota
puttana'".
Debbo premettere che il mio costume mi ha sempre condotto ad evitare
siffatto tipo di presunte testimonianze. Tutto niente affatto documentate.
Falsamente costruite per scelte ed addirittura aggettivazioni pregiudiziali.
Nel caso specifico dovute ad un autore che nella scheda biografica
introduttiva del volume si qualifica come già responsabile
del servizio studi dell'ufficio relazioni pubbliche e poi amministratore
delegato di una società editoriale del gruppo Edison. Questi
richiami sono evidentemente molto approssimativi e non certo tali
da fornire elementi per identificare la natura dell'ufficio e della
società.
Comunque, quale possa essere una delle sedi di origine e di lavoro
dell'autore, sta di fatto che egli avrebbe potuto e dovuto sempre
documentarsi su quanto scrive ed invece per quanto riguarda le precedenti
frasi sopra trascritte non lo ha fatto.
Non lo ha fatto:
- per l'approssimazione della cifra, che era in grado di accertare,
solo se lo avesse valuto, come gli era possibile nelle sue qualificazioni
prima richiamate.
- per avermi chiamato in causa, senza avermi mai interpellato - come
è in uso fra i giornalisti non improvvisati, anche se si presumono
di assalto - per chiedermi quei ragguagli che io, come del resto i
giornalisti della Confindustria, di cui nel passato sono stato parte
non secondaria, sono usi fare. Da questi giornalisti egli ha "appreso"
la qualifica di "nota puttana", ma io posso dirgli il nome
di chi da solitario, forse deluso, toscanamente l'aveva inventato.
- per la pretesa assunzione del CIS da parte mia non già nel
1963, come avvenuta ma dopo che io avevo lasciato la direzione de
Il Sole, fatto invece verificatosi nel novembre 1965. Sta di fatto
che avevo mantenuto a richiesta della Confindustria contemporaneamente
due incarichi. E l'autore del libro comodamente non ne sa nulla, anzi
afferma il contrario.
- per la pretesa assunzione e gestione della "Gazzetta dei lavoratori"
da parte del CIS, quando invece il settimanale si chiamava Gazzetta
per i Lavoratori e la differenza di mimetizzazione, che non c'è
stata mai, è nel preteso "dei". Ma di più
il giornale è stato voluto da Costa nel 1946, da me è
stato diretto da allora fino al 1953 e poi passato di direzione, perché
assumevo altri incarichi proprio in quell'anno. Non mi dà disturbo
la frase violentemente anticomunista, in quanto essa si può
riferire solo al periodo delle elezioni del 1948 ed a ciò che
quelle elezioni per fortuna rappresentavano ed hanno rappresentato
nei risultati.
- per la lettera ai parroci, la cui idea nacque dalle intuizioni di
un laico, e parlo di Mario Missiroli. Ma non è necessario aggiungere
nulla a quello che è un compito critico, di chiarificazione,
di valori e di idee, che ognuno in tutte le direzioni è chiamato
a svolgere.
Per essere il NP arrivato a curare l'affissione di manifesti antisovietici.
Ma un giornalista serio scrive mai genericamente di queste cose perché
le trova, se ci sono state, rilevanti?
- per gli inutili dibattiti ad alto livello fra diplomatici, ecc.
Sic!
Ma di quest'ultimo tema scriverò nella prossima annotazione
conclusiva della mia attività confindustriale.
Vocazione allo
scrupolo
Sono questi altrettanti ma ovvi spunti di polemica, di più
puntuale messa a punto dei fatti, di doverosa documentazione di partenza,
che per ognuno di noi giornalisti è scrupolo quotidiano.
Mi lusingo di pensare che la mia vicenda professionale e umana, abbia
sempre ricercato e praticato questa ispirazione e vocazione. Che poi
cerchiamo di rintracciare come nostra costante, nei nostri ricordi.
lo ho cercato di raccontarveli per quanto mi riguarda, aggiungendo
che solo così l'esistenza stessa per noi e possibilmente per
gli altri ha significato qualcosa.
Con un secolo in gran parte alle spalle, ed un tempo innanzi solo
per singoli giorni, uno per uno; ma alla non lontana vigilia del Duemila.
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