§ STORIE RIVISITATE

COME VESTIVAMO




Attanasio Mozzillo



Ultimi decenni del Settecento, quando anche a Napoli Rousseau ha occupato qualche non defilato palchetto delle biblioteche che contano. li popolo, o meglio la plebe, si accinge ad assumere cittadinanza in quello che di lì a poco sarà l'incontrastato dominio del Volkgeist.
E non è un caso che il Voyage del Saint-non avverta che i costumi "des Napolitains sont aussi variés que le langage: dans chaque quartier, dans chaque village ou ville des environs de Naples, les femmes ont toutes, dans la maniere de se vetir, quelque particulanté qui les distingue mais il faut peindre des costumes, et non les décrire". E' il 1780, e in realtà già abbastanza si è detto sui costumi della città e del golfo.
A partire invece dai casali ad Oriente di Napoli, per non dire del Principato Citra e del Cilento, non solo in rapporto ai "vestimenti", ci si muove in terre decisamente incognite. E se si è consapevoli che anche i più piccoli e irraggiungibili paesi del Regno possono vantare un proprio costume nel quale la comunità si riconosce, e che rappresenta il simbolo palese di una identità locale orgogliosamente indossata, lo si è e lo si conosce soprattutto attraverso gli immigrati che dalle province raggiungono la capitale, e che spesso per studi, professione ed estrazione sociale sono in grado di guardare con distacco critico o accondiscendente benevolenza alle consuetudini dei loro conterranei più umili. Nelle quali il costume entra soltanto alle scansioni solenni della vita e del culto e non è certo appannaggio di chi neanche può permettersi pause di festa e di riposo nei ritmi di un quotidiano defatigante e spesso rischioso. I redattori della statistica muratiana del 1811 parlano di "vestimenti ordinari, fatti di ruvidissima lana, ruvido feltro, panno e felpa grossolani, lino malissimo lavorato". I pastori vestono per lo più con pelli dei loro animali, e infine "si può dire con franchezza non esservi stabilimenti per vestire li poveri".
Ma non sono certo questi stracci che possono interessare i raffinati collezionisti di stampe e porcellane, le cui "pastorellerie" comportano sempre un'araldica e volatile convenzione di levità. E così il costume popolare viene cercato e riprodotto soltanto se tale da far mostra di ricchezza per panni, ricami, finiture e bigiotterie. E' in questa ottica che nel 1784 Ferdinando invia al fratello, Carlo IV di Spagna, una serie di figure presepiali eseguite da Francesco Celebrano, tutte "galantemente vestite a rappresentare i costumi del Regno".
Quando questi "pastori" privilegiati lasciano Napoli, già da un anno si è avviato il reportage iconografico sui "vestimenti delle province", nella cui realizzazione lo stesso monarca è intervenuto con precise direttive sui modi e le località dei rilievi, nonché sui particolari dell'esecuzione. E sua è anche la scelta degli artisti che dovranno portare a termine un'impresa che richiederà ben quattordici anni di fatiche.
Ad avviare il lavoro, insieme ad Alessandro d'Anna, è Saverio Della Gatta, che però, preso da altri impegni, portata a termine la campagna in Terra di Lavoro, si ritira e dopo qualche anno apre una lucrosa bottega in certi terranei nei pressi di Palazzo d'Avalos, in vico Vasto, a Chiaia. E' di qui che a getto continuo, fino alle soglie degli anni Trenta dell'Ottocento, escono album, cartelle e fogli sciolti, tempere, gouaches e disegni, che in una serie di stereotipi abbastanza articolata offrono una sorta di mappa accattivante quanto fattiva del microcosmo meridionale. E pur occupando un gradino certamente più basso di quelli in cui sono o sono stati insediati Fabris e D'Anna, questo allievo di Giacomo Cestaro, vicino alla corverie di Hamilton, è il solo che sappia e voglia muoversi al di fuori degli stereotipi paesistici e le rappresentazioni del folklore.
Ed è ancora Santangelo a indicarci l'assoluta autonomia rappresentativa di una serie di tempere raffiguranti abiti dei diversi ordini monastici presenti nella capitale. Anche qui committenza, naturalmente, ma non sconosciuta all'artista, anonima (i possibili compratori della sua "merce"), bensì un rapporto personale in cui don Saverio riesce a dare le prove migliori della sua capacità. E avendo ormai raggiunto quotazioni di mercato che dir sostenute sarebbe eufemistico, è a buon motivo che si vede con interesse l'iniziativa attuale delle edizioni "Piccolo Parnaso" di riproporre il meglio di Della Gatta in due sontuose cartelle; che raccolgono rispettivamente le "Scene di vita popolare napoletana" e i "Costumi popolari del Regno di Napoli". Cinquanta riproduzioni di opere che vanno dal 1793 al 1827, corredate da sobrie e informate pagine introduttive di Lucio Fino. Cinquanta riproduzioni assolutamente perfette, realizzate da Angelo Rossi, maestro di arte tipografica, per Giovanni Schettino, che nella maculata topografia delle "piccole" iniziative editoriali ha il non comune privilegio di operare a Capri, Anacapri, lui ci tiene a specificare.
Di Della Gatta non si sa molto, se non le solite avare notizie anagrafiche, che permettono però di collocare la sua attività a cavallo tra Sette e Ottocento, e cioè in uno spazio del gusto dove spingendosi avanti la frontiera di una nuova sensiblerie, non per questo si fanno più fragili le roccaforti dell'Accademia e del tradizionale sentire.
Dicotomia avvertibile già in Philipp Hackert e per qualche verso anche in una certa produzione di Fabris staccata dalla committenza di Hamilton. Che questa bipolarità tra raggelato nitore e urgenza di pulsioni rappresentative faccia lacerazione nella personalità del maestro di vico Vasto, affermarlo sarebbe abbastanza risibile.
Il Nostro fu anzitutto un prolifico illustratore molto attento a quanto già era stato realizzato da altri che lo avevano preceduto e affiancato (Fabris, Tlschbein, Giacomo Milani, Luigi Del Giudice e Alessandro D'Anna), una prolificità che nasce soprattutto dalla richiesta di un mercato che va via via più allargandosi, sino a raggiungere con le litografie della premiata ditta Cuciniello e Bianchi una serialità che prelude alla fotografia di Alinari e alla vesuvianità floreale delle cartoline stampate a Bergamo.
Ma torniamo ai "Costumi" di Don Saverio. Quelli di Napoli, anzitutto: salachianelli e perecottari, padulani e venditori di frattaglie. E poi tante donne, e tutte flessuose sui loro alti scarpini, la caviglia sottile, i fianchi procaci, il seno che a metterlo in bella mostra ci pensa un bamboccio appena svezzato. La procidana tra qualche anno incontrerà Lamartine, mentre la donna di Pozzuoli, anche se sgrana il Rosario, incede fiera delle sue gambe spadaccine. E se la donna "del borgo di Chiaia" impugna virtuosa la conocchia, spinge avanti un busto che il corsetto serve meno a contenere che a far prorompere. Sull'aperta quinta del golfo, superbi delle loro spaselle di ancine e di sarachi, i Luciani guardano con scherno alle "genti ordinarie" che nei vicoli oscuri baciano reliquie e fanno ressa ai conventi per un mestolo di cicerchie. E quindi non più costumi da parata e neanche quotidiani dignitosi "vestimenti", ma zoccoli e mantesini, informi casacche e laceri camicioni, piedi scalzi, bluse sfilacciate e pantaloni sdruciti.
Perché questa è la gente che incontra lo straniero; e cioè lazzari e vastasi, pescatori e ambulanti. E queste mostre di stracci sono al fondo pittoresche e "diverse". Del resto, l'immagine della città che gli stessi napoletani coltivati amano proporre è pur sempre quella del paradiso e dei diavoli. Al primo ci pensano le gouaches di Lusieri, ai suoi abitatori con qualche indulgenza provvedono appunto i D'Anna, i Vianelli, i Lindostrom e naturalmente il nostro don Saverio.
Ma se il "paradiso", e cioè l'entità di una cornice naturale irripetibile, è un dato reale pur nella sua iperbolica epifania, e quindi l'iconografia paesaggistica può anche svolgersi senza i supporti mitopoietici (mito e bellezza sono la realtà stessa), i "diavoli" sono certamente anche topoi dell'immaginario e quindi icone da plasmare e riproporre in una loro figuratività che spesso nulla ha da spartire con il reale, ma neanche capace di una credibile catarsi poetica. Di qui la sostanziale adulterazione della grafica di costume nei confronti della società popolare napoletana e delle province. I "costumi" che indossano gli abitanti dei casali contigui alla capitale, al pari dei contadini di Terra d'Otranto, sono come maschere lestive, riservate in occasioni straordinarie soltanto ai più abbienti. E poi non è un caso che già alla fine del Settecento, figurarsi poi alla metà del secolo scorso, il costume è già un reperto della memoria, soprattutto se ricchezza di argenti e merletti, ridondare di organzini e di faldiglie lo riservano a occasioni di parate che già allora ammiccano a un tempo perduto.
Non che voglia accusare questi "costumisti" sette-ottocenteschi di arbitrarie ricostruzioni di reperti folklorici (a escluderlo basterebbe la "Reale Ricognizione" del 1783), ma soltanto insistere sulla mercificazione che quasi sempre finisce per far premio su un'affettiva partecipazione alla cultura degli emarginati. Si privilegiano le immagini più seducenti (vedi lo splendido costume femminile di Lecce, con il mantesino ricavato ad aquile bicipidi), si indugia sulle vestiture orientali delle comunità albanesi, immutate fin dal quindicesimo secolo; si insiste sulle fusciacche irte di pugnali e pistole e sui lunghi fucili alla damaschina; si ricama su braghe e schiavine impreziosite di fibbie e costellate di argenti; perfino si eccede in un cromatismo fastoso; insomma si lusinga l'acquirente, non sai se assecondando le sue richieste o addirittura imponendogli il proprio usurato immaginario.
E tutto questo ai margini di un'Europa che andava via via affinando autentiche pulsioni a una etnologia riscattata dalle generalizzazioni del "curioso" e dell'abnorme. Certo, e soprattutto in Della Gatta, vi è anche altro; e cioè un tentativo di superare il costume nella sua accezione diciamo così sartoriale, per ritrovare momenti ed aspetti di una società arcaica più che arcadica. E si vogliono indicare le tavole dedicate al "Costume delli Abruzzesi di far ballare l'orso", al suggestivo "Viaggio di Puglia", alla "Novella sposa nel paese di Falconara"; o altre in cui la staticità neoclassica dei gruppi si scompone in movimento ed azione, mentre le stesse "vestiture" si fanno più consone al vissuto quotidiano, come nella "Fiera di San Bruno in Calabria", dove almeno chi vende salacche, zeppoli o falcetti e ferramenta non fa mostra di frappe e di ciniglie, ma indossa fustagni e calze a cacaiuola.
Ed è qui che don Saverio offre ancora argomenti per una sua capacità di rappresentazione, anche se discontinua; ma proprio in questo statuto di saltuarietà, talvolta riscattato dai dettati dell'Accademia e aperto a suggestioni non seriali, Della Gatta può iscriversi tra coloro che - regnicoli e stranieri - non temono di confessare la "coscienza infelice" di un paese sigillato nella sua plurisecolare emarginazione.


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