Alla
base dell'odierno dibattito politico-amministrativo e territoriale c'è
una riflessione nuova sulle origini dell'Italia, che si può sintetizzare
in questa domanda: esistono effettivamente un fondo etnico comune, un
linguaggio, uno stile che mettono in comunicazione fin dall'antichità
le pur diverse etnie e culture italiche; e quale significato civile
ebbe il progetto di conquista e unificazione romana?
E' innegabile l'attualità del tema: sono infatti ben note non
soltanto le spinte autonomistiche delle diverse regioni di cui è
composta la penisola (non necessariamente ingiustificate, ma sul piano
amministrativo), ma addirittura le proposte di vera e propria spartizione
del territorio in più Stati confederati.
Ebbene: rispondendo oggettivamente alle domande poste dalla riflessione
di cui abbiamo detto, senza perseguire obiettivi di mera natura politica,
o peggio ancora, partitica, si comprende come, probabilmente, il problema
posto da parte di alcuni personaggi sia in gran parte inesistente.
L'Italia, infatti, fin dal suo sorgere, è stata caratterizzata
dalla complessità sia etnica sia culturale delle differenti popolazioni
che l'hanno abitata; ciò non ha impedito comunque che si riconoscesse
una unità di fondo da parte di tutti i popoli coinvolti, al punto
che hanno accettato senza eccessivi patemi d'animo la coagulazione finale
che poi si ebbe sotto l'egida di Roma. Proprio scavi recenti, infatti,
hanno sottolineato la capacità di ogni popolazione italica di
sviluppare i suoi tratti caratteristici, sia culturali che linguistici,
pur nell'accettazione fondamentale di una struttura sovranazionale,
dalla quale - ed è importante mettere in risalto questo aspetto
- non vennero mai schiacciati o sopraffatti.
Ebbero vita autonoma soltanto gli Etruschi, le città della Magna
Grecia e i Celti della Gallia Cisalpina. Ma le popolazioni autoctone
si riconoscevano in un'Italia già ai tempi di Augusto. Le tre
civiltà etrusca, magnogreca, celtica, cui si dovrebbe aggiungere
quella delle colonie fenicie, intanto poterono entrare in rapporto con
quella italica, in quanto perché proprio quest'ultima aveva perso
coscienza della sua unità.
Scrive in proposito Sabatino Moscati: "A fronte degli apporti esterni
alla formazione della civiltà storica in Italia, non meno rilevanti
sono le componenti interne della penisola e delle isole, cioè
le genti che si incontrarono con i colonizzatori stranieri e, in feconda
simbiosi con essi, concorsero allo straordinario mosaico dell'Italia
preromana. Appare chiaro, più volte, il fenomeno per cui le genti
italiche emergono alla luce della storia per la sollecitazione straniera,
specie greca, in seguito a una complessa reazione e interazione. Note
ai Romani, e quindi a noi, soprattutto mediante il nome dei popoli,
quelle genti si distribuiscono nelle varie regioni che, pur attraverso
alterazioni marginali, hanno sostanzialmente conservato la loro identità
attraverso i secoli. Spesso, anzi, i nomi dei popoli e delle regioni
coincidono; sicché sotto l'uno e l'altro aspetto essi vanno considerati
nella coscienza della continua dialettica etnico-culturale".
Se si confrontano i nomi delle attuali regioni dello Stato italiano
con la divisione in undici regioni operata da Augusto nel 41 avanti
Cristo, ci si accorge che ben poco è cambiato da un punto di
vista della nomenclatura in questi due millenni di storia. Si trovano
infatti attestati i nomi della Campania, prima regione; dell'Apulia
e Calabria, seconda regione; di Bruzio e Lucania, terza regione; del
Sannio, quarta regione; del Piceno, quinta regione; dell'Umbria, sesta
regione; dell'Etruria, settima regione; dell'Emilia, ottava regione;
della Liguria, nona regione; di Venezia-Istria, decima regione; della
Transpadania undicesima ed ultima regione.
Sotto queste denominazioni si identifica un territorio che va dall'estrema
punta dello Stivale, in Calabria, fino alle Alpi, al Nord, ad esclusione
delle isole e della Val d'Aosta, che saranno inglobate soltanto in un
secondo momento. Si tratta del territorio che Plinio il Vecchio, nel
terzo libro della sua Naturalis Historia, alla fine della descrizione
geo-storica della penisola, definisce in questo modo: "Questa è
l'Italia sacra agli dèi; queste le città dove vive la
sua popolazione. E per di più l'Italia - terra che, sotto il
consolato di Lucio Emilio Paolo e di Gaio Attilio Regolo, all'annunzio
della rivolta della Gallia, da sola, senza alcun aiuto straniero e,
a quel tempo, ancora priva della Transpadania, mise in armi ottomila
cavalieri e settecentomila fanti - per abbondanza di minerali di ogni
genere non è seconda a nessuna terra".
Riteniamo di poter condividere in pieno le parole del grande ammiraglio
romano morto durante l'eruzione del Vesuvio che seppellì Pompei,
non tanto per il tono certamente un poco enfatico, simile a molti altri,
e meno sentiti, adagi noti alla cultura popolare, quanto piuttosto perché
da esse traspare uno degli elementi caratterizzanti la civiltà
italica, vale a dire il rapporto molto stretto di tutte le culture in
un crogiolo che già nei primi decenni del primo secolo dopo Cristo,
quando lo scrittore romano compose l'opera, era avvertito come un tutto
unico inscindibile e perciò stesso invincibile. Non è
certo un caso che l'alleanza di popolazioni che tra il 90 e l'88 avanti
Cristo si oppose in armi al dominio di Roma, prendendo sede a Corfinio,
denominò se stessa "Lega Italica", legittimando ed
elevando a valenza politica quel nome che alcuni decenni dopo sarebbe
divenuto la denominazione ufficiale del cuore dell'Impero Romano.
Eppure, gli inizi di tale denominazione, tanto fortunata, sono legati
ad un piccolissimo territorio e affondano le radici, come spesso accade
per i nomi di tanta importanza, in un racconto mitico.
Con essa infatti era designata la parte liminare più meridionale
dell'attuale Calabria, dove sarebbe approdato un eroe greco, Italo appunto,
che creò proprio in quel luogo la prima colonia. Soltanto a poco
a poco il nome si estese a tutta l'attuale Italia, progredendo per gradi
nell'arco di almeno cinquecento anni di storia, fino a giungere alla
sua accettazione da parte di Augusto e dei suoi storici posteriori.
Siamo, come si è detto, in ambito mitico. Gli studiosi, però,
pur accettando che la denominazione fosse ristretta a quel piccolo territorio,
ritengono più valida l'ipotesi che tale nome sia da rapportare
a "vituli", cioè a "vitelli", in quanto una
lunga serie di denominazioni geografiche dei popoli italici è
di ultima derivazione dall'ambito faunistico: per esempio, i Piceni
dal termine "picus", che rappresenta un uccello.
Vediamo le caratteristiche peculiari di ciascuna etnia, che hanno tratti
comuni a tutte le popolazioni, che mettono in risalto la coscienza di
appartenenza alla civiltà italica. E incominciamo dalla Calabria,
abitata nell'antichità dal Bruzi: proprio scavi recenti condotti
nella necropoli indigena di Francavilla Marittima e nell'insediamento
fortificato di Castiglione di Paludi ci hanno rivelato una civiltà
con un'evidente delimitazione sia culturale che geografica; si tratta
di una cultura venuta a contatto con quella greca e in un certo qual
senso da questa sopraffatta, ma assolutamente non annientata.
Sui Lucani, poi, si stanno scoprendo gli abitati montani, fra i quali,
tipico, è quello di Serra di Vaglio; in particolare dallo scavo
delle necropoli emerge una produzione artigianale e artistica tra cui
vanno segnalati, a partire dal quinto secolo avanti Cristo, oggetti
di bronzo, in parte di carattere bellico e in parte domestico, e terracotte
elaborate per decorazioni e per recipienti che rivelano una vena popolaresca
e una vivacità coloristica fortemente autonoma.
Sempre per quel che concerne questa regione, molto interessanti si stanno
rivelando gli scavi condotti nell'area meridionale della regione, che
stanno mettendo in evidenza ogni giorno di più il ruolo culturale
che giocò il popolo degli Enotri. Un altro aspetto molto stimolante,
poi, è dato dall'espansione dei Lucani verso il Tirreno, attestata
dalla conquista di Paestum e dalle splendide pitture funerarie rinvenute
a centinaia nelle necropoli di quella città: se si ricorda la
presenza, sempre a Paestum, di testimonianze etrusche, allora diviene
evidente il convergere dell'iniziale influenza greca con i tratti peculiari
delle culture indigene.
In Puglia erano stanziati i Messapi, vera e propria rivelazione di tutti
i tempi, con le centinaia di iscrizioni riportate alla luce nella grotta
marina di Roca Vecchia. Dagli scavi di Arpi è emerso un insediamento
la cui cinta esterna si estendeva per tredici chilometri. L'area geografica
ed etnica dell'Italia meridionale si conclude con la Campania, quel
territorio cioè che nel quinto e nel quarto secolo avanti Cristo
indicava la porzione indipendente di Capua, l'ager campanus. Proprio
da Capua provengono le più significative manifestazioni di un'antica
civiltà autonoma, che trova le sue maggiori attestazioni nelle
sculture in tufo, le ben note "madri" rappresentate come figure
femminili che sorreggono in braccio uno o più bambini in fasce.
Proprio la Campania - lo abbiamo rilevato parlando di Paestum - è
una terra di convergenze e di incontro tra le genti più diverse:
oltre ai Lucani e agli Etruschi, infatti, vanno ricordati i Greci, gli
Osci e i Romani.
Nell'Italia centrale l'Abruzzo e il Molise coincidono con l'antico Sannio,
e la loro popolazione con i Sanniti, che opposero un'accanita resistenza
all'avanzata romana. L'omogeneità del Grande Sannio è
rivelata dagli insediamenti montani fortificati riemersi grazie alle
ricerche archeologiche degli ultimi anni, soprattutto nelle aree di
Monte Vairano presso Campobasso, e dalle necropoli che hanno restituito
dei veri e propri tesori di statuaria, il prototipo dei quali è
il celebre Guerriero di Capestrano, come pure i ricchissimi bronzi (dalle
armi agli ornamenti) e le tipiche catenelle di Alfedena. Ecco la descrizione
della statua del guerriero di pietra fatta dal De Franciscis: "E'
una scultura relativamente grande, alta poco più di due metri,
in pietra tenera locale, con notevoli tracce di colorazione rossa. Poggia
su una base. Ai piedi ha due sandali; da un cinturone che gira intorno
alla vita pende una specie di gonnellino bordato di una fascia decorata
a meandro. Sul torace un disco, che potremmo chiamare un giustacuore,
che dei legacci uniscono a un disco uguale al centro delle spalle.
Sul petto sono disposte le armi: da un lato la spada e il pugnale sovrapposti,
con decorazioni di figurine di animali a bassorilievo, dall'altro l'ascia.
Alle braccia dei ringrossi interpretati come armille: una a destra e
due a sinistra, di cui l'inferiore ha dei pendagli a forma di lame di
scure. Gli avambracci sono ripiegati sul petto e sulla vita. Al collo
è un monile costituito da una collana con un pendaglio. La testa
è presentata con una certa schematicità che mostra di
non essere naturale e, siccome il volto è orlato da un ringrosso,
si è pensato a una maschera; così le orecchie accartocciate
sarebbero dei paraocchi. Uno strano copricapo si incastra su un perno
al centro della testa; è a falda larghissima, nella parte inferiore
con centri concentrici graffiti e dipinti; la parte superiore rappresenta
una cresta di penne. Ai lati della figura, due pilastrini la limitano
giungendo fino alle ascelle, e sulle due facce esterne sono incise due
lance".
Nel Lazio, la peculiare civiltà della regione è espressa
dall'Osteria dell'Osa, ma sullo stesso Palatino è emerso un villaggio
di antiche capanne, databile all'ottavo secolo avanti Cristo. Passando
alla Toscana, bisogna sottolineare che la regione moderna presenta dei
confini differenti da quelli antichi, anche se tutta l'area è
permeata dalla civiltà etrusca.
L'Umbria, poi, il cui nome è legato agli Ombri, già celebri
per le "Tavole di Gubbio", ha recentemente manifestato la
sua funzione di raccordo e di intercambio tra culture diverse, dimostrando
di meritare la definizione di "cuore d'Italia". Le Marche,
infine, corrispondono orientativamente al Piceno della ripartizione
augustea, mentre l'Emilia abbracciava l'arca delimitata da Rimini, dal
fiume Po e dall'Appennino.
Nel Nord dell'Italia un'attenzione particolare va dedicata ai Veneti
ad oriente e ai Liguri ad occidente, mentre la Transpadania, ultima
regione acquisita da Augusto, nella quale è da ritrovare il territorio
dell'attuale Lombardia, presenta caratteri difficilmente conciliabili
con le culture delle genti italiche. Del resto, non va dimenticato che
lo stesso nome odierno è di derivazione alto-medioevale; piuttosto
una rilevanza hanno città come Corno, Bergamo e Forum Licinii,
tre celebri città orobiche, che secondo alcuni sarebbero state
fondate dai Celti.
E' proprio Sabatino Moscati a individuare i tratti peculiari e fondamentali
che concorrono a determinare quell'idea unitaria di civiltà italica
che in effetti scaturisce dalle testimonianze archeologiche. Essi vanno
dalla cosiddetta "civiltà di abitato" all'edilizia
religiosa, alle necropoli, vere e proprie protagoniste del territorio,
e alla cosiddetta "civiltà di circondario", per non
parlare poi della "civiltà delle strade", della "civiltà
della montagna" e, da ultimo, della "civiltà delle
acque", sia marittime che fluviali e lagunari.
Un'altra costante messa in luce dallo studioso è l'unità
artistica dimostrata in modo particolare dalla statuaria in pietra,
ma anche dalla plastica in terracotta prevalentemente figurata.
Scrive Moscati: "Le scoperte archeologiche degli anni recenti gettano
una nuova e viva luce sulla storia e la cultura d'Italia prima della
conquista di Roma: accrescono e integrano le conoscenze, modificano
le opinioni correnti, aprono problemi significativi e talora inattesi.
Da un capo all'altro del nostro Paese le genti che abitarono la penisola
nella più antica fase della storia riemergono attraverso testimonianze
che possono essere talvolta varie e difformi, ma che sono pure consistenti,
evidenti, legate a tratti da significativi raccordi".
Potrà sembrare anche enfatico, ma certamente corrispondono a
una realtà fortemente radicata nella cultura dell'Italia le significative
parole pronunziate proprio da Augusto nelle sue Res gestae, allorché
disse: "Iuravit tota Italia in me verba". Con queste parole,
infatti, egli dimostrava pienamente d'aver compreso l'unità culturale
e storico-geografica del territorio italiano.
E sono le parole che riproponiamo all'attenzione e alla riflessione
di quanti ai nostri giorni discutono, anche animosamente, di tripartizioni,
di secessioni, di ritorni all'Italia post-napoleonica. Se un po' tutti
leggessero, si informassero e osservassero direttamente le testimonianze
storiche di più, e magari cianciassero di meno...
MITI INFRANTI
DI UNA STORIA DIMENTICATA
RISORGIMENTI
DISCORDI
Diciamo la verità:
quanti italiani ricordano quante furono le guerre d'Indipendenza,
quando e con chi incominciarono, quando finirono, fino a quali tempi
si sono bene o male proiettate? Molto pochi, compresi parecchi studenti
che, riprese le manifestazioni "contro l'embargo a Cuba"
(spettacolo goduto a Roma qualche mese fa), per affrontare l'esame
di storia fanno regolarmente ricorso al glorioso Bignami o ai suoi
più moderni surrogati. Tanto, con i tempi (e con certi docenti)
che corrono, basta e avanza.
Onore a Bossi, dunque: il quale ha rispolverato il gran mito del Risorgimento,
e sia pure polemicamente ritenendolo incompiuto, se non addirittura
non realizzato, dal momento che l'unico Risorgimento che riconosce
è quello che faceva capo al federalismo di Cattaneo.
Altro che culto di Mazzini e delle sue missioni fallite; altro che
Garibaldi, che non capiva nulla di politica; per non parlare di quello
sciagurato del conte di Cavour, tessitore di un'Italietta disfatta
dallo scandalo della Banca Romana a quello di Tangentopoli! Onore
a chi, dunque, ha costretto politici, storici, saggisti, giornalisti
persino, a ripassarsi atti parlamentari, a rileggersi inchieste, a
rivedere giudizi: insomma, a riaprire un dibattito che sembrava sepolto
da tempo, con una domanda che è un po' sulle labbra di tutti:
"Ma valeva proprio la pena di 'risorgere', se poi si scopre che
gli invalidi di Stato stanno benissimo, che la Cassa per il Mezzogiorno
finanziava la criminalità organizzata a Sud e gli imprenditori
per modo di dire al Nord, che la metropolitana di Milano, più
che il sottosuolo, perforava il muro delle tangenti?. E, dietro la
domanda, la soluzione radicale: non c'è alcun bisogno di invocare
lo spirito di Radetzky e quello di Franceschiello per procedere alla
separazione dello Stivale.
Ai pochi, attoniti italiani che la storia l'hanno studiata bene, e
continuano a frequentarla senza vergognarsene, resta un dubbio: ma
il Risorgimento è proprio quello di Bossi? E il mito, polveroso
quanto si vuole, ha ancora un senso? Pare che ce l'abbia, se a discuterne
non sono soltanto gli italiani, ma anche gli svizzeri, i tedeschi
e persino i giapponesi: ascoltando i quali, leggendo i quali, si ha
l'impressione che il Risorgimento abbia conservato un'identità
e un suo particolare fascino soprattutto all'estero.
Mentre da noi ce n'è uno da supermercato: ognuno si fa l'albero
genealogico che vuole, scegliendo il personaggio che gli fa comodo,
da Cavour a Cattaneo, da Garibaldi a Mazzini, e se sta dall'altra
parte magari a Metternich. In tal modo il nostro Paese rischia di
essere espropriato della sua stessa storia.
Altrove non è così. I francesi, ad esempio, sono uniti
nel culto della loro rivoluzione. Da noi, invece, manca un senso comune.
Non siamo neanche tanto sicuri del nostro stesso passato. Nel senso
che ci sentiamo figli di Italie separate. Il punto però è
questo: sono legittimi gli usi personali del Risorgimento? Possono
esserlo, a patto che questo "pluralismo" non danneggi la
comunità e non impedisca la governabilità; purché
non succeda che ciascuno tiri il Risorgimento dalla sua parte, faziosamente,
strumentalmente: altrimenti si finisce in Sudafrica, con gli sviluppi
separati.
Si dice: il Risorgimento ha avuto tante facce. Cioè: i vincitori,
le forze sabaude, cavouriane, moderate, ne hanno costruito un'immagine
conciliatrice e unitaria, in cui si attenuavano i contrasti, ci si
ritrovava ad ammirare i monumenti, le vie e le piazze dedicate al
Re Vittorio Emanuele II. Invece gli sconfitti, i garibaldini, i mazziniani,
gli stessi radicali di Felice Cavallotti hanno accreditato un mito
alternativo, dove non vi era più conciliazione ma scontro tra
Mazzini e il movimento democratico da un lato, e la monarchia dall'altro.
Questo mito degli sconfitti è prevalso là dove esistevano
basi di massa favorevoli, ad esempio in Romagna, dove nei cimiteri,
accanto alle tombe cattoliche, c'erano quelle contrassegnate dall'edera
repubblicana; ed è prevalso tra gli intellettuali meridionali,
e prima ancora che meridionali, anti-sabaudi, come l'Alianello, che
esordì con la spedizione dei Mille vista dall'altra parte (nell'Alfiere)
e concluse la sua vita dopo aver dato alle stampe un volume dal titolo
emblematico: La conquista del Sud. E che dire degli altri sconfitti:
i cattolici? Non parliamo poi dei socialisti di Turati, convinti che
il Risorgimento non avesse veramente affrancato i lavoratori. Non
va dimenticato che l'inno dei lavoratori di Turati dice: "C'han
promesso la dimane / la diman c'aspetta ancor". Questa è
storia. Ma oggi che cosa resta del mito? Senza dubbio, quello che
abbiamo sotto gli occhi, e cioè un'Italia affrancata da regimi
assolutistici e conservatori. Se non ci fosse stato il Risorgimento,
forse l'Italia assomiglierebbe ai Balcani. E il federalismo? Ma anche
Cattaneo e Ferrari erano favorevoli a uno Stato unitario, sul modello
americano o svizzero. Chiedevano rispetto per le tradizioni locali,
è vero, ma anche un Parlamento comune. Per cui la creazione
di uno Stato separato sarebbe un tradimento non soltanto del Risorgimento,
ma anche di Cattaneo. I leghisti lo sanno? Bossi lo sa? Ci auguriamo
di sì. Anche se alcune dichiarazioni nel corso dell'ultima
campagna elettorale ci hanno lasciati molto perplessi sullo spessore
storico-culturale del leader leghista. Soprattutto là dove
ebbe a dichiarare che "la linea di scambio tra Sud e Nord, scambio
di idee e di cultura, c'è sempre stata: tanto è vero
che la lingua volgare è nata nel Sud, in particolare in Sicilia,
ma passò subito al Rinascimento del Nord, perché il
Nord ha grandi capacità di sintesi": che è un modo
di fare storia e storia della letteratura contiguo alla ludematica
più che alle scienze esatte.
Ultimo punto, il rapporto fra Risorgimento e Resistenza. Da qualche
tempo prevale l'affermazione del passaggio dall'idea della Resistenza
come secondo Risorgimento e quella del movimento partigiano come vizio
d'origine della Repubblica; se non addirittura all'idea di anti-Risorgimento.
C'è invece chi ritiene l'8 settembre solo un trauma. Comunque,
non va dimenticato che repubblichini e partigiani si richiamavano
entrambi agli ideali risorgimentali, e che Mazzini campeggiava anche
sui francobolli della Repubblica sociale. Certo, la vocazione a crearsi
un Risorgimento personale è un vizio antico come l'Italia.
E' stato scritto (da Arturo Colombo) che la scuola marxista ha ignorato
e contestato il Risorgimento perché preferiva parlare di storia
sociale e di grandi ideologie. Alcuni studiosi cattolici, dall'altra
parte della barricata, ne hanno parlato come di una maledizione divina.
E prima non c'era stato il Risorgimento nazionalistico di Gentile,
esaltato dal fascismo?
In realtà, il mito continuerà ad esistere, anche se
in tante, diverse e persino contrapposte versioni, finché l'Italia
sarà unita. Se invece andrà a pezzi, ci possiamo scommettere:
per le future generazioni diventerà l'antimito per eccellenza.
OTTOMILA CAMPANILI
PER UNA NAZIONE
La più
antica rappresentazione simbolica del nostro Paese è in un
affresco realizzato da Cimabue sulla volta della Basilica Inferiore
di San Francesco, ad Assisi. Vi si distinguono una serie di campanili,
di varie forme, di diversa altezza, di configurazione e struttura
differente: sormontati, in uno spazio tra due cuspidi, sulla sinistra,
da una parola di sei lettere: YTALIA.
Cimabue è vissuto negli ultimi tre decenni del XIII e i primi
anni del XIV secolo. E aveva coscienza dell'unità artistica,
civile, culturale della penisola. Ebbene: ancora dieci anni fa, chi
avrebbe potuto predire che il fatto-nazione, in tutte le sue dimensioni,
sarebbe ridiventato un problema centrale, anzi il più pericoloso
e critico, dei dinamismi politici su scala italiana, e persino mondiale?
Ancora oggi molte circostanze cospirano ad oscurare questo fatto agli
occhi anche di accorti osservatori. L'internazionalizzazione delle
grandi forze economiche, l'universalizzazione delle tecnologie e dei
modelli di produzione e di consumo, le reti di informazione unificanti
il "villaggio globale" sembrerebbero essere ancora i protagonisti
veri della storia di oggi e di domani.
Ma sarebbe cieco non vedere che non solo ciascuno di questi fattori
reca l'impronta di questa o quella entità nazional-statale
egemonica nel cui seno è cresciuto, debordando poi a influenzare
l'insieme delle relazioni mondiali. Ma che, oltre a ciò, quegli
organismi complessi e mal definibili di esperienze, di tradizioni,
di entità e di ambizioni che sono gli Stati nazionali già
formati, e le etnie che aspirano a tale condizione, restano pur sempre
i depositari e gli arbitri ultimi della scelta fra la pace e la guerra,
fra i processi associativi e quelli dissociativi; ossia, restano i
veri protagonisti del processo storico.
La cultura italiana ha cominciato a prendere coscienza di questi temi
e a dibatterli. E per prima cosa dichiara il motivo attualissimo che
stimola la riflessione: è il fatto che la stessa unità
e compagine storicamente formatasi dello Stato nazionale italiano
è messa in forse e revocata in dubbio in un cospirare di fattori
avversi: le varianti estremiste di un federalismo leghista che talora
ha sconfinato nel secessionismo; la crisi generale degli aspetti politici
che hanno retto e governato la Prima Repubblica; e infine l'esautorazione
del mito resistenziale su cui questa si è fondata, come fattore
ancora capace di alimentare un'identificazione comunitaria e cooperativa
di un intero popolo di fronte a sfide e incognite fra le più
gravi della sua storia travagliata.
Una nazione può cessare di esserlo. La nazione infatti non
è una struttura statuale fissa e indistruttibile. Non è
neppure un dato etnico disancorato dalle sue politiche storiche. Quando
la politica produce inefficienza e corruzione si intaccano i vincoli
stessi che tengono insieme una nazione al di là della sua struttura
statuale.
Se la Nazione-Stato italiana è giunta a questo discrimine,
ciò dipende principalmente dal fatto che le vicende della storia
vissuta e sofferta in comune dalle popolazioni della penisola non
sono state interpretate e usate dalla cultura politica corrente come
giustificazione e fondamento della convivenza democratica, delle sue
regole, dei suoi obblighi. Nella cultura italiana odierna la lacuna
più grave è l'incapacità di raccontare la storia
nazionale in modo da creare identificazione, nonostante, anzi proprio
attraverso le sue immense contraddizioni. La storia comune non è
diventata momento insostituibile del discorso pubblico democratico.
La causa primaria di ciò sta negli eventi che sono stati prescelti
e stabiliti come radici della legittimazione della Repubblica: ossia
nel senso reale e nel mito ideologico della Resistenza. Sia l'evento
che il mito hanno avuto sempre un'ambiguità indelebile. Ha
scritto il Rusconi: "La Resistenza italiana [ ... ] è
opera di minoranze guidate da una forte e legittima competizione di
parte, nella prospettiva di vincere per poter costruire secondo il
proprio modello il nuovo Stato democratico. Per questo essa si attrezza
subito in forma partitica". Non solo: la Resistenza è
anche e primariamente una guerra civile.
E per di più una delle forze protagoniste di questa guerra,
nell'ambito del Chi, mirava a instaurare una forma di società
e di Stato che avrebbe negato tutti i valori su cui convenivano i
diversi soggetti del fronte antifascista. Questa immanente doppiezza
comunista ha sempre reso oggettivamente impossibile al resto del popolo
italiano accettare la Resistenza come evento mitopoietico, ossia capace
di attualizzare in continuazione se stesso, così da dare immediatamente
un senso compiuto e unificante ad azioni e intenzioni del presente,
che sono altrimenti confuse, frammentate, contraddittorie.
All'unanimità rituale delle celebrazioni non ha mai corrisposto
una forza coesiva di questo mito dell'inconscio collettivo di tutto
il popolo italiano. In tutte le espressioni elettorali della sua sovranità
democratica, questo ha sempre votato come se l'antifascismo fosse
la premessa della democrazia, non il suo equivalente. Per la maggioranza
del popolo italiano i reali eventi legittimanti della democrazia furono
sempre quelli che avevano escluso dal potere il Pci. Ma intanto quel
mito influenzava negativamente la conformazione della Repubblica,
impedendo il rinnovamento del sistema parlamentare ereditato dal pre-fascismo,
e sacrificando la chiara distinzione dei ruoli della maggioranza e
della minoranza e le esigenze di stabilità dell'Esecutivo.
E' un errore, in cui incorre abitualmente la cultura politica italiana,
pensare che l'Europa, l'integrazione supernazionale europea, possa
essere un sostituto valido di tutte quelle idee spiritualmente coesive,
che hanno finora operato quasi esclusivamente nell'ambito delle singole
nazioni. Sono gli Stati nazionali che hanno organizzato la scuola
e la milizia di massa; che hanno coordinato e regolato, e talvolta
protagonisticamente attivato, nei loro ambiti territoriali, i molteplici
processi di modernizzazione; che, nel bene e nel male, hanno suscitato
nei loro cittadini sensi di appartenenza e di solidarietà che
li distinguevano e li contrapponevano a quelli di altri Stati. Sono
essi i ricettacoli in cui si è formato il concetto moderno
dei diritti civili, e in cui questo si è cimentato con i problemi
sempre più ardui della democrazia di massa. E' illusorio pensare
che l'Europa transnazionale possa costituire un sostituto totale di
queste sedimentazioni vitali di esperienze e di culture, intese anche
come insieme di simboli e di reazioni istintive.
Non è difficile scorgere a questo punto le meditate ragioni
che ci rendono scettici sulla possibilità di edificare il senso
di una piena cittadinanza democratica e partecipativa solo sull'adesione
astratta e razionale ai principi di una Costituzione. Quelle correnti
della cultura tedesca che hanno sostenuto questa tesi hanno ignorato,
come i fatti dovevano dimostrare, la forza incoercibile delle passioni
e dei simboli che foggiarono le patrie. E si comprende anche perché,
esaminando l'impatto dell'immigrazione sulla cittadinanza nazionale
ed europea, alcuni mettono in guardia contro l'illusione che sia non
solo possibile, ma facile trasformare le società euroccidentali
in melting pots culturali, in organismi multietnici. Il problema enorme
che sta davanti a questa parte d'Europa consiste appunto nell'edificare
una cittadinanza più ampia e comprensiva, partendo da elementi
pre-nazionali e pre-legali terribilmente disparati ed eterogenei.
APPUNTI PER UN
PROSSIMO DECENTRAMENTO
UNDICI CAPITALI?
Tutte le strade
non dovrebbero "portare a", ma "portar via da"
Roma?
Non è cosa da poco pensare a una Roma che si fa in undici,
coinvolgendo nel progetto di "capitale reticolare" Torino,
Milano, Venezia, Trieste, Bologna, Genova, Firenze, Bari, Napoli,
Palermo e Cagliari. I vantaggi? "Recuperare l'efficienza dello
Stato; innalzare di rango le città destinatarie delle delocalizzazioni
romane, alle quali si apriranno anche nuove possibilità di
occupazione". E il tema dovrebbe diventare fin da ora una priorità,
perché su questo terreno il nostro Paese accusa pesanti ritardi.
La Gran Bretagna ha cominciato nel 1963, trasferendo da Londra in
trentuno anni oltre 64 mila impiegati statali. La Francia è
partita alla fine degli anni Sessanta, individuando una serie di città
da valorizzare in cui ha fatto convergere grandi funzioni economiche
a livello pubblico e importanti attività di ricerca scientifica.
In Germania, il processo di delocalizzazione è legato alla
nascita della Rft: nella capitale il Governo e il Parlamento, ma molte
funzioni nazionali erano decentrate nei vari lander.
Così, sull'esempio inglese, tedesco e francese, la Fondazione
Agnelli ipotizza lo spostamento a Milano della Banca d'Italia, della
Consob, della Commissione Antitrust, del Garante per l'editoria e
della Confindustria; a Torino la presenza del ministero dell'Università
e della ricerca scientifica e tecnologica, dell'Agenzia spaziale italiana,
dell'Istituto Superiore delle telecomunicazioni, di una rete Rai,
dell'Ice e della Telecom SpA; a Genova, del Consiglio di Stato, del
Dipartimento per la navigazione marittima del ministero dei Trasporti
e della navigazione, dell'Enea, dell'Enit e dell'Ina; a Trieste, dell'Istituto
di vigilanza sulle assicurazioni; a Venezia, della Corte Costituzionale,
dell'Agenzia per lo spettacolo e dell'Ente cinema; a Bologna, del
Cnr, del Consiglio universitario nazionale e delle Ferrovie dello
Stato; a Firenze, del ministero dei Beni culturali, dell'Istituto
centrale per il restauro, dell'Istituto centrale per il catalogo,
dell'Istituto centrale per la patologia del libro, della Discoteca
di Stato, dell'Anas, della Società autostrade; a Cagliari,
della Corte dei conti, dei servizi amministrativi dell'Alitalia; a
Napoli, dell'Inps, dell'Inall, dell'Istituto superiore di Sanità,
dell'Istituto di medicina del lavoro e della previdenza sociale, della
Finmeccanica e dell'Enel; a Bari, del Coni, dell'Agenzia per l'ambiente,
dell'Istituto superiore di fisica nucleare, dell'Aima, dell'Eni, delle
Holding; a Palermo, dell'Istat, dei monopoli SpA, dell'Istituto superiore
di polizia e della scuola di perfezionamento polizia, della Direzione
Pesca del ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali,
dell'Agip Petroli.
In complesso, qualcosa come 45 mila persone impiegate dovrebbero lasciare
la capitale e trasferirsi. Un piano contro la capitale? Proprio per
nulla, sostengono alla Fondazione: nessuno intende spogliare Roma
o realizzare rivincite di tipo provinciale. Ma è certo che
l'Italia delle cento città ha sprecato finora una quantità
enorme di risorse. La corsa a Roma, la retorica romano-centrica, hanno
soffocato la capitale, indebolendo nel contempo i centri minori. La
realizzazione di un progetto di decentramento-decongestionamento salverebbe
una capitale che, cumulando tutte le funzioni nazionali (e internazionali)
della Repubblica, è diventata oggettivamente caotica, inefficiente,
invivibile. Eppure, Roma è anche il cuore del Cattolicesimo,
oltre che una delle mete più ambite del mondo.
Per realizzare il progetto ci vorranno per lo meno dieci anni. A patto,
però, che si cominci subito. Sindacati autonomi e sindacati
unitari permettendo.
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