Nella
Confindustria rientrata nuovamente in orbita, ed in questa comprendo
almeno la prima parte del periodo che ora sta culminando nella cosiddetta
Seconda Repubblica (queste graduatorie tuttavia non vengono fissate
prima, ma si riscontrano dopo, a meno che non ci siano di mezzo le rivoluzioni),
ad un certo momento è entrato anche il Circolo di Studi Diplomatici.
Assunsi l'iniziativa, più che di nascita del Circolo, della sua
promozione da parte dell'imprenditoria. D'altra parte in questa specifica
materia c'era stato il precedente di Alberto Pirelli, nella cui visuale
era entrata, oltre che la sua presidenza (o commissariamento?) della
Confederazione fascista degli industriali del 1934, anche la promozione
dell'Istituto di Studi di politica internazionale, a Milano, con un
direttore (Pier Franco Gaslini) che allora mi offriva di scrivere qualche
libro e che una ventina di anni dopo ho avuto (anzi trovato) come capo
delle relazioni pubbliche nel quotidiano economico "Il Sole",
allorché ne ho assunto la direzione.
Ma di questo Circolo di Studi Diplomatici - è mia abitudine -
prima di cercare di offrire la mia testimonianza, mi preoccupo di rintracciare,
quando vi riesco soprattutto per il trascorrere del tempo, i pareri
negativi.
E perciò comincio da questi. Non conservo purtroppo ritagli di
giornali, ma dispongo di un libro. E' di Donato Speroni, allora direttore
di un periodico economico (forse il "Se ci sei batti un colpo"
potrebbe essere utile), ed ha come titolo Il romanzo della Confindustria.
Ho avuto occasione di confutarlo senza ricavarne però repliche
o rettifiche.
Il libro parla di questo Circolo, inquadrandolo nell'attività
confindustriale da me svolta nell'azione per la chiarificazione politica
degli anni '60 e poi nello specifico campo della politica estera (naturalmente
anche economica) durante gran parte degli anni '70.
Speroni è molto approssimativo e precostituito nei suoi giudizi,
tant'è che si limita a dire che il CIS o il Noto Programma, come
distrattamente definisce la stessa struttura, "organizzava inutili
dibattiti ad alto livello fra diplomatici, il cui testo era poi diffuso
in migliaia di copie fra gli industriali". Tutto qui, purtroppo
per lo stesso autore, con la sua confusione per il contrastante uso
di due aggettivi, "inutile" ed "alto".
Le polemiche e le contestazioni mi sono sempre piaciute, perché
motivano tanta parte della nostra professione giornalistica. Continuo
a pensare però che devono per lo meno tentare di essere intelligenti.
In questo caso mi sembra invece che la libidine per la corsa al libro
a tutti i costi abbia impedito all'autore di saperne veramente qualcosa
di più e di meglio. Ma la storia della polemica è quella
che conosciamo: spesso ignora volutamente l'esperienza dei tempi, perché
ha il più delle volte la colpa, anzi la pregiudiziale, della
propria irrinunciabile posizione di parte.
La seconda valutazione negativa sul mio esplicito impegno confindustriale
in questa materia non è mai stata espressa direttamente, ma manifestata
ad un suo amico ambasciatore, che me lo ha riferito, da uno dei continuatori
delle grandi famiglie industriali del Paese. Questi si meravigliava
che uno della Confindustria, ed ero io, fosse stato impegnato scopertamente
in siffatta attività di studi in campo internazionale. Ma della
sua distrazione non mi piace parlare, perché a confermare e sottolineare
tutto il contrario ci sono fondazioni, presidenze dei consigli di amministrazione
di giornali, chiare partecipazioni in società editoriali e così
via che sfuggono alla prima contestazione, che fra l'altro non è
legata alla qualità del proprio comportamento. D'altra parte
a me è occorso di riferire queste cose in assemblee in cui era
presente chi siffatte confutazioni ha fatto dopo, ma non le ha espresse
allora. Forse allora stava solo per apprendere e conoscere, ma lo penso
che il suo allora fosse doveroso presenzialismo di "famiglia"
in fase di apprendistato.
Ma queste sono precisazioni che potrebbero da un lato continuare a lungo
e che dall'altro non mi piacciono.
Feluche che
non ci sono più
Ma veniamo al nostro Circolo. Ebbi sentore dell'intento della sua
fondazione nel 1964, prima da un industriale della provincia di Como
(Baragiola, se non erro), che mi dava una mano da quella città,
anzi da quella "circoscrizione", nell'azione confindustriale
di "Noto Programma" o di CIS di cui fin qui ho detto. Egli
aveva fatto ricorso all'ambasciatore Luca Pietromarchi, che fino a
poco prima era stato nostro ambasciatore a Mosca, per alcune conferenze
nelle quali veniva dato solo conto di quello che aveva visto appunto
nell'URSS.
Luca Pietromarchi mi piacque per questa sua autentica vocazione, quella
della verità. E così con questo tramite lo conobbi e
ne divenni amico, per mia fortuna, anzi con mio orgoglio.
Egli era stato ambasciatore ad Istanbul, a Mosca (e della sua esperienza
Bompiani ha tratto nel 1963 un voluminoso e storico libro dal titolo
Il mondo sovietico); ha cercato il più possibile di concorrere
a correggere la politica estera del Ventennio. Ed io so come ne parlassero
sia lui che la moglie, entrambi con la mia divenuti assidui, proprio
quando da una parte e dall'altra non c'era nulla da chiedere o da
offrire, oltre l'affinità e la nascente amicizia.
Orbene, leggo quanto di Pietromarchi, ministro plenipotenziario allora,
scrive Ciano nel suo diario. Ebbene, Ciano di questo allora ministro
plenipotenziario parla perché gli ha telefonato a Casa Colonna
per informarlo della insurrezione di Cartagena e della fuga della
flotta russa (siamo ai tempi della guerra di Spagna); perché
ha partecipato ad una riunione a Palazzo Venezia con Mussolini e lo
stesso Ciano per definire la questione delle frontiere albanesi e
montenegrine (ma quando mai un qualsiasi governo ed in qualsiasi tempo
ha potuto fare a meno della collaborazione di un tecnico, del livello
appunto di Pietromarchi?); perché sempre Pietromarchi ha avuto
un lungo colloquio con il Papa (2 gennaio 1943): "Senza assumere
impegni il Santo Padre ha detto che crede ormai scongiurato il pericolo
di un bombardamento di Roma".
"Egli ha fatto sapere a chi di ragione che la Sua reazione sarebbe
energica e immediata, ha trovato più comprensione a Washington
che a Londra e ciò è spiegabile. Non ha dato giudizi
sulla situazione, ma ha mostrato essere al corrente di quanto il ministro
degli esteri fa per impedire massacri e rovine nelle terre occupate:
ha concluso mandandomi il saluto e la sua benedizione". Lo scrive
Ciano, ed io con la mia fiducia condizionata, non molta pur essa in
verità, sui suoi diari, sono a darne conferma.
Aggiungo fra l'altro che Pietromarchi mi ha detto che suo padre era
stato presidente dell'Azione Cattolica, che egli aveva la fortuna
di una vocazione cristiana che sempre ne ha condizionato la vita.
Pietromarchi ha avuto l'onore delle sue esequie alla Basilica di Santa
Maria degli Angeli, dove solo il Milite Ignoto e pochi altri hanno
avuto il privilegio dei funerali.
Dal canto mio ho fra i miei libri più cari l'ultimo volume
che egli abbia scritto: L'Arte Diplomatica ovvero Fascino dell'Ambasciata:
un titolo che certamente rappresenta tutta la sua vita. Certamente
anche del figlio, Antonello, ambasciatore non certo nepotista; della
sorella, moglie dell'ambasciatore Attolico, quello a Berlino, e della
quale per il suo straordinario fascino si dice fosse attratto lo stesso
Hitler notoriamente non impegnato in questo campo. La dedica del suo
volume che ho con me recita: "21 febbraio 1974, al carissimo
amico con la maggiore stima ed affettuosa amicizia".
Ognuno di noi, soprattutto sul finire degli anni, lamenta quanto credeva
gli fosse dovuto, pure spesso illudendosi, e non ha avuto. Però
con Pietromarchi di mezzo quanto da lui in amicizia avuto mi compensa
di quello che da altri invece non ho ricevuto, neppure come semplice
e pur dovutomi ricordo.
Ma torniamo al Pietromarchi dei giorni di allora. Egli che era divenuto
conferenziere che si limitava ad illustrare la realtà dell'Unione
Sovietica, quale era stata vista e vissuta da un ambasciatore - ed
egli ne ha scritto nel tanto citato, documentario e documentato suo
libro -, era entrato a far parte, liberamente, di un'Associazione
Liberi Dibattiti, presieduta dall'ex ministro, ex segretario del Partito
Liberale, ecc., Alberto Giovannini, dalla Confindustria appoggiata
e da me modestamente suggerita ed attivata. La trasparenza non è
una conquista di oggi, ma chi l'ha praticata c'è sempre stato,
con i consuntivi, che, se ci sono, valgono appunto a questo.
Pietromarchi mi parlò all'epoca delle difficoltà che
lui appunto, Cristoforo Fracassi, Pietro Quaroni ed altri ambasciatori
(per me senza nome, o perché non me ne furono fatti, o perché
lo di taluni di loro sapevo poco o nulla) incontravano nel costituire
un circolo, un nucleo comunque con il quale le loro esperienze potessero
continuare ad essere poste al servizio del Paese. Che meraviglia oggi,
che dovere allora!
Ne parlai al mio amico Giovan Battista Codina, allora vice segretario
generale della Confindustria. Molti di questi dirigenti burocratici
della Confindustria avevano un loro carisma, ma essi stessi non lo
sapevano. Lo sapevano di loro taluni di noi, delle generazioni successive.
Orbene, Codina mi disse di seguire la cosa. Sapeva di Pirelli, che
avrebbe fatto lo stesso. Di Valletta, che non gli avrebbe detto nulla
di diverso. Di Olivetti, che non avrebbe preso le distanze, e così
via. lo naturalmente non potevo, nel mio piccolo, fare diversamente.
Nacque così il Circolo di Studi Diplomatici, con la sua prima
sede a Palazzo Grazioli, in via del Plebiscito, dove avevo pure i
miei uffici con divani, consolles, tavoli, scrivanie del Sette-primo
Ottocento, con damaschi rossi alle pareti, con enormi lampadari di
cristallo, con l'arredamento storico del palazzo, e tutto ciò
non per sopravvenute esigenze, ma solo perché questa era stata
la sede del primo dopolavoro della burocrazia della Confindustria
e poco dopo sede della stessa Confindustria, all'indomani della sua
ricostruzione sul finire del 1945 e prima del suo ritorno in Piazza
Venezia, ove oggi non c'è più perché emigrata
all'EUR. Di questa EUR, per quanto attiene alla sede confindustriale,
non so nulla, anche se non ne ignoro la primissima storia.
Dunque c'era Pietromarchi. Ma con lui c'erano pure, quali motori,
Cristoforo Fracassi e Pietro Quaroni. Del primo francamente sapevo
poco. Conoscevo la sua valida esperienza all'ambasciata a Madrid nel
1942, anno in cui mi capitò, facendo parte di una missione
italiana artigiana, di rompere per l'anticipata apertura dello sportello
dell'auto in cui viaggiavo i vetri dell'androne dell'ambasciata. Alcuni
del personale accorsero all'insolito e preoccupante fragore, ma certamente
il più spaventato per quello che avevo provocato ero io.
Di Fracassi sapevo inoltre che a Mosca in un momento critico dell'incontro
fra Krusciov e Gronchi, Presidente della Repubblica, di cui Fracassi
era capo del Cerimoniale o forse Consigliere Diplomatico, ebbe ad
interrompere il più o meno aspro scambio di vedute e battute,
alzando il calice e gridando viva l'Europa e viva la pace. Comunque
Fracassi era sempre esemplarmente solenne. In un salone del Banco
di Roma, dove si svolgeva un dibattito del Centro di Riconciliazione
Internazionale che il Banco si compiaceva di sponsorizzare, e dove
erano tanti i quadri nobiliari appesi alle pareti, Fracassi al suo
arrivo in una riunione mi sembrò che fosse disceso direttamente
da uno di questi quadri.
E veniamo a Pietro Quaroni. Con l'età che ho, ma voi la conoscete,
posso dire che per me è stato l'ambasciatore più grande
dell'intero secolo. (E mettiamo fra parentesi il Conte Sforza, per
non fare inutili polemiche).
Lui è stato fra gli altri e prima degli altri il promotore
del Circolo di Studi Diplomatici ed io ho la fortuna di essergli andato
dietro, come ho detto, non per conto mio, naturalmente, ma per conto
della Confindustria.
Dunque questo Pietro Quaroni voleva siffatto Circolo di Studi Diplomatici,
che io mi ero assunto il dovere di varare per quanto riguardava organizzazione
e intenzionalità, nientemeno!
Ma chi era Pietro Quaroni? Non rispondo io. Lo fa invece Indro Montanelli,
che ha la stessa mia età, un'anzianità professionale
giornalistica più o meno pari alla mia (la Stampa Romana mi
ha dato una medaglia di appartenenza di 40 anni nel 1970), ma è
un nostro "mostro sacro".
Orbene, Montanelli, scrivendo di Quaroni, dice di un popolo, da Quaroni
descritto, di novanta milioni di italiani, metà antifascisti
e metà fascisti: è certamente un paradosso, ma ... ;
di un diplomatico che ad un certo punto ha dovuto rischiare e compromettersi
per non farsi complice di certe sciocchezze; di un diplomatico che
ha dovuto sopportare sette anni di disgrazie, per le quali si vide
il più intelligente, spregiudicato e colto funzionario di Palazzo
Chigi relegato in Afganistan, che è un confino meno gradevole
di Lipari.
Ma Montanelli aggiunge molte altre cose riguardo a Quaroni, in parte
da condividere ed in parte no, anche se queste possono avere il fascino
del paradosso. Un paradosso ovviamente che piace sempre, a patto di
non essere monotonamente ricorrente.
Orbene, Quaroni pensava anche altre cose. Quando era presidente della
Rai si diceva che si divertisse a ripetere che i soli coglioni (scusate
il termine) a non essere dentro la Rai erano sicuramente quelli del
monumento equestre della piazza antistante.
Questo era Quaroni, quello anche delle caramelle nel cassetto, ma
per me non quello che, secondo Montanelli, "buttava curiosamente
la lingua in fuori, come un camaleonte, passandola da un angolo all'altro
della bocca, mentre con gli occhi perduti nel vuoto sembrava che cercasse
le parole e le idee". Di questo Quaroni infatti non mi sono mai
accorto. Né perciò ho avuto a che fare. Ha fatto invece
certamente comodo alla fruttuosa fantasia di Montanelli, e sono contento
che questa continui a convivere con lui.
Ma Quaroni era diverso anche da quello che taluni hanno inserito in
un loro museo delle cere, conseguente ad un impasto narrativo più
o meno uguale per tutti.
Quaroni, per me che l'ho frequentato per lavoro ed a casa sua, con
la sua raccolta di miniature che poi anch'io ho emulato, con un cane
in grembo persino alla vigilia della sua morte per una motivazione
banale cui si era sottoposto nella convinzione che non fosse tanto
importante, mi ha insegnato tanto di più di quanto io non riesca
a scrivere, oggi. Tanti invece scrivono degli altri quanto da essi
non hanno saputo o voluto apprendere. Tuttavia hanno certamente almeno
minori ansie di noi, perché i pentimenti o presunti tali pesano
di meno sul loro conto.
Comunque di Quaroni ho qualche altro personale ricordo. Qualcuno è
costituito da un resoconto stenografico, relativo appunto ad un mio
occasionale intervento al Circolo Studi Diplomatici, durante una sua
seduta dedicata alla Spagna. Vi ero stato invitato perché autore
in quell'anno di un volume da me appunto dedicato alla Spagna. Siamo
nel 1969 e l'ambasciatore Vita Finzi, di cui dirò dopo, si
accorse della mia pubblicazione e ne avvertì i suoi colleghi,
perché dicessi anch'io la mia. Lo feci, ma di questa mia relazione
ricordo solo quello che disse Quaroni e che trascrivo dallo stenogramma
del tempo (13 gennaio 1971). Quaroni: "Vorrei esprimere la speranza
che questa partecipazione, soprattutto dal punto di vista economico,
dell'amico Pistolese non sia unica e continui perché effettivamente
noi altri, per una certa tendenza anche naturale, non diamo sufficiente
rilievo alla parte economica, che viceversa ha un'importanza enorme".
Parole solo occasionali, pensate. Eppure c'è tanta verità
generalmente inespressa. Figuratevi per me se c'entrava o no.
Qualche passo
indietro
Allorché sul finire del 1967, ma sostanzialmente nell'anno
successivo, il Circolo fu costituito sulla base detta prima, la sua
presidenza fu assunta dall'ambasciatore Fracassi, che dal suo canto
aveva previsto anche personali interventi di sostegno, fra cui pure
quello di una seconda sede nel suo castello di Torre Rossano.
A Segretario Generale designai un mio collaboratore, il generale Manlio
Gabrielli, che la Confindustria aveva assegnato ai miei uffici per
la parte organizzativa ed amministrativa (solo limitatissime ed irrilevanti
spese correnti, perché tutto il resto era gestito dalla Confindustria).
Questo generale era stato Addetto militare in Spagna, all'epoca della
guerra civile. Era stato altresì Capo della Casa militare del
Luogotenente del re in Albania e poi fu nominato Console Generale.
In tale veste era qualificato per un Circolo di Studi di ambasciatori.
Di questo Gabrielli, ciociaro, ricordo la leale collaborazione offertami,
il vivace e pronto decisionismo, il desiderio e le ragioni per fare.
Di lui parla pure il diario di Ciano, per rilevare che la situazione
drammatica denunciata da Gabrielli con un telegramma a Roma in merito
alla resistenza albanese alla prevista azione militare italiana era
espressa esageratamente a fronte stesso delle calma invece manifestata
da Jacomoni. Ma sia per l'Albania che per la Grecia questo diario
conferma quelle che sono state le pregiudiziali ottimistiche di Ciano,
che gli stessi suoi collaboratori diplomatici di Roma non riuscivano
a contenere. In un'altra parte del diario Ciano parla poi esplicitamente
di un contegno molto ambiguo di Gabrielli con un telegramma nel quale
si affermava che "Zog ha a sua disposizione 45 mila uomini".
Ciano dice che Gabrielli sembra che esageri. Ambiguità: tuttavia
parola grossa attuita da un "sembra" certamente più
cauto: il tutto sempre da inquadrare in un contesto di vigilia (e
queste vigilie militari si sa come a quei tempi venivano preparate
ed orchestrate). Gabrielli cercò di contrastare sempre queste
affermazioni, come pure illustrò in un libro quello che è
stato il suo ruolo di Addetto militare nella guerra di Spagna. Egli
intendeva quella guerra come una guerra per l'emancipazione nazionale
guidata da Franco.
Il libro fu edito da Giovanni Volpe editore nel 1966 ed lo gli detti
qualche consiglio, in cui non c'entrava la concordanza (nel confronto
invece intimo mio, delle mie conoscenze dirette sul posto nel 1942
e di quelle successive sempre sul posto nel 1963), ma la sopravvenuta
consuetudine di lavoro. Una dedica di Gabrielli nel suo libro si rivolge
al "caro amico, con animo grato per gli utili suggerimenti datimi:
20 giugno 1966".
Gabrielli ha collaborato con me per circa sette anni e poi al momento
della cessazione del CIS è andato in pensione, succedendogli
io come segretario generale del Circolo, sempre nell'ambito della
Confindustria.
L'attività
del Circolo
L'attività del Circolo si incentrò in due rami: uno
costituito dalla redazione quindicinale di una lettera riservata d'attualità,
dedicata al tema emergente nel momento internazionale (il termine
riservato da me voluto tendeva a richiamare l'attenzione del destinatario
a certi livelli frequentemente distratto dal numero di pubblicazioni
che si accumulano sui suoi tavoli); l'altro costituito dai dialoghi
diplomatici a cadenza mensile che pubblicavano i resoconti stenografici
degli articolati dibattiti su di un tema prestabilito che raccoglievano
attorno ad un relatore o due relatori tutti i membri del Circolo.
Di siffatti dibattiti ne sono stati effettuati circa 150 o poco meno:
costituiscono certamente un complesso bibliografico di primissimo
livello, di valutazioni e conoscenze personali di estrema valenza,
non so se e in quale misura sostituite da altri apporti.
Quelli del Circolo, alla fine della sponsorizzazione della Confindustria
avvenuta nel 1977 (e ne parlerò alla conclusione di queste
mie annotazioni), sono proseguiti per l'impegno manifestato dall'ambasciatore
Capomazza, che sostituì dopo nella presidenza l'ambasciatore
Ghigi.
Ma poi anche questi sforzi sono risultati vani, così che il
Circolo oggi è ibernato o cessato, ma probabilmente non mancherà
di provocare altre iniziative più o meno analoghe.
Ci sono anche i corsi e ricorsi pure in questa materia. E non bastano
gli Istituti di studi internazionali, perché penso che il mondo
diplomatico di vertice nelle sue espressioni collegiali sia qualche
cosa di inconfondibile nella documentazione, nella verità della
storia, nell'apporto, nelle verifiche e nel confronto delle esperienze.
Nomi del Palazzo
Chigi anni '30
Ma chi erano, oltre quelli citati, gli ambasciatori che hanno partecipato
alla fondazione del Circolo di Studi Diplomatici?
C'è un ordine alfabetico da rispettare. E perciò comincio
con Adolfo Alessandrini: nella sua scheda figurano gli incarichi alla
Nato e prima nel Libano, in Grecia, in Canada. Sono tutti punti variamente
nevralgici per lui, con una seria preparazione alle spalle, con una
dose di realismo e di sicurezza di giudizio che tutto sommato ne facevano
un sorridente e tollerante ottimista. Era lombardo e certamente ne
aveva tutte le virtù che ci piacciono.
E c'era ovviamente lo stile: dote allora evidentemente comune ed imprescindibile
per tutti i diplomatici. Non ho in questa materia esperienze successive
di piena conferma di questo stile, ma solo che l'atmosfera di quel
lontano Palazzo Chigi non tutta è stata trasferita da questo
punto di vista formale alla Farnesina. Questa emigrazione da Piazza
Colonna alle falde di Monte Mario, pur avendo alle spalle Villa Madama,
mi sembra un po' spaesata, anche se le ragioni logistiche non possono
non far valere le proprie.
Viene dopo Renato Bova Scoppa. E' stato in Marocco, nel Venezuela,
ma è stato anche a Bucarest. Ma di questa Bucarest l'accurata
storia dei 15 anni d'attività del Circolo (1968-1983) redatta
dal Vita Finzi non parla (del resto non parlava neppure di me e ne
ho provocato scuse e rettifiche), parla invece il diario di Ciano,
per un viaggio in Romania che telegrafa a Bova
Scoppa di rinviare, perché non vuole che diventi un viaggio
antimagiaro, per i telegrammi sempre di Bova Scoppa che riferiscono
delle accuse al Conducator di essersi impegnato militarmente in una
lotta che non ha per la Romania un interesse diretto, per le segnalazioni
sempre di Bova Scoppa in merito ai segreti rivelati da Antonescu circa
la nuova arma segreta tedesca (un cannone elettrico a canna multipla),
una materia che tuttora è dibattuta e calata nel limbo di una
quasi fantascienza con una storia che si sta al riguardo inutilmente
mangiando la coda; per una relazione, sempre di Bova Scoppa, sul colloquio
col giovane Antonescu di ritorno dal quartiere generale germanico:
è stato molto esplicito nell'affermare le tragiche condizioni
in cui ormai si trova la Germania e coraggiosamente prospetta la necessità
per la Germania come per noi di prendere contatti con gli alleati
per cercare una difesa alla bolscevizzazione dell'Europa. "Porterò
la relazione al duce - scrive sempre Ciano nel suo diario, il giorno
29 gennaio 1943 - e ne farò oggetto di un discorso che da tempo
desidero fargli non fasciandomi ancora la testa prima che sia rotta,
ma guardiamo realisticamente la situazione e ricordiamo che ogni carità
ben fatta deve cominciare in casa propria". Questi i pensieri
che suggerivano a Ciano i dispacci di Bova Scoppa.
Forse qualche postumo di essi c'è nella speranza attribuita
al Mussolini di Salò di offrire appunto a Bova Scoppa il ministero
degli Esteri della Repubblica Sociale. Intorno agli anni '60 (ed io
allora ero divenuto amico di Bova Scoppa) i giornali parlarono di
una telefonata appunto di Mussolini a Bova Scoppa con la quale gli
offriva il ministero degli Esteri. Senonché le risposte che
i giornali dissero fossero date da Bucarest erano quelle semplici
e ripetitive di Bova Scoppa: "non si sente niente". Cadeva
così la linea telefonica e cadevano le speranze di Mussolini
di aver poste le mani su di un uomo giusto.
Tutto ciò è una storiella. Bova Scoppa infatti me l'ha
nettamente smentita, e forse pure questa smentita era superflua, in
quanto la totalissima maggioranza degli ambasciatori - le eccezioni
non le conosco, se ci sono state - si schierò per il Governo
di Brindisi, di Salerno, di Roma.
E qui mi sovviene un rimorso: quello di non aver sollecitato altre
confidenze agli ambasciatori ai quali mi ero affiancato nel Circolo
e che mi potevano dire tante cose in aggiunta a quelle che mi hanno
detto ed lo non ho scritto.
Ed eccomi a Manlio Brosio. Egli era stato esponente del Partito Liberale
Italiano, ma ad un certo momento ha sentito il richiamo dell'attività
diplomatica e contrariamente a tanti politici che nel passato erano
stati immessi in essa (il solito promoveatur ... ) egli ha mostrato
di essere proprio al posto giusto, anche se per lui nuovo.
La sua carriera è stata veramente prodigiosa: a Mosca, Londra,
Parigi, Washington. Gli è mancato solo Bonn, per sette anni
ha ricoperto pure la carica di segretario generale dell'Alleanza Atlantica.
La sua carriera forse si può comparare solo con quella di Quaroni.
Tuttavia egli era di una semplicità estrema: lo stesso ai vertici,
lo stesso nella pratica quotidiana minore. Ricordo che in occasione
di un Convegno di studi svoltosi a Venezia nella struttura di San
giorgio promossa e sostenuta dal Conte Cino, Manlio Brosio presentandomi
alla moglie e riferendosi alla sua qualità di socio del Circolo
ebbe a presentarmi come colui che li comandava. Ed io ero solo segretario
generale di questo Circolo dal 1971 e ben sapevo che ai livelli che
avevo di fronte non si poteva, né d'altra parte si voleva,
comandare nulla.
Ma a questo Convegno cui intervenne Dino Grandi, attratto dalla presenza
di tanti ambasciatori, dei quali si è sempre vantato di essere
collega, prima ancora per la sua molto lontana qualità di ministro
degli Esteri, di ambasciatore per lunghissimi anni alla Corte di San
Giacomo (lui è stato l'unico ambasciatore che nelle celebrazioni
solenni indossasse la divisa con polpe) mi è occorso di sentire
alla mia presentazione a lui: Ah, Pistolese! Non mi aveva mai conosciuto,
né certamente sapeva dei miei ruoli passati e presenti, ma
solo la mia presenza in quel luogo gli suggeriva sorpresa e piacere
per una colleganza che sfortunatamente per me non c'era. C'erano invece
ricordi immaginari e convenienze ambientali da parte di Grandi.
Ma episodi più o meno analoghi mi sono occorsi pure nel passato.
Agli inizi degli anni '30 ero nella ristrettissima cerchia dei giornalisti
colonialisti e riuscivo a scrivere su riviste di rilievo ed ero editorialista
di taluni quotidiani importanti. I giovani allora non conoscevano
le discoteche, ma tentavano questi sbocchi. Presumevo (a torto, però)
di avere una certa notorietà. Così, mentre ero in visita
amichevole con il Capo di gabinetto del Ministro delle Colonie che
era De Rubeis (il ministro era De Bono), questi mi presentò
al generale Graziani, che non era ancora maresciallo, ma era se non
erro governatore o vice governatore (non ricordo) della Cirenaica
non ancora unificata con la Libia, come mi sembra sia avvenuto con
Balbo. Il suo interesse per me non fu quello inerente alla mia attività
giornalistica, ma speravo che ne avessi determinato attenzione e curiosità,
ma solo quello di conoscere se ero parente di Pistolesi dell'Archetto:
nota tipografia romana. Il mio no di allora mi ha insegnato molto
sui limiti del quarto potere e soprattutto sulla concomitanza che
vi è stata sempre fra tipografi e giornalisti, che in taluni
ambiti hanno convissuto nelle stesse pratiche di lavoro.
Benedetto Capomazza, altro socio del Circolo, merita a mio giudizio
una particolare sottolineatura, oltre che perché è stato
Ambasciatore in Israele ed in Svezia (quante diverse esperienze in
questi due Paesi: estremamente attuali anche oggi per i problemi tanto
diversi fra loro, ma estremamente vivi che pongono: il primo per la
Palestina ed i rapporti con il mondo musulmano, il secondo con l'esperienza
di vita ed oggi di ridimensionamento del Welfare-State), soprattutto
perché dopo il disimpegno della Confindustria avvenuto, come
dirò, nel 1977, è riuscito a mantenere in vita il Circolo
fino all'immediata vigilia della sua morte.
Ora il Circolo, come ho detto, almeno nella fisionomia e nella composizione
originaria, senza quelle identità anche se diversamente sopravvivono
e sopravviveranno, è certamente rientrato nell'ombra degli
archivi e delle biblioteche. Ed a me naturalmente dispiace, perché
diciamo così per dovere di ufficio ne sono stato agli inizi
uno dei motori, e poi perché dal 1971 al 1977 ne sono stato
segretario generale, "avendone data valida opera", come
viene scritto nel volumetto che lo stesso Circolo ha pubblicato a
testimonianza della sua storia.
Ma qui altri sono gli ambasciatori e debbo ricordare come promotori
o primi partecipi della vita del Circolo. E debbo dire che le generazioni
da cui questi ambasciatori discendono erano più doviziose (un
aggettivo che comodamente dice molte altre cose) di quelle successive.
C'erano Roberto Caracciolo di San Vito, già in Indonesia, Lussemburgo,
alla Commissione Disarmo di Ginevra con la sua napoletanità
che riusciva a dare uno stile alla sua diplomazia; Giulio Del Balzo
di Presenzano (Australia, Spagna, Venezuela, Santa Sede e prima come
consigliere pure nell'Ungheria di Horty e che 10 ho conosciuto appunto
quando del Balzo era divenuto amico del figlio di Horty. Poi Del Balzo
era divenuto Presidente del Centro di Riconciliazione Internazionale
e con me condivideva molte idee di rilancio del Circolo.
Altri nomi sono Giovanni Fornari: da ambasciatore a Parigi a Capo
dell'Amministrazione Fiduciaria della Somalia già italiana;
Pellegrino Ghigi, presidente dopo Pietromarchi del Circolo nel 1977,
che ha avuto incarichi di capo gabinetto a Palazzo Chigi, che è
stato in Spagna, in Grecia, ecc.; Carlo Alberto Straneo, che ha culminato
la sua carriera come ambasciatore a Mosca, essendo uno di quegli ambasciatori
che sapevano vedere fino in fondo le cose ed intravvederne corso e
prospettiva: di ciò gli feci rivivere le testimonianze in una
sua conferenza al Rotary di Roma Sud cui appartenevo; Massimo Magistrati,
che aveva sposato una sorella di Galeazzo Ciano immaturamente defunta
e che fu il primo Consigliere a Berlino dell'Ambasciatore Attolico
e come tale è stato uno dei protagonisti di quel periodo, di
cui ampie tracce vi sono nel diario di Ciano.
Magistrati non sempre tuttavia era in linea con il pensiero e le riserve
pure ammonitrici (purtroppo ammonitrici) del suo capo missione che
era appunto Attolico. In una visita, nelle settimane antecedenti il
nostro intervento, che una missione artigiana di cui facevo parte
compiva a Berlino gli dicemmo che da parte tedesca si annunciava il
nostro intervento. Lui non commentò, ma ironicamente ci disse:
vi hanno anche indicato la data? Una domanda apparentemente seria
nella sua formalità, ma che si collocava fra doverose resistenze:
quelle di cui lo stesso diario Ciano si lamenta.
E poi due altre figure, per me inimitabili.
Gastone Guidotti, già ambasciatore a Londra, toscano, quindi
con la verve propria di questa terra; silenzioso e loquace allo stesso
tempo; ultrapresente e pure volutamente assente e distratto. Un'arte
la sua, che si rivelava pure nei dibattiti del Circolo, nei quali
era abituato ad intervenire per poche cose, ma sempre culminanti.
Quasi perché portatovi per forza. Mi diceva, come un vezzo,
che anche il suo whisky gli faceva da motore, ma a tempi prestabiliti,
come ausiliario controllato, rigorosamente controllato nel corso della
settimana. Un insegnamento per chi invano cerca di diminuire il proprio
ricorso al fumo. Certi ambasciatori invece sono anche ambasciatori
per queste cose, perché oltre tutto hanno lo stile per farlo.
E c'è Egidio Ortona: che se non erro è stato anche capo
di gabinetto di Bastianini, quando questi nel semestre che culminò
nel 25 luglio era Sottosegretario agli Esteri, con Mussolini ministro.
Ma Ortona, nel dopoguerra, è stato prima Capo della Missione
Tecnica presso gli USA (ed io l'ho conosciuto nel '60 a New York,
con i consigli che mi dette per le mie ricognizioni giornalistiche
negli Stati Uniti), poi ambasciatore a Washington (ed io nel '74 gli
offrii di fare un dibattito a Roma nel nostro Circolo di Studi Diplomatici)
ed infine l'ho visto socio a Roma del Circolo, suo vice presidente:
con tutte le sue superlative capacità diplomatiche, ma anche
operative, a livello altamente manageriale. Fra l'altro egli era stato,
dopo la fine della sua carriera diplomatica, Presidente della Confederazione
degli Armatori (cui anch'io fui chiamato in un lontanissimo passato
a collaborare nelle pubbliche relazioni, allorché presidente
ne era Angelo Costa, imprenditore, banchiere, armatore).
Con la compagnia
della "dissolvenza"
E qui queste mie annotazioni (nelle quali desidero non dimenticare
Vita Finzi, che è stato un po' il testimone modesto di questa
nostra storia minore, il giornalista e scrittore che ha detto il più
possibile quello che aveva imparato e poteva, doveva trasmettere agli
altri, che viveva più che modestamente in via Crescenzo a Roma
avendo la cura di farsi personalmente la spesa, a cominciare da quella
del pane: gli ambasciatori sapevano allora passare dalla feluca alla
busta gialla dei commestibili, portata indifferentemente sotto il
braccio) finiscono con la conclusione, anzi con la comunicazione del
disimpegno della Confindustria dall'interesse per il Circolo.
Il Presidente, Guido Carli, da Chigi presidente, da Ortona vice presidente,
da me segretario generale volle sapere di più sul nostro Circolo.
Ma più che desideroso di essere informato (la sua curiosità
con me si riferì più che altro alla scelta dell'EUR
come sede della Confindustria: lui da giovane sapeva di quella di
Piazza Venezia, dove sul finire del Ventennio faceva parte dell'ufficio
studi), egli si proponeva di farei capire, ma preferì non farlo,
che la Confindustria, pur apprezzando, come si dice in queste occasioni,
stava rivedendo e riducendo conti e partecipazioni. Qualche settimana
dopo la comunicazione doveva darmela invece il direttore generale
Paolo Savona, ministro dell'Industria del governo Ciampi, oggi sottile
portatore di un particolare tipo di politica delle privatizzazioni,
che mi sembra al momento ancorato a metodologie da inventare più
che a prassi già più o meno regolarmente avviate. Egli
mi comunicava che nel bilancio del'77 nessuna voce era prevista per
il Circolo di Studi Diplomatici.
Dato che il Circolo disponeva di un bilancio in attivo - e tale fu
trasferito alla Confindustria - per il mese di gennaio e di febbraio
di quell'anno mi erano stati corrisposti i modesti assegni di segretario
generale del Circolo, ed io ne restituì l'importo, anche se
a fronte di comunicazioni ritardate, che come al solito erano pure
retroattive. Almeno moralmente per chi le capiva.
Io, naturalmente, non rappresentando più la mia dante causa,
mi dimisi da segretario generale. Il personale che con me aveva collaborato
fu in gran parte trasferito alla Confindustria, ed a me furono rivolti
i consueti apprezzamenti con la firma dell'ignaro Guido Carli e verbalmente
da parte di Savona, che mi confortò (!) con la comunicazione
che "tutti parlavano bene di me". Ma lo gli risposi che
forse erano solo gli uscieri e le dattilografe, per i quali nelle
mie scelte e pretese di servizio ho sempre avuto particolari cure.
Il Circolo continuava, come poteva. La Confindustria nella più
grande e "maestosa" orbita che le è propria ha fatto
lo stesso, con giudizi e critiche che per essa probabilmente hanno
uno spessore non diciamo maggiore, ma per lo meno uguale, a quello
del passato.
Le mie disordinate notazioni finiscono qui. Sono ricordi usciti da
un immaginarlo cassetto. Mi sembra che siano da me guardati come un
film non mediocre (per me assiduo frequentatore del cinema del passato),
ma addirittura grande; tuttavia in bianco e nero, con diffusi grigiori
di nebbiosa dissolvenza. E con me unico spettatore.
(continua)
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