§ Quanteitalie

Archeologicamente una




Tunino Caputo, Gianfranco Langatta



Alla base dell'odierno dibattito politico-amministrativo e territoriale c'è una riflessione nuova sulle origini dell'Italia, che si può sintetizzare in questa domanda: esistono effettivamente un fondo etnico comune, un linguaggio, uno stile che mettono in comunicazione fin dall'antichità le pur diverse etnie e culture italiche; e quale significato civile ebbe il progetto di conquista e unificazione romana?
E' innegabile l'attualità del tema: sono infatti ben note non soltanto le spinte autonomistiche delle diverse regioni di cui è composta la penisola (non necessariamente ingiustificate, ma sul piano amministrativo), ma addirittura le proposte di vera e propria spartizione del territorio in più Stati confederati.
Ebbene: rispondendo oggettivamente alle domande poste dalla riflessione di cui abbiamo detto, senza perseguire obiettivi di mera natura politica, o peggio ancora, partitica, si comprende come, probabilmente, il problema posto da parte di alcuni personaggi sia in gran parte inesistente.
L'Italia, infatti, fin dal suo sorgere, è stata caratterizzata dalla complessità sia etnica sia culturale delle differenti popolazioni che l'hanno abitata; ciò non ha impedito comunque che si riconoscesse una unità di fondo da parte di tutti i popoli coinvolti, al punto che hanno accettato senza eccessivi patemi d'animo la coagulazione finale che poi si ebbe sotto l'egida di Roma. Proprio scavi recenti, infatti, hanno sottolineato la capacità di ogni popolazione italica di sviluppare i suoi tratti caratteristici, sia culturali che linguistici, pur nell'accettazione fondamentale di una struttura sovranazionale, dalla quale - ed è importante mettere in risalto questo aspetto - non vennero mai schiacciati o sopraffatti.
Ebbero vita autonoma soltanto gli Etruschi, le città della Magna Grecia e i Celti della Gallia Cisalpina. Ma le popolazioni autoctone si riconoscevano in un'Italia già ai tempi di Augusto. Le tre civiltà etrusca, magnogreca, celtica, cui si dovrebbe aggiungere quella delle colonie fenicie, intanto poterono entrare in rapporto con quella italica, in quanto perché proprio quest'ultima aveva perso coscienza della sua unità.
Scrive in proposito Sabatino Moscati: "A fronte degli apporti esterni alla formazione della civiltà storica in Italia, non meno rilevanti sono le componenti interne della penisola e delle isole, cioè le genti che si incontrarono con i colonizzatori stranieri e, in feconda simbiosi con essi, concorsero allo straordinario mosaico dell'Italia preromana. Appare chiaro, più volte, il fenomeno per cui le genti italiche emergono alla luce della storia per la sollecitazione straniera, specie greca, in seguito a una complessa reazione e interazione. Note ai Romani, e quindi a noi, soprattutto mediante il nome dei popoli, quelle genti si distribuiscono nelle varie regioni che, pur attraverso alterazioni marginali, hanno sostanzialmente conservato la loro identità attraverso i secoli. Spesso, anzi, i nomi dei popoli e delle regioni coincidono; sicché sotto l'uno e l'altro aspetto essi vanno considerati nella coscienza della continua dialettica etnico-culturale".
Se si confrontano i nomi delle attuali regioni dello Stato italiano con la divisione in undici regioni operata da Augusto nel 41 avanti Cristo, ci si accorge che ben poco è cambiato da un punto di vista della nomenclatura in questi due millenni di storia. Si trovano infatti attestati i nomi della Campania, prima regione; dell'Apulia e Calabria, seconda regione; di Bruzio e Lucania, terza regione; del Sannio, quarta regione; del Piceno, quinta regione; dell'Umbria, sesta regione; dell'Etruria, settima regione; dell'Emilia, ottava regione; della Liguria, nona regione; di Venezia-Istria, decima regione; della Transpadania undicesima ed ultima regione.
Sotto queste denominazioni si identifica un territorio che va dall'estrema punta dello Stivale, in Calabria, fino alle Alpi, al Nord, ad esclusione delle isole e della Val d'Aosta, che saranno inglobate soltanto in un secondo momento. Si tratta del territorio che Plinio il Vecchio, nel terzo libro della sua Naturalis Historia, alla fine della descrizione geo-storica della penisola, definisce in questo modo: "Questa è l'Italia sacra agli dèi; queste le città dove vive la sua popolazione. E per di più l'Italia - terra che, sotto il consolato di Lucio Emilio Paolo e di Gaio Attilio Regolo, all'annunzio della rivolta della Gallia, da sola, senza alcun aiuto straniero e, a quel tempo, ancora priva della Transpadania, mise in armi ottomila cavalieri e settecentomila fanti - per abbondanza di minerali di ogni genere non è seconda a nessuna terra".
Riteniamo di poter condividere in pieno le parole del grande ammiraglio romano morto durante l'eruzione del Vesuvio che seppellì Pompei, non tanto per il tono certamente un poco enfatico, simile a molti altri, e meno sentiti, adagi noti alla cultura popolare, quanto piuttosto perché da esse traspare uno degli elementi caratterizzanti la civiltà italica, vale a dire il rapporto molto stretto di tutte le culture in un crogiolo che già nei primi decenni del primo secolo dopo Cristo, quando lo scrittore romano compose l'opera, era avvertito come un tutto unico inscindibile e perciò stesso invincibile. Non è certo un caso che l'alleanza di popolazioni che tra il 90 e l'88 avanti Cristo si oppose in armi al dominio di Roma, prendendo sede a Corfinio, denominò se stessa "Lega Italica", legittimando ed elevando a valenza politica quel nome che alcuni decenni dopo sarebbe divenuto la denominazione ufficiale del cuore dell'Impero Romano.
Eppure, gli inizi di tale denominazione, tanto fortunata, sono legati ad un piccolissimo territorio e affondano le radici, come spesso accade per i nomi di tanta importanza, in un racconto mitico.
Con essa infatti era designata la parte liminare più meridionale dell'attuale Calabria, dove sarebbe approdato un eroe greco, Italo appunto, che creò proprio in quel luogo la prima colonia. Soltanto a poco a poco il nome si estese a tutta l'attuale Italia, progredendo per gradi nell'arco di almeno cinquecento anni di storia, fino a giungere alla sua accettazione da parte di Augusto e dei suoi storici posteriori.
Siamo, come si è detto, in ambito mitico. Gli studiosi, però, pur accettando che la denominazione fosse ristretta a quel piccolo territorio, ritengono più valida l'ipotesi che tale nome sia da rapportare a "vituli", cioè a "vitelli", in quanto una lunga serie di denominazioni geografiche dei popoli italici è di ultima derivazione dall'ambito faunistico: per esempio, i Piceni dal termine "picus", che rappresenta un uccello.
Vediamo le caratteristiche peculiari di ciascuna etnia, che hanno tratti comuni a tutte le popolazioni, che mettono in risalto la coscienza di appartenenza alla civiltà italica. E incominciamo dalla Calabria, abitata nell'antichità dal Bruzi: proprio scavi recenti condotti nella necropoli indigena di Francavilla Marittima e nell'insediamento fortificato di Castiglione di Paludi ci hanno rivelato una civiltà con un'evidente delimitazione sia culturale che geografica; si tratta di una cultura venuta a contatto con quella greca e in un certo qual senso da questa sopraffatta, ma assolutamente non annientata.
Sui Lucani, poi, si stanno scoprendo gli abitati montani, fra i quali, tipico, è quello di Serra di Vaglio; in particolare dallo scavo delle necropoli emerge una produzione artigianale e artistica tra cui vanno segnalati, a partire dal quinto secolo avanti Cristo, oggetti di bronzo, in parte di carattere bellico e in parte domestico, e terracotte elaborate per decorazioni e per recipienti che rivelano una vena popolaresca e una vivacità coloristica fortemente autonoma.
Sempre per quel che concerne questa regione, molto interessanti si stanno rivelando gli scavi condotti nell'area meridionale della regione, che stanno mettendo in evidenza ogni giorno di più il ruolo culturale che giocò il popolo degli Enotri. Un altro aspetto molto stimolante, poi, è dato dall'espansione dei Lucani verso il Tirreno, attestata dalla conquista di Paestum e dalle splendide pitture funerarie rinvenute a centinaia nelle necropoli di quella città: se si ricorda la presenza, sempre a Paestum, di testimonianze etrusche, allora diviene evidente il convergere dell'iniziale influenza greca con i tratti peculiari delle culture indigene.
In Puglia erano stanziati i Messapi, vera e propria rivelazione di tutti i tempi, con le centinaia di iscrizioni riportate alla luce nella grotta marina di Roca Vecchia. Dagli scavi di Arpi è emerso un insediamento la cui cinta esterna si estendeva per tredici chilometri. L'area geografica ed etnica dell'Italia meridionale si conclude con la Campania, quel territorio cioè che nel quinto e nel quarto secolo avanti Cristo indicava la porzione indipendente di Capua, l'ager campanus. Proprio da Capua provengono le più significative manifestazioni di un'antica civiltà autonoma, che trova le sue maggiori attestazioni nelle sculture in tufo, le ben note "madri" rappresentate come figure femminili che sorreggono in braccio uno o più bambini in fasce. Proprio la Campania - lo abbiamo rilevato parlando di Paestum - è una terra di convergenze e di incontro tra le genti più diverse: oltre ai Lucani e agli Etruschi, infatti, vanno ricordati i Greci, gli Osci e i Romani.
Nell'Italia centrale l'Abruzzo e il Molise coincidono con l'antico Sannio, e la loro popolazione con i Sanniti, che opposero un'accanita resistenza all'avanzata romana. L'omogeneità del Grande Sannio è rivelata dagli insediamenti montani fortificati riemersi grazie alle ricerche archeologiche degli ultimi anni, soprattutto nelle aree di Monte Vairano presso Campobasso, e dalle necropoli che hanno restituito dei veri e propri tesori di statuaria, il prototipo dei quali è il celebre Guerriero di Capestrano, come pure i ricchissimi bronzi (dalle armi agli ornamenti) e le tipiche catenelle di Alfedena. Ecco la descrizione della statua del guerriero di pietra fatta dal De Franciscis: "E' una scultura relativamente grande, alta poco più di due metri, in pietra tenera locale, con notevoli tracce di colorazione rossa. Poggia su una base. Ai piedi ha due sandali; da un cinturone che gira intorno alla vita pende una specie di gonnellino bordato di una fascia decorata a meandro. Sul torace un disco, che potremmo chiamare un giustacuore, che dei legacci uniscono a un disco uguale al centro delle spalle.
Sul petto sono disposte le armi: da un lato la spada e il pugnale sovrapposti, con decorazioni di figurine di animali a bassorilievo, dall'altro l'ascia. Alle braccia dei ringrossi interpretati come armille: una a destra e due a sinistra, di cui l'inferiore ha dei pendagli a forma di lame di scure. Gli avambracci sono ripiegati sul petto e sulla vita. Al collo è un monile costituito da una collana con un pendaglio. La testa è presentata con una certa schematicità che mostra di non essere naturale e, siccome il volto è orlato da un ringrosso, si è pensato a una maschera; così le orecchie accartocciate sarebbero dei paraocchi. Uno strano copricapo si incastra su un perno al centro della testa; è a falda larghissima, nella parte inferiore con centri concentrici graffiti e dipinti; la parte superiore rappresenta una cresta di penne. Ai lati della figura, due pilastrini la limitano giungendo fino alle ascelle, e sulle due facce esterne sono incise due lance".
Nel Lazio, la peculiare civiltà della regione è espressa dall'Osteria dell'Osa, ma sullo stesso Palatino è emerso un villaggio di antiche capanne, databile all'ottavo secolo avanti Cristo. Passando alla Toscana, bisogna sottolineare che la regione moderna presenta dei confini differenti da quelli antichi, anche se tutta l'area è permeata dalla civiltà etrusca.
L'Umbria, poi, il cui nome è legato agli Ombri, già celebri per le "Tavole di Gubbio", ha recentemente manifestato la sua funzione di raccordo e di intercambio tra culture diverse, dimostrando di meritare la definizione di "cuore d'Italia". Le Marche, infine, corrispondono orientativamente al Piceno della ripartizione augustea, mentre l'Emilia abbracciava l'arca delimitata da Rimini, dal fiume Po e dall'Appennino.
Nel Nord dell'Italia un'attenzione particolare va dedicata ai Veneti ad oriente e ai Liguri ad occidente, mentre la Transpadania, ultima regione acquisita da Augusto, nella quale è da ritrovare il territorio dell'attuale Lombardia, presenta caratteri difficilmente conciliabili con le culture delle genti italiche. Del resto, non va dimenticato che lo stesso nome odierno è di derivazione alto-medioevale; piuttosto una rilevanza hanno città come Corno, Bergamo e Forum Licinii, tre celebri città orobiche, che secondo alcuni sarebbero state fondate dai Celti.
E' proprio Sabatino Moscati a individuare i tratti peculiari e fondamentali che concorrono a determinare quell'idea unitaria di civiltà italica che in effetti scaturisce dalle testimonianze archeologiche. Essi vanno dalla cosiddetta "civiltà di abitato" all'edilizia religiosa, alle necropoli, vere e proprie protagoniste del territorio, e alla cosiddetta "civiltà di circondario", per non parlare poi della "civiltà delle strade", della "civiltà della montagna" e, da ultimo, della "civiltà delle acque", sia marittime che fluviali e lagunari.
Un'altra costante messa in luce dallo studioso è l'unità artistica dimostrata in modo particolare dalla statuaria in pietra, ma anche dalla plastica in terracotta prevalentemente figurata.
Scrive Moscati: "Le scoperte archeologiche degli anni recenti gettano una nuova e viva luce sulla storia e la cultura d'Italia prima della conquista di Roma: accrescono e integrano le conoscenze, modificano le opinioni correnti, aprono problemi significativi e talora inattesi. Da un capo all'altro del nostro Paese le genti che abitarono la penisola nella più antica fase della storia riemergono attraverso testimonianze che possono essere talvolta varie e difformi, ma che sono pure consistenti, evidenti, legate a tratti da significativi raccordi".
Potrà sembrare anche enfatico, ma certamente corrispondono a una realtà fortemente radicata nella cultura dell'Italia le significative parole pronunziate proprio da Augusto nelle sue Res gestae, allorché disse: "Iuravit tota Italia in me verba". Con queste parole, infatti, egli dimostrava pienamente d'aver compreso l'unità culturale e storico-geografica del territorio italiano.
E sono le parole che riproponiamo all'attenzione e alla riflessione di quanti ai nostri giorni discutono, anche animosamente, di tripartizioni, di secessioni, di ritorni all'Italia post-napoleonica. Se un po' tutti leggessero, si informassero e osservassero direttamente le testimonianze storiche di più, e magari cianciassero di meno...

MITI INFRANTI DI UNA STORIA DIMENTICATA

RISORGIMENTI DISCORDI

Diciamo la verità: quanti italiani ricordano quante furono le guerre d'Indipendenza, quando e con chi incominciarono, quando finirono, fino a quali tempi si sono bene o male proiettate? Molto pochi, compresi parecchi studenti che, riprese le manifestazioni "contro l'embargo a Cuba" (spettacolo goduto a Roma qualche mese fa), per affrontare l'esame di storia fanno regolarmente ricorso al glorioso Bignami o ai suoi più moderni surrogati. Tanto, con i tempi (e con certi docenti) che corrono, basta e avanza.
Onore a Bossi, dunque: il quale ha rispolverato il gran mito del Risorgimento, e sia pure polemicamente ritenendolo incompiuto, se non addirittura non realizzato, dal momento che l'unico Risorgimento che riconosce è quello che faceva capo al federalismo di Cattaneo.
Altro che culto di Mazzini e delle sue missioni fallite; altro che Garibaldi, che non capiva nulla di politica; per non parlare di quello sciagurato del conte di Cavour, tessitore di un'Italietta disfatta dallo scandalo della Banca Romana a quello di Tangentopoli! Onore a chi, dunque, ha costretto politici, storici, saggisti, giornalisti persino, a ripassarsi atti parlamentari, a rileggersi inchieste, a rivedere giudizi: insomma, a riaprire un dibattito che sembrava sepolto da tempo, con una domanda che è un po' sulle labbra di tutti: "Ma valeva proprio la pena di 'risorgere', se poi si scopre che gli invalidi di Stato stanno benissimo, che la Cassa per il Mezzogiorno finanziava la criminalità organizzata a Sud e gli imprenditori per modo di dire al Nord, che la metropolitana di Milano, più che il sottosuolo, perforava il muro delle tangenti?. E, dietro la domanda, la soluzione radicale: non c'è alcun bisogno di invocare lo spirito di Radetzky e quello di Franceschiello per procedere alla separazione dello Stivale.
Ai pochi, attoniti italiani che la storia l'hanno studiata bene, e continuano a frequentarla senza vergognarsene, resta un dubbio: ma il Risorgimento è proprio quello di Bossi? E il mito, polveroso quanto si vuole, ha ancora un senso? Pare che ce l'abbia, se a discuterne non sono soltanto gli italiani, ma anche gli svizzeri, i tedeschi e persino i giapponesi: ascoltando i quali, leggendo i quali, si ha l'impressione che il Risorgimento abbia conservato un'identità e un suo particolare fascino soprattutto all'estero.
Mentre da noi ce n'è uno da supermercato: ognuno si fa l'albero genealogico che vuole, scegliendo il personaggio che gli fa comodo, da Cavour a Cattaneo, da Garibaldi a Mazzini, e se sta dall'altra parte magari a Metternich. In tal modo il nostro Paese rischia di essere espropriato della sua stessa storia.
Altrove non è così. I francesi, ad esempio, sono uniti nel culto della loro rivoluzione. Da noi, invece, manca un senso comune. Non siamo neanche tanto sicuri del nostro stesso passato. Nel senso che ci sentiamo figli di Italie separate. Il punto però è questo: sono legittimi gli usi personali del Risorgimento? Possono esserlo, a patto che questo "pluralismo" non danneggi la comunità e non impedisca la governabilità; purché non succeda che ciascuno tiri il Risorgimento dalla sua parte, faziosamente, strumentalmente: altrimenti si finisce in Sudafrica, con gli sviluppi separati.
Si dice: il Risorgimento ha avuto tante facce. Cioè: i vincitori, le forze sabaude, cavouriane, moderate, ne hanno costruito un'immagine conciliatrice e unitaria, in cui si attenuavano i contrasti, ci si ritrovava ad ammirare i monumenti, le vie e le piazze dedicate al Re Vittorio Emanuele II. Invece gli sconfitti, i garibaldini, i mazziniani, gli stessi radicali di Felice Cavallotti hanno accreditato un mito alternativo, dove non vi era più conciliazione ma scontro tra Mazzini e il movimento democratico da un lato, e la monarchia dall'altro. Questo mito degli sconfitti è prevalso là dove esistevano basi di massa favorevoli, ad esempio in Romagna, dove nei cimiteri, accanto alle tombe cattoliche, c'erano quelle contrassegnate dall'edera repubblicana; ed è prevalso tra gli intellettuali meridionali, e prima ancora che meridionali, anti-sabaudi, come l'Alianello, che esordì con la spedizione dei Mille vista dall'altra parte (nell'Alfiere) e concluse la sua vita dopo aver dato alle stampe un volume dal titolo emblematico: La conquista del Sud. E che dire degli altri sconfitti: i cattolici? Non parliamo poi dei socialisti di Turati, convinti che il Risorgimento non avesse veramente affrancato i lavoratori. Non va dimenticato che l'inno dei lavoratori di Turati dice: "C'han promesso la dimane / la diman c'aspetta ancor". Questa è storia. Ma oggi che cosa resta del mito? Senza dubbio, quello che abbiamo sotto gli occhi, e cioè un'Italia affrancata da regimi assolutistici e conservatori. Se non ci fosse stato il Risorgimento, forse l'Italia assomiglierebbe ai Balcani. E il federalismo? Ma anche Cattaneo e Ferrari erano favorevoli a uno Stato unitario, sul modello americano o svizzero. Chiedevano rispetto per le tradizioni locali, è vero, ma anche un Parlamento comune. Per cui la creazione di uno Stato separato sarebbe un tradimento non soltanto del Risorgimento, ma anche di Cattaneo. I leghisti lo sanno? Bossi lo sa? Ci auguriamo di sì. Anche se alcune dichiarazioni nel corso dell'ultima campagna elettorale ci hanno lasciati molto perplessi sullo spessore storico-culturale del leader leghista. Soprattutto là dove ebbe a dichiarare che "la linea di scambio tra Sud e Nord, scambio di idee e di cultura, c'è sempre stata: tanto è vero che la lingua volgare è nata nel Sud, in particolare in Sicilia, ma passò subito al Rinascimento del Nord, perché il Nord ha grandi capacità di sintesi": che è un modo di fare storia e storia della letteratura contiguo alla ludematica più che alle scienze esatte.
Ultimo punto, il rapporto fra Risorgimento e Resistenza. Da qualche tempo prevale l'affermazione del passaggio dall'idea della Resistenza come secondo Risorgimento e quella del movimento partigiano come vizio d'origine della Repubblica; se non addirittura all'idea di anti-Risorgimento. C'è invece chi ritiene l'8 settembre solo un trauma. Comunque, non va dimenticato che repubblichini e partigiani si richiamavano entrambi agli ideali risorgimentali, e che Mazzini campeggiava anche sui francobolli della Repubblica sociale. Certo, la vocazione a crearsi un Risorgimento personale è un vizio antico come l'Italia. E' stato scritto (da Arturo Colombo) che la scuola marxista ha ignorato e contestato il Risorgimento perché preferiva parlare di storia sociale e di grandi ideologie. Alcuni studiosi cattolici, dall'altra parte della barricata, ne hanno parlato come di una maledizione divina. E prima non c'era stato il Risorgimento nazionalistico di Gentile, esaltato dal fascismo?
In realtà, il mito continuerà ad esistere, anche se in tante, diverse e persino contrapposte versioni, finché l'Italia sarà unita. Se invece andrà a pezzi, ci possiamo scommettere: per le future generazioni diventerà l'antimito per eccellenza.

OTTOMILA CAMPANILI PER UNA NAZIONE

La più antica rappresentazione simbolica del nostro Paese è in un affresco realizzato da Cimabue sulla volta della Basilica Inferiore di San Francesco, ad Assisi. Vi si distinguono una serie di campanili, di varie forme, di diversa altezza, di configurazione e struttura differente: sormontati, in uno spazio tra due cuspidi, sulla sinistra, da una parola di sei lettere: YTALIA.
Cimabue è vissuto negli ultimi tre decenni del XIII e i primi anni del XIV secolo. E aveva coscienza dell'unità artistica, civile, culturale della penisola. Ebbene: ancora dieci anni fa, chi avrebbe potuto predire che il fatto-nazione, in tutte le sue dimensioni, sarebbe ridiventato un problema centrale, anzi il più pericoloso e critico, dei dinamismi politici su scala italiana, e persino mondiale?
Ancora oggi molte circostanze cospirano ad oscurare questo fatto agli occhi anche di accorti osservatori. L'internazionalizzazione delle grandi forze economiche, l'universalizzazione delle tecnologie e dei modelli di produzione e di consumo, le reti di informazione unificanti il "villaggio globale" sembrerebbero essere ancora i protagonisti veri della storia di oggi e di domani.
Ma sarebbe cieco non vedere che non solo ciascuno di questi fattori reca l'impronta di questa o quella entità nazional-statale egemonica nel cui seno è cresciuto, debordando poi a influenzare l'insieme delle relazioni mondiali. Ma che, oltre a ciò, quegli organismi complessi e mal definibili di esperienze, di tradizioni, di entità e di ambizioni che sono gli Stati nazionali già formati, e le etnie che aspirano a tale condizione, restano pur sempre i depositari e gli arbitri ultimi della scelta fra la pace e la guerra, fra i processi associativi e quelli dissociativi; ossia, restano i veri protagonisti del processo storico.
La cultura italiana ha cominciato a prendere coscienza di questi temi e a dibatterli. E per prima cosa dichiara il motivo attualissimo che stimola la riflessione: è il fatto che la stessa unità e compagine storicamente formatasi dello Stato nazionale italiano è messa in forse e revocata in dubbio in un cospirare di fattori avversi: le varianti estremiste di un federalismo leghista che talora ha sconfinato nel secessionismo; la crisi generale degli aspetti politici che hanno retto e governato la Prima Repubblica; e infine l'esautorazione del mito resistenziale su cui questa si è fondata, come fattore ancora capace di alimentare un'identificazione comunitaria e cooperativa di un intero popolo di fronte a sfide e incognite fra le più gravi della sua storia travagliata.
Una nazione può cessare di esserlo. La nazione infatti non è una struttura statuale fissa e indistruttibile. Non è neppure un dato etnico disancorato dalle sue politiche storiche. Quando la politica produce inefficienza e corruzione si intaccano i vincoli stessi che tengono insieme una nazione al di là della sua struttura statuale.
Se la Nazione-Stato italiana è giunta a questo discrimine, ciò dipende principalmente dal fatto che le vicende della storia vissuta e sofferta in comune dalle popolazioni della penisola non sono state interpretate e usate dalla cultura politica corrente come giustificazione e fondamento della convivenza democratica, delle sue regole, dei suoi obblighi. Nella cultura italiana odierna la lacuna più grave è l'incapacità di raccontare la storia nazionale in modo da creare identificazione, nonostante, anzi proprio attraverso le sue immense contraddizioni. La storia comune non è diventata momento insostituibile del discorso pubblico democratico.
La causa primaria di ciò sta negli eventi che sono stati prescelti e stabiliti come radici della legittimazione della Repubblica: ossia nel senso reale e nel mito ideologico della Resistenza. Sia l'evento che il mito hanno avuto sempre un'ambiguità indelebile. Ha scritto il Rusconi: "La Resistenza italiana [ ... ] è opera di minoranze guidate da una forte e legittima competizione di parte, nella prospettiva di vincere per poter costruire secondo il proprio modello il nuovo Stato democratico. Per questo essa si attrezza subito in forma partitica". Non solo: la Resistenza è anche e primariamente una guerra civile.
E per di più una delle forze protagoniste di questa guerra, nell'ambito del Chi, mirava a instaurare una forma di società e di Stato che avrebbe negato tutti i valori su cui convenivano i diversi soggetti del fronte antifascista. Questa immanente doppiezza comunista ha sempre reso oggettivamente impossibile al resto del popolo italiano accettare la Resistenza come evento mitopoietico, ossia capace di attualizzare in continuazione se stesso, così da dare immediatamente un senso compiuto e unificante ad azioni e intenzioni del presente, che sono altrimenti confuse, frammentate, contraddittorie.
All'unanimità rituale delle celebrazioni non ha mai corrisposto una forza coesiva di questo mito dell'inconscio collettivo di tutto il popolo italiano. In tutte le espressioni elettorali della sua sovranità democratica, questo ha sempre votato come se l'antifascismo fosse la premessa della democrazia, non il suo equivalente. Per la maggioranza del popolo italiano i reali eventi legittimanti della democrazia furono sempre quelli che avevano escluso dal potere il Pci. Ma intanto quel mito influenzava negativamente la conformazione della Repubblica, impedendo il rinnovamento del sistema parlamentare ereditato dal pre-fascismo, e sacrificando la chiara distinzione dei ruoli della maggioranza e della minoranza e le esigenze di stabilità dell'Esecutivo.
E' un errore, in cui incorre abitualmente la cultura politica italiana, pensare che l'Europa, l'integrazione supernazionale europea, possa essere un sostituto valido di tutte quelle idee spiritualmente coesive, che hanno finora operato quasi esclusivamente nell'ambito delle singole nazioni. Sono gli Stati nazionali che hanno organizzato la scuola e la milizia di massa; che hanno coordinato e regolato, e talvolta protagonisticamente attivato, nei loro ambiti territoriali, i molteplici processi di modernizzazione; che, nel bene e nel male, hanno suscitato nei loro cittadini sensi di appartenenza e di solidarietà che li distinguevano e li contrapponevano a quelli di altri Stati. Sono essi i ricettacoli in cui si è formato il concetto moderno dei diritti civili, e in cui questo si è cimentato con i problemi sempre più ardui della democrazia di massa. E' illusorio pensare che l'Europa transnazionale possa costituire un sostituto totale di queste sedimentazioni vitali di esperienze e di culture, intese anche come insieme di simboli e di reazioni istintive.
Non è difficile scorgere a questo punto le meditate ragioni che ci rendono scettici sulla possibilità di edificare il senso di una piena cittadinanza democratica e partecipativa solo sull'adesione astratta e razionale ai principi di una Costituzione. Quelle correnti della cultura tedesca che hanno sostenuto questa tesi hanno ignorato, come i fatti dovevano dimostrare, la forza incoercibile delle passioni e dei simboli che foggiarono le patrie. E si comprende anche perché, esaminando l'impatto dell'immigrazione sulla cittadinanza nazionale ed europea, alcuni mettono in guardia contro l'illusione che sia non solo possibile, ma facile trasformare le società euroccidentali in melting pots culturali, in organismi multietnici. Il problema enorme che sta davanti a questa parte d'Europa consiste appunto nell'edificare una cittadinanza più ampia e comprensiva, partendo da elementi pre-nazionali e pre-legali terribilmente disparati ed eterogenei.

APPUNTI PER UN PROSSIMO DECENTRAMENTO

UNDICI CAPITALI?

Tutte le strade non dovrebbero "portare a", ma "portar via da" Roma?
Non è cosa da poco pensare a una Roma che si fa in undici, coinvolgendo nel progetto di "capitale reticolare" Torino, Milano, Venezia, Trieste, Bologna, Genova, Firenze, Bari, Napoli, Palermo e Cagliari. I vantaggi? "Recuperare l'efficienza dello Stato; innalzare di rango le città destinatarie delle delocalizzazioni romane, alle quali si apriranno anche nuove possibilità di occupazione". E il tema dovrebbe diventare fin da ora una priorità, perché su questo terreno il nostro Paese accusa pesanti ritardi.
La Gran Bretagna ha cominciato nel 1963, trasferendo da Londra in trentuno anni oltre 64 mila impiegati statali. La Francia è partita alla fine degli anni Sessanta, individuando una serie di città da valorizzare in cui ha fatto convergere grandi funzioni economiche a livello pubblico e importanti attività di ricerca scientifica. In Germania, il processo di delocalizzazione è legato alla nascita della Rft: nella capitale il Governo e il Parlamento, ma molte funzioni nazionali erano decentrate nei vari lander.
Così, sull'esempio inglese, tedesco e francese, la Fondazione Agnelli ipotizza lo spostamento a Milano della Banca d'Italia, della Consob, della Commissione Antitrust, del Garante per l'editoria e della Confindustria; a Torino la presenza del ministero dell'Università e della ricerca scientifica e tecnologica, dell'Agenzia spaziale italiana, dell'Istituto Superiore delle telecomunicazioni, di una rete Rai, dell'Ice e della Telecom SpA; a Genova, del Consiglio di Stato, del Dipartimento per la navigazione marittima del ministero dei Trasporti e della navigazione, dell'Enea, dell'Enit e dell'Ina; a Trieste, dell'Istituto di vigilanza sulle assicurazioni; a Venezia, della Corte Costituzionale, dell'Agenzia per lo spettacolo e dell'Ente cinema; a Bologna, del Cnr, del Consiglio universitario nazionale e delle Ferrovie dello Stato; a Firenze, del ministero dei Beni culturali, dell'Istituto centrale per il restauro, dell'Istituto centrale per il catalogo, dell'Istituto centrale per la patologia del libro, della Discoteca di Stato, dell'Anas, della Società autostrade; a Cagliari, della Corte dei conti, dei servizi amministrativi dell'Alitalia; a Napoli, dell'Inps, dell'Inall, dell'Istituto superiore di Sanità, dell'Istituto di medicina del lavoro e della previdenza sociale, della Finmeccanica e dell'Enel; a Bari, del Coni, dell'Agenzia per l'ambiente, dell'Istituto superiore di fisica nucleare, dell'Aima, dell'Eni, delle Holding; a Palermo, dell'Istat, dei monopoli SpA, dell'Istituto superiore di polizia e della scuola di perfezionamento polizia, della Direzione Pesca del ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali, dell'Agip Petroli.
In complesso, qualcosa come 45 mila persone impiegate dovrebbero lasciare la capitale e trasferirsi. Un piano contro la capitale? Proprio per nulla, sostengono alla Fondazione: nessuno intende spogliare Roma o realizzare rivincite di tipo provinciale. Ma è certo che l'Italia delle cento città ha sprecato finora una quantità enorme di risorse. La corsa a Roma, la retorica romano-centrica, hanno soffocato la capitale, indebolendo nel contempo i centri minori. La realizzazione di un progetto di decentramento-decongestionamento salverebbe una capitale che, cumulando tutte le funzioni nazionali (e internazionali) della Repubblica, è diventata oggettivamente caotica, inefficiente, invivibile. Eppure, Roma è anche il cuore del Cattolicesimo, oltre che una delle mete più ambite del mondo.
Per realizzare il progetto ci vorranno per lo meno dieci anni. A patto, però, che si cominci subito. Sindacati autonomi e sindacati unitari permettendo.


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