A)
Il paradosso dell'invarianza
Nel presentare
le prose di Macrí, abbiamo fatto cenno, più volte, al
carattere autobiografico (e autoironico) che spesso le intride. Abbiamo
indicato, altresì, nella dialettica verità-menzogna
il nucleo più profondo del paradosso dell'invarianza.
Attraverso un impasto narrativo, apparentemente magmatico e informale,
Simeone capovolge, infatti, un codice di convenzioni, di segni, di
messaggi dal cui sovvertimento è possibile, tuttavia, inferire
che l'inverso ordine dei fattori non muta la sostanza delle cose,
proposta la realtà per finzione o la finzione per realtà.
Tema di fondo: la voluptas ... fallendi, ossia il piacere dell'inganno
e dell'autoinganno che si compie, ad esempio, nel farsi, ciascuno,
altro da sé, nel sottrarsi, insomma, alla sola identità
che la vita (o la società) gli impone, nel cercare una fuga
dalla prigione dell'io, mediante un gioco di specchi organico alla
ricerca di una alterità o varco del limite dato dall'esistenza.
Strumentale, in questo spazio dell'illusione, è il mendacio,
alla cui funzione vitale (5ª radice?) si ispira il racconto che
presentiamo. A fornirci una prima chiave di lettura 'filosofica',
è quanto Simeone afferma, quasi in apertura, col solito tono
ironico-enunciativo ben noto al suo "improbabile" lettore:
Nessun contatto
linguistico tra il campo sinonimico criminalizzato della menzogna
[vedi infra] e quello giustificato [ ... ] del sogno (visione, allucinazione,
delirio, vaneggiamento, illusione, fantasticheria, immaginazione,
chimera, utopia, ecc.); col pretesto che la menzogna è la realtà
celata, travisata, deformata con più o meno maligna intenzione,
e il sogno è realtà inventata, affatto soggettiva. Ma
come si deve dire la realtà inventata e offerta come realtà?
Non resta se non menzogna.
Sullo sfondo di
codesta dissacrata verità (imputata anche la letteratura) sembra
esserci la lezione di Pirandello e Svevo, ma, dell'uno, Simeone non
ha l'implacabile logica corrosiva, né, dell'altro, il tono
o, per meglio dire, il demone dell'autoanalisi.
Il protagonista (eteronimo-apocrifo) di queste prose, pur tendendo
allo scavo interiore, come mezzo della sua filosofia, procede, piuttosto,
sulla via del recupero memoriale (in compagnia con l'humour), ora
ridisegnando la vita dell'autore reale alla luce di una vena parodico-satirica,
ora rivisitando i vizi umani con occhio complice che in apparenza
esilara, ma, in realtà, compiange. Funzionale al carattere
antifrastico degli assunti di Simeone è il suo stile narrativo
costantemente trapunto da accelerazioni asindetiche mozzafiato, affidate
a una fuga improvvisa di enumerazioni sinonimico-analogiche, direi
quasi, 'fonosimboliche' della vorticosa e multanime giostra del mondo:
Già, la
menzogna! Nel linguaggio umano, kantiano e ipocrita, o menzogna o
verità; non c'è via di mezzo. Il campo sinonimico della
menzogna è tutto negativo: [ ... ] mendacio, pretesto, bugia,
falsificazione, frode, finzione, simulazione e dissimulazione, balla,
frottola, fandonia, fanfaluca, falsità, panzana, ciancia, bomba,
pezza a colore, bubbola, buggera, fallacia, carota, inganno, impostura,
contraffazione, sofisticazione, apocrifo, ecc.
Insomma gli uomini
esorcizzano il negativo, che è sotteso alla menzogna, nobilitandone
la natura attraverso la sua sublimazione, ossia ricorrendo al sogno
o all'aggettivazione moralistica ("pietosa menzogna") che
confonda, emendando, bugia e verità. Di fatto, la relazione
tra uomo e i fenomeni non ha nessi razionali, fondati sul rapporto
di causa ed effetto, ma misteriosi e bizzarri (1): la parola non può
affermare, può solo fingere, porre interrogativi che scardinano
e, sotto la coltre del consenso, disgregano l'intonaco apparentemente
omogeneo della realtà per rilevarne il non-senso. La logica
millenaria e moralistica della conoscenza fondata sull'antinomia vero/falso
(tertium non datur) è messa in crisi da Simeone, che evangelizza
una terza via, quella 'sveviana' della coincidenza degli opposti,
sicché i fenomeni reali possono essere reciprocamente contraddetti
o moltiplicati all'infinito, in una teoria di segni tutti veri eppure
tutti falsi, perciò probabili, ambigui, polisensi, centrali
e periferici insieme, gerarchicamente ordinati eppure eguali.
In questa specie di cosmo 'simeonico', perfino il tempo ("Da
anni se non da secoli") non ha scorrimento rettilineo né
concatena il "prima" e il "dopo", ma è
presente acrono, speculare all'unità psichica del personaggio
(Simeone), immerso in ciò che accade intorno, epperò
distante, complice del negativo (l'eterodosso, il male), ma segretamente
ad esso ostile, legato ai fatti e, tuttavia, scollato. La memoria
del locutore, ad esempio, colloca i ricordi non secondo un nesso temporale,
matematico. Dinanzi a questa "originalità della vita"
(Zeno), fondata sulla distanza (alterità) tra l'uomo e se stesso,
tra l'io e i suoi dintorni, non resta a Simeone che simulare la "fluidità
della vita" (Svevo), fingendo di regolarla, sicché il
lettore non saprà mai, in codesto giuoco di cause surreali,
dove sia il vero, dove il falso. Parafrasando Vico, si potrebbe dire
verum ipsum falsum!
Simeone, oltreché il sosia dell'autore, ne è la coscienza,
ma quanto più essa si cerca per costruirsi un'unità
sinolica, tanto più s'allontana. L'io narrante è il
doppio dell'io 'vissuto', che può domandare e ironizzare soltanto,
mentre l'altro può sentenziare e rispondere. E allora il 'tempo'
di Simeone è il tempo interno della coscienza (Bergson, Freud),
apocrifo razionalmente e, insieme, puro, sicché, mentre si
simula il recupero memoriale di un evento passato, di fatto lo si
intorbida e falsifica alla luce (o all'ombra) del presente, in funzione
della "fluidità" della vita.
A sostegno della nostra lettura 'sveviana' di questa prosa di Simeone,
oltre al citato esordio, esibiamo un sintagma che ha tutti i crismi
per appartenere a Zeno: "decisi di diventare ed essere vecchio".
E' una scusa che Simeone accampa per esorcizzare il rischio della
brutta figura', non confacente al ruolo di infallibile professore
che il prossimo (la sorella, gli alunni, ecc.) gli riconosce.
E' un atto di comodo (come tanti di Zeno), dietro il quale studiatamente
il locutore si rifugia. E' un fuggire dalla verità dell'alibi
che il mendacio (vitale) gli offre. Come Zeno, Simeone ha liceità
di giocare e di mentire, di apparire e defilarsi nel suo... doppio,
di annodarsi a lui e separarsene. E ancora: all'ordine fenomenico
e convenzionale del mondo, egli oppone le anacronìe della memoria,
al sinolo del messaggio, la sua fissione. Come Zeno, Simeone convive
con la sua irregolarità, cui fa da controcanto il 'regolare'
Macrí, professore emerito, serissimo e rispettabilissimo.
Dicevamo del mixage bugia-verità. Tale 'confusione' è
provata da Macrí... in corpore vili, cioè sulla sua
stessa esperienza, attraverso il ricorso alla memoria e alla fantasia,
come esige l'apoftegma di Nietzsche epigrafato in esergo al racconto.
Eccone qualche esempio: la bugia (fingere di sapere) rifilata alla
sorella che gli chiede come si chiami la moglie di Napoleone; la storia
picaresca che vuole il locutore rapito da girovaghi circensi al tempo
della sua fanciullezza in una Maglie arcaica come il Salento, evocato
attraverso segni emblematici e millenari ("Solevo esaltare ad
alunni ed amici il mio Salento con il faro di Leuca, chiesa di Santa
Caterina a Galatina, Santa Croce di Lecce, cattedrale di Otranto con
mosaico e scheletri di Martiri, isola gallipolina, menhir, ulivi giganti
[ ... ], cripte bizantine, grotta Zinzulusa, castelli e torri [ ...
] di Carlo V'); la 'situazione' comico-realistica che ha per scena
la "macchina nuova e fiammante" presa d'assalto, in un momento
di particolare imbarazzo, da una "gentile signora amica di famiglia";
il "mendacio come legittima autodifesa", imposto dall'educazione
e dalla convivenza condominiale.
Ma a fare da passe-partout a siffatta, esile trama di minimi memoriali
che ci presentano un personaggio (il locutore) dai tratti sveviani
(medesima la 'comicità' di Zeno a fronte di situazioni impreviste
che ne impegnano la fantasia o ne obbligano la menzogna) èl'impianto
'filosofico' del racconto. Il serio, il faceto, il grottesco cospirano
a smascherare una disillusa visione del mondo prospettata sotto la
specie del ludo narrativo, come più volte abbiamo tentato di
dimostrare analizzando la scrittura creativa di Macrí, la quale
resta altra e medesima rispetto alla pagina critica.
E' una prosa contigua alle cose rovesciate nelle loro più segrete
corrispondenze, secondo il dettato dell'intelligenza simbolista (e
neosimbolista). Il 'movimento' è vario, imprevedibile, sussultorio,
omologo della friabilità del reale: nomenclature, irrealtà,
paradossi, improvvisi rimandi, fissazioni, digressioni multiple e
avvitate in se stesse reciprocano analogicamente fatti, tempi, situazioni.
Centrale, in tutto questo, l'autoinganno. Prima vittima di codesta
sua critica del mondo, l'autore reale, ossia il narratore:
Vieppiú
scanso le rubriche degli indovinelli e delle domande culturali, specie
se intendono misurare il grado d'intelligenza e sapere. Eppure, sono
solo con me stesso [ ... ]. Ciò spiega probabilmente che non
siamo soli, ossia siamo provvisti di piú anime, che si sorvegliano
a vicenda; e in particolare ci accompagna sempre il sosia o l'ombra,
che è terribile e implacabile.
Eppure, quel rimedio,
l'autoinganno, è il plasma stesso della attività letteraria.
Assioma provato, ancora una volta, in corpore vili:
Simeone, ad es.,
scrive qualche racconto fantastico e, mentre lo scrive, finge che
sia vero; si autoinganna, ma per continuare a scrivere ['vivere'],
[ ... ], per plasmare i mostri umani di Schibalopoli. (2)
Occorre, paradossalmente,
il mendacio (e la letteratura ne è la forma più nobile)
per dire la verità (Prokosch), così come raddoppiarsi,
farsi altro, è quasi una necessità biologica, rimovendosi,
attraverso un meccanismo omogeneo al transfert, una condizione inibitoria
e negativa. O si metabolizza in altra, positiva, che, per quanto vana,
si presenta come reale:
Il complesso del
mendacio fa parte di un complesso maggiore: dall'essere altro, avere
un'altra patria, un altro padre, sortire da sé. Gérard
de Nerval si reputava figlio di Napoleone. E l'essere altro si esprime
nell'area mediterranea con lo spirito migratorio.
Segue una riflessione
su esso spirito, in cui si scopre il carattere vitale di quello che
Macrí chiama amor loci (nel suo caso, Maglie), il quale "dà
un senso alla vita", sicché l'emigrante "racconta,
al ritorno, cose vere [ ... ] e menzogne, e mentre le racconta [ ...
] non le distingue". Allora, come il celebre personaggio (anch'egli,
guarda caso, meridionale!) di Alphonse Daudet, diventa gloria e mito
collettivo per la piccola patria. Ma, accanto alla esemplarità
folklorica dell'emigrante, occorre un'altra, questa volta illustre
(è la solita tecnica simeonica del contrappunto), che chiama
in causa la teoria della letteratura facendo uscire allo scoperto
il vero oggetto della "didattica" macriana:
Nella lista dei
sinonimi di mendacio, ho collocato anche l'aggettivo apocrifo, che
significa, come è noto, libro non riconosciuto come canonico,
ovvero secondo il canone delle Scritture rivelate [ ... ]. Tale significato
negativo è relativo nei confronti di una determinata autorità.
L'invenzione del termine, in senso positivo, è avvenuta ad
opera di Antonio Machado.
E qui inizia la
'lezione' sull'eteronimo, referenti Jung (che scoprì "persone
frammentarie nel nostro inconscio"), Unamuno e Pirandello ("circa
la disgregazione della personalità"), ma, soprattutto,
Pessoa ("irradiatosi in più persone poetiche"), teorico
dell'alibi infinito, con autoproiezione negli eteronimi dello scrittore
lusitano e negli apocrifi, l'uno conseguenziale e radicale dell'altro,
di Machado ("quasi una quarantina, ridotti infine a due, il maestro
Abel Martín e il discepolo Juan de Mairena").
Il tono narrativo,
a questo punto del racconto, s'impenna in direzione teorico-speculativa:
Il concepimento
di questi personaggi apocrifi si proietta su una concezione generale
di una storia apocrifa dell'umanità, come sarebbe dovuta accadere
[ ... ] sì che l'accaduta è, essa sì, letteralmente
apocrifa [ ... ]. Si aggiunga l'inversione dell'autore col personaggio,
che inventa l'autore, come per Unamuno don Chisciotte, il quale, subito,
gli prende la mano e detta le sue imprese a Miguel de Cervantes.
Sullo stesso piano
del ribaltamento dei canoni (ne abbiamo riferito, in via preliminare,
all'inizio di questo intervento), oltre ai citati autori iberici,
vengono collocati, da Macrí, i nostri Pirandello, con i Sei
personaggi, e Manzoni "trascrittore" dell'anonimo "dilavato
e graffiato autografo". Ma quando il percorso espositivo sembra
aver imboccato definitivamente la via del magistero critico-letterario,
ecco riproporsi, con abrupto colpo d'ala, il consueto humour dell'autore
nelle parole di Simeone, che rivendica a sé il diritto di eponimia,
sentendosi, egli, "molto più reale e vero dentro l'oggetto
prodotto". Segue una sorta di appendice al racconto... nel racconto,
dove si spiega la heideggeriana "dimensione di estraneità"
attraverso la natura dell'emigrante, ossia la sua ricerca di alterità,
archetipo... l'Ulisse dantesco:
Odisseo tornò
in patria obbligato dalla fabula [si osservi lo straniamento], ma
Dante lo aveva capito bene con l'ultimo e definitivo naufragio, colpevole
di "virtude e conoscenza".
Al sublime del
mito o universale fantastico, fa da controcanto l'umile quotidiano
della realtà simeonica; alle menzogne dell'eroe omerico, ai
suoi espedienti ("ciascuno, infine, ricorda bene di quante arti
menzognere egli si serva nel poema omerico: perfino stando a sedere
si fingeva alto di statura") fanno eco, con sensibile escursione
tonale, gli escamotages del nostro autore:
come tentava il
corto Simeone nella sua cattedra di Ginnasio inferiore [ ... ]; andando
a passeggio coi suoi amici altissimi, procedeva avanti di gran carriera.
Questa tecnica
del contrappunto non solo attiene al registro figurale (eroico vs
umile; sublime vs quotidiano) ma anche a quello stilistico (aulico
vs folklorico; illustre vs popolare; arcaismi vs neologismi).
E qui s'affaccia un altro tema, sottilmente amaro, che ci riporta
a quella matrice autobiografica cui accennavamo all'inizio. Il tema
dell'impossibile ritorno, del nostos e relativo dolore (nostalgia),
anch'esso sublimato dalla poesia greca arcaica (Oi nóstoi):
Così Ulisse
era sempre l'altro da sé [ ... ]. Chi parte non torna indietro,
voglio dire in spirito, anche se torna vecchio a passeggiare nella
piazza centrale di Maglie, con la statua della benefattrice Francesca
Capece nel mezzo, che accarezza un bambino; tra l'altro non riconoscerà
nessuno, né sarà riconosciuto; tutti morti e lui vivo
ancora, per caso e per poco.
Segue un terzo
'tempo' del racconto: quello analogico-esemplificativo dell'archetipo
odisseico, ossia del non ritorno, nel quale si stemperano i casi di
altri 'esuli' (Gatto, Sinisgalli, Quasimodo, Bodini, De Libero, Sereni,
Penna, Bertolucci, Pasolini), disconosciuta o interdetta la dimora
vitale per loro incorporazione nella seconda (dimora), eletta o casuale.
Non ne esce, però, sconfitta la tesi macriana della prima radice.
Anzi. Essa è confermata nella sua natura archetipa e complessa.
Il mendacio (disconoscimento della prima dimora) è vitale al
pari di essa, cibelica mater, anche quando è aliena o perduta
alla vita.
(VI - continua)
NOTE
1) Si veda O. MACRI', Teoria e prassi degli oggetti smarriti, in "Sudpuglia",
XIX, 3, settembre 1993, pp. 106-111.
2) O. MACRI', Schibalopoli (resoconto al parlamento marziano), in
"La collina", VII, 14/15, gennaio-dicembre 1990, pp. 30-36.
B) I racconti di Simeone / Oreste Macrí
SKETCH SUL MENDACIO
O DELL'ESSERE ALTRO
"La menzogna
esige memoria e fantasia"
F. NIETZSCHE (Umano troppo umano)
Da anni, se non
da secoli (giacché questo pezzo ha a che fare col sonno quindi
col sogno acrono), prima di addormentarmi leggo, acquistata ogni settimana,
appunto, La Settimana enigmistica, perfettamente uguale da quando
è nata più di 60 anni fa per più di tre migliaia
di numeri; la pagina di "Forse non tutti sanno che..." è
pervenuta quasi al numero 18mila. Non so se esistono edizioni digitali
o auditive per minus vedenti, che sarebbe il mio caso. Tale costante
e infinita reiterazione, pur o forse perché ludica e passeggera,
si fa immagine dell'eterno, sí che supera qualunque pozione
di soporifero o tranquillante agli effetti di una placida sonnolenza
verso il sonno totale e beato.
M'intrattengo sulle vignette, curiosità e freddure, esercitandomi
sul motto di spirito, pur rarissimi gli indovinati ed eccelsi, non
meno rari e falsi della Divina Commedia o del Don Chisciotte. Specie
quando si tocca un archetipo come quello della Vergine e del Bambino;
e un bambino smarrito e piangente ferma un passante e gli chiede:
"Signore, ha visto una signora senza di me?".
Tento anche qualche rebus, lucchetto, incastro, anagramma, sciarada;
subito interrompendo se non mi riesce, quasi a rimandare la soluzione.
Cosí evito, pur sogguardando in tralice, i giochi enigmistici
riservati ai bambini per paura e vergogna di non farcela, con la scusa
che saranno facilini, epperò non ne vale la pena; sentimento
io credo omologo a quello del misogino. Vieppiú scanso le rubriche
degli indovinelli e delle domande culturali, specie se intendono misurare
il grado d'intelligenza e sapere.
Eppure, sono solo con me stesso e, certo, non mi metterei a confessare
al primo condomino incontrato per le scale di non aver saputo cavarmela.
Ciò spiega probabilmente che non siamo soli, ossia siamo provvisti
di più anime, che si sorvegliano a vicenda; e in particolare
ci accompagna sempre il sosia o l'ombra, che è terribile e
implacabile; dietro di noi, fallita la soluzione della domandina culturale,
ci sghignazzerebbe: "Ma che professore emerito e nomato critico
dei miei stivali, ella è?".
La stessa Settimana enigmistica mi ha giocato qualche scherzo ingrato.
In anni lontani, risiedendo a Maglie per un quadriennio di professore
di ginnasio inferiore (umiliante denominazione placata alquanto dalla
posteriore di scuola media), circolava nelle case detta rivista, frequentata
specialmente nella rubrica delle "Parole crociate". lo passavo
tra i miei familiari e amici per un quasi onnisciente. A un certo
punto mia sorella improvvisamente mi chiese: "Come si chiamava
la seconda moglie di Napoleone?". Li per li non mi sovvenne:
"Scusami, torno subito. Mi scappa la pipì". Passai
dallo studio, cercai nell'Enciclopedia Pomba; tornato risposi. Nessuno
dubitò di nulla. E dire che per un decennio quella duchessa,
la Maria Luigia, me la trovai tra i piedi per tutta Parma, dove mi
trasferii, sempre professore di ginnasio inferiore (umiliante denominazione,
ecc.). Per la verità era la terza, la prima una creola sposata
civilmente.
La fortuna mi assistette, ivi stesso. Usavo spronare i miei alunni
a chiedere, chiedere sempre; e per loro io ero più che onnisciente.
"Professore, che cosa è l'ingressa in questo racconto
dell'antologia?". Restai spiazzato. In un istante pensai al verbo
latino, ingredior, entrare. "Forse è l'introito",
pensai, ma non ero sicuro. "Ma che autore è questo",
bofonchiai fra me. Per fortuna, nello stesso istante bussò
ed entrò il bidello. "Il signor Preside vi desidera"
(tempo del voi, naturalmente). Presi la palla al balzo e uscii; d'altronde
gli alunni mi sapevano rigoroso e diligentissimo.
Esaurito il Preside, passai nella sala dei professori, così
detta, e cercai rapidamente in un dizionario ivi esistente, per fortuna.
Era proprio l'introito; mi congratulai meco. Da salentino potevo scusare
me stesso; rito ambrosiano l'ingressa; né bizantino né
romano. Comunque, mi restò il dispetto, si che ho scordato
il nome dell'autore di quel racconto.
Solo il 10 febbraio 1963, nel mio cinquantesimo compleanno, decisi
di diventare ed essere vecchio, pretesto probativo e ineccepibile
di labile memoria, restando saldo il mio puerile e antico complesso
d'orgoglio, padre del mendacio. Né mi sono mai corretto, pensando
che un complesso scaccia l'altro, voglio dire peggiore. Oh, se il
Padreterno potesse farci scegliere tra i complessi!
Già, la menzogna! Nel linguaggio umano, kantiano e ipocrita,
o menzogna o verità; non c'è via di mezzo. Il campo
sinonimico della menzogna è tutto negativo: menzogna, mendacio,
pretesto, bugia, falsificazione, frode, finzione, simulazione e dissimulazione,
balla, frottola, fandonia, fanfaluca, falsità, panzana, ciancia,
bomba, pezza a colore, bubbola, buggera, fallacia, carota, inganno,
impostura, contraffazione, sofisticazione, apocrifo, ecc.
Per positivizzare tale sempre presunto crimine, bisogna aggiungere
un aggettivo, come nel ridicolo ossimoro "pietosa menzogna".
Trasmissioni televisive si son guardate bene dal tradurre con finzione
l'inglese fiction, narrazione, novella, romanzo, ecc. Peggio gli aggettivi,
specie in -one o -ista: bugiardone, fintone, parobalone, sballone,
falsone, ballista, ecc.
Nessun contatto linguistico tra il campo sinonimico criminalizzato
della menzogna e quello giustificato d'estro o infermità, del
sogno (visione, allucinazione, delirio, vaneggiamento, illusione,
fantasticheria, immaginazione, chimera, utopia, ecc.); col pretesto
che la menzogna è la realtà celata, travisata, deformata
più o meno con maligna intenzione, e il sogno è realtà
inventata, affatto soggettiva.
Ma come si deve dire la realtà inventata e offerta come realtà?
Non resta se non menzogna. Voglio dire realtà accaduta, vera,
non impressione di realtà, come nel racconto fantastico o utopistico,
che tale si rivela sin dalla prima parola. L'ascoltatore o lettore
sa che non è vero, ma finge a sua volta che lo sia, sta al
gioco, talora è travolto dalla finzione, svegliandosi a tratti.
Il mio Simeone, ad es., scrive qualche racconto fantastico e, mentre
lo scrive, finge che sia vero; si autoinganna, ma per continuare a
scrivere, ad es., per plasmare i mostri umani di Schibalopoli.
In una lezione universitaria mi accadde di fare un salto mortale,
per mostrare una figura dell'eterno ritorno vichiano o nicciano. Altra
volta scossi l'orecchio sinistro, di che sono per natura capace, al
fine di destare l'alunno toro seduto o mostrare l'auscultazione del
ritmo poetico. Essendo note queste mie abilità, oltre al mio
passo di corsa (allora, ora non più o per non cadere), solevo
raccontare come da ragazzo ero stato rapito da un piccolo circo equestre
di passaggio per la mia cittadina di Maglie salentina, in esso circo
essendo addestrato in esercizi e giochi circensi; si che, innamorato
di quella vita, mi ero sottratto alla caccia dei carabinieri sguinzagliati
a istanza del mio povero padre terrorizzato per la mia scomparsa.
Alla fine mi trovarono e, controvoglia, dispiaciutissimo, rientrai
in famiglia. Da bambino l'incanto del circo mi aveva pervaso corpo
e anima sognanti essa realtà. In gruppo di amici spiavamo quei
loro usi e costumi, che ci apparivano liberi e fraterni tra loro umani
animalizzati e con gli animali umanizzati in un ritmo precipite di
festa continua, partendo sempre di paese in paese, in stretto e allegro
contatto col pericolo e con la morte. In quei tempi nessun sintomo
o avvisaglia ancora della retorica vegetariana, buddista, verde, animalista,
ecc. Cavallini, elefanti, cagnolini, tigri ammaestrati ci sembrava
che si divertissero pure loro, felici. Questa la superficie, la menzogna,
direbbe il Catone di turno, che ha sempre ragione, o meglio ha torto
di aver ragione, come Alfonso Gatto mi redarguì dopo che lo
ebbi messo con le spalle al muro in una acerba discussione; di che
mi pentii.
Solevo esaltare ad alunni e amici il mio Salento con il faro di Leuca,
chiesa di Santa Caterina a Galatina, Santa Croce di Lecce, Cattedrale
di Otranto con mosaico e scheletri di Martiri, isola gallipolina,
menhir, ulivi giganti quasi millenari, cripte bizantine, grotta Zinzulusa,
castelli e torri 'telegrafiche' di Carlo V (come la Torre Mozza (1)
di Boccadamo) e altre bellezze di quella mia amatissima terra sempre
sognata da me emigrante.
Accadde che Elisa Aragone, mia dilettissima allieva e quindi collega
(prima tesi di laurea guidata e discussa), contagiata da tanto amor
patrio e descrizione di quei siti, insieme con suo marito, carissimo
amico, il Maestro organista e compositore Clemente Terni, presero
il treno e pervennero a Maglie, mia città natale. Visitarono
il Salento e tornarono entusiasti. Ma un piccolo episodio rimase alquanto
storto, ch'io tentai di raddrizzare come potei. Discorrendo con mia
sorella Bianca, la signora Elisa ebbe a ricordare la mia attività
professorale e saltò fuori la storiella del rapimento a opera
di quel circo equestre. Mia sorella, scoppiando a ridere, esclamò:
"Cara Elisa, non credere un accidente di quello che racconta
mio fratello; al massimo un tre per cento, se non uno". Al che
Elisa li per li rimase trasecolata e delusa, giacché aveva
sempre giurato in verbo magistri! La quale al ritorno, un po' divertita,
donna di spirito, mi accennò la cosa con discrezione. Cercai
di rappezzare come potei: "Veda, Elisa; gli è che di quel
rapimento mio Padre non volle che se ne parlasse, anzi non se ne accennasse
mai più, come uno scorno subito dalla famiglia e ch'io fossi
rimasto corrotto, giacché in quelle mie terre, pur entusiaste
dei circhi, erano molto sospetti usi e costumi di tale gente: si vociferava
di sparizioni di bambini, ballerine e acrobate, prostitute, sabbia
d'orine e cacche di cavalli ed elefanti sino alle cucine, strani linguaggi
incomprensibili, e altro di questa fatta".
Nell'ascoltarmi, un lieve sorriso aleggiò sul volto di Elisa,
e non se ne parlò più.
Pertanto, il complesso del mendacio fa parte di un complesso maggiore:
dell'essere altro, avere un'altra patria, un altro padre, sortire
da sé. Gérard de Nerval si reputava figlio di Napoleone.
E l'essere altro si esprime nell'area mediterranea con lo spirito
emigratorio, non sufficiente il motivo della miseria, anzi subordinato,
se l'umanità è tale e non un meccanismo di pasti e budella.
Partono per primi i più posseduti e avventurosi, e affascinano
i parenti che li seguono: il gioco è fatto lungo umane correnti
secolari.
La mia Maglie industriosa da un secolo ha sempre i suoi 14.000 abitanti.
Ad es., gli sguizzeri (sarebbero gli emigranti in Svizzera) tornano
anziani; intanto si sono fatti la casa; nel contempo i figli e i nipoti
partono o sono partiti. Lo spirito emigratorio dà un senso
alla vita, acuisce l'amor loci, anzi lo raddoppia nel caso l'emigrante
s'innamori della seconda patria. E così ama se stesso, donde
secondo il Levitico ama il suo prossimo, anche se resta lui stesso.
E poi racconta al ritorno cose vere e ... menzogne, e mentre le racconta
ai compaesani, non le distingue. Cosí s'intreccia una trama
complessa di racconti fino ai figli dei figli. Ne gode anche chi è
restato, giacché è emigrato pure lui senza saperlo.
Accennavo che la povertà non è l'unico e il primo motivo
dello spirito emigratorio. Certamente esiste una relazione tra corpo
e anima. L'avventura o libido dell'essere altro fomenta i succhi gastrici
all'ora x, si che il desiderio si tende verso il suo oggetto misterioso,
enigmatico. Si ha più fame e più sete. Pane e cipolle
non bastano più, né l'acqua della cisterna, né
il vinello spremuto con le pedagne. L'anima ha svegliato il corpaccione,
che a sua volta sveglia ancor più essa anima, e in questo circuito
magico l'uomo mediterraneo una bella mattina si sveglia e parte. S'accrescono
e ribollono i succhi gastrici, ormoni, varie linfe, liquidi salivari
e spermatici, cellule neuroniche; Albanesi stregati dalle nostre Tv;
e l'uomo è già altro, quanto più incubato per
millenni nella sua stasi tellurica e arcaica. Balza come un pulcino
dall'uovo. E finalmente va verso la morte che non teme più,
e gli si è convertita in vita. O Natura troppo generosa e ottimista!
La fenomenologia del pretesto che occulta o svia il mendacio è
innumerevole. Vi racconto l'ultima e non se ne parli più. Andavo
in macchina con la 125 nuova fiammante, quando mi occorse una flatulenza
(detta piritu in salentino, più latino il pidditu calabrese
che è anche un fungo) di cui non rammento la causa, del resto
trascurabile ed estranea al pretesto. Improvvisamente (tralascio anche
i luoghi e loro particolari pure essi accessori) mi si parò
quasi davanti una gentile signora amica di famiglia:
- Dottore, per cortesia, debbo raggiungere in fondo a questa strada
l'asilo della mia figliola ed è un po' tardi. Se mi può
accompagnare".
Mi vidi perduto. Avevo già arieggiato l'abitacolo, ma permaneva
l'effetto o come si voglia dire. Ripresomi dallo smarrimento, feci:
- Signora, mi aspetti qui a lato un paio di minuti, faccio il giro
e torno subito. Ho dimenticato una ricevuta che debbo consegnare e
lo sportello chiude tra poco...
Non trovavo altro pretesto o scusa se non tale generica e confusa,
ma credibile dall'affanno con cui l'avevo espresso.
La signora consentì, si scostò e si mise ad attendere
di fianco alla strada. Ingranai, sgommando partii e svoltai subito
per non essere visto, scesi, spalancai le quattro portiere, perfino
soffiando... Tornai sorridente e premuroso.
- Dottore, vedo che è un po' sudato. Si, è caldo, ma
è bella e ariosa questa sua vettura. -Facciamo in tempo entrambi,
- dissi e tacqui un po' stremato.
E ora, benevolo Lettore, dimmi, di grazia, dove sta il crimine del
mendacio in quanto m'è occorso? L'ectoplasma del mio lettore
mi apparve nello specchietto e mi consolò:
- Simeone, pur io mi sto scervellando per trovare il termine morale
adatto. Forse la tua è stata legittima difesa da un'imboscata.
Altri esempi, questi reali, del mendacio come legittima autodifesa,
condizionata da una situazione oggettiva, sono i seguenti della mia
autobiografia in area condominiale. L'appartamento del condominio
è ombra di una vera e propria fortezza, anzi antico castello
medievale con più o meno immaginari bertesca, cassero, feritoia,
merli, ponte levatoio, pusterla, caditoia, botola, cannoni e muta
di cani feroci. In esso condominio il padrone è signore assoluto,
principe, conte, burgravio, perfino vassallo di se medesimo. In ben
tre appartamenti del mio stabile solevano urlare impreveduti, ringhiando
a squarciagola di giorno o notte, tre cagnuoli, uno a testa, in ragione
inversamente proporzionale al loro minimo corpicciattolo, colpendo
impietosamente il mio plesso solare, mente e intelletto. Talora di
notte la mia mano fantasticamente s'armava d'affilato pugnale al fine
di sgozzarli nel pieno delle loro urla. Presentarmi innocente, puro,
a quei loro padroni? Ma scherziamo? Non mi restò se non il
mendacio. Suonai, accostai alle porte con faccia e gesto d'occasione
verso ciascuno di lor padroni accusando lacerazione del timpano, anzi
mi ero munito di batuffoli di cotone ben visibili all'inizio del condotto
auditivo. Subito trovai comprensione, affetto, anzi scuse e perfino
sincronia d'essere pure loro molestati da esse strida! Non che quei
satanici cagnuoli non imperversino ancora, ma insomma un po' meglio;
e il po' meglio è già molto in questo triste universo.
D'un analogo mendacio mi sono servito per il cancello chiuso, d'accesso
ai garagini, anche di giorno, pur giusto di notte. Fatica d'approssimarsi
con auto in salita, scendere, aprire, risalire, richiudere, più
volte. Mio mendacio l'artrosi, anzi ernia del disco non operabile.
Cosí i buoni condomini stanno in vedetta e, se esco, il cancello
viene aperto e rinchiuso. Amen. Spero che non leggano questo mio raccontino;
non perché siano analfabeti. Comunque, come ho detto altrove,
"condominis nihil occultandum", compresa la menzogna verniciata
di realtà.
Nella lista dei sinonimi di mendacio ho collocato anche l'aggettivo
apocrifo, che significa - come è noto - libro non riconosciuto
come canonico, ovvero secondo il canone delle Scritture rivelate;
in parole povere, spurio. Tale significato negativo è relativo
nei confronti di una determinata autorità. L'inversione del
termine in senso positivo, anzi ultrapositivo, è avvenuta ad
opera di Antonio Machado, esperto della psicanalisi freudiana insieme
col fratello Manuel nel loro teatro di autori inseparabili e indistinguibili,
se non in minima parte; una sorta di superpersona. Ho accennato alla
composizione plurianimica del nostro sinolo corpo-anima. Jung è
andato oltre, scoprendo persone frammentarie nel nostro inconscio.
Basta ad esse dare un nome e un curriculum vitae dalla nascita alla
morte, conferire loro sentimenti, concetti, opere, e la persona apocrifa
è conclusa. Dietro c'erano gli esempi insigni di Unamuno e
Pirandello circa la disintegrazione della personalità. Il caso
più strepitoso è stato quello di Fernando Pessoa irradiatosi
in più persone poetiche con caratteri propri d'estrema coerenza
individuale, artistica e vitale: sono i suoi eteronimi, ciascuno autonomo.
I suoi, Antonio Machado li denominò apocrifi in enorme gestazione
e produzione fino quasi a una quarantina, ridotti infine a due, il
maestro Abel Martín e il discepolo Juan de Mairena, da aggiungere
lo stesso Antonio Machado apocrifo di un apocrifo, nonché la
sua Beatrice o Laura, chiamata Guiomar, al secolo una modesta poetessa,
Pilar de Valderrama; quindi apocrifa dell'apocrifo di un apocrifo.
Il concepimento di questi personaggi apocrifi si proietta su una concezione
generale di una storia apocrifa dell'umanità come sarebbe dovuta
accadere, reale e vera, si che l'accaduta è, essa si, letteralmente
apocrifa, ossia falsa e spuria! Si aggiunga l'inversione dell'autore
col personaggio, che inventa l'autore, come per Unamuno Don Chisciotte;
il quale subito, gli prende la mano e detta le sue imprese a Miguel
de Cervantes, soppiantando il supposto Cide Hamete Benegeli.
In Pirandello, addirittura, alcuni personaggi in stato brado e orfano
vanno in cerca d'un autore. Dimenticavo don Alessandro trascrittore
di quel "dilavato e graffiato autografo".
In tal guisa si può spiegare la relazione tra me, Simeone,
e il dottor Macrí, pur con qualche complicanza, data da un
certo rapporto discontinuo secondo i vari racconti che andiamo producendo
dalla Milogna in qua. Alcuni sono solo suoi, altri sono miei, altri
in collaborazione. Resta però che io, Simeone, in quanto apocrifo,
mi sento molto piú reale e vero dentro l'oggetto prodotto.
Se i nostri racconti saranno riuniti e pubblicati, esigo che vadano
tutti sotto il mio nome nel frontespizio, giacché, se hanno
qualche valore, significa che sono impregnati di simeonismo, anche
quelli composti dal dottor Macrí, il quale mi avrà imitato.
L'altro non sarà mai il medesimo.
Purtroppo debbo confessare che la storiella della flatulenza è
inventata ovvero è apocrifa, ma negativa in quanto poteva accadere
e non doveva. E' un caso di menzogna.. menzognera, diciamo alla seconda
potenza; una menzogna dentro una menzogna. Immaginiamo che sia accaduto;
solo nella sua auto il conduttore potrà pensare: "Meno
male che sono solo". Di qui scatta il racconto a mezzo della
menzogna, che costruisce l'ectoplasma di quella signora, ecc.
Dicevo dello spirito emigratorio. Heidegger, citato dal filosofo Sergio
Givone nella sua laterziana Questione romantica, cosí commenta
il corso su Hölderlins Hymne "Andenken".
"Il viaggio per mare porta nell'estraneo, ma ciò che distoglie
dal pensare alla patria è precisamente l'amore per essa, che
si nutre del coraggio di dimenticare.
Il pensiero pensa l'abbandono, pensa la patria abbandonata in quanto
abbandonata; ma cosí accade che nell'estraneo si lasci vedere
l'altro, "l'altro dell'estraneo", il "proprio".
Proprio, infatti, è l'altro raggiunto in quella dimensione
di estraneità e sconfinamento verso la quale si va ma dalla
quale, propriamente, si proviene".
Heidegger, evidentemente era un brav'uomo ottimista hegeliano in questa
criptoidentificazione dialettica del proprio e dell'altro. In effetti,
l'emigrante (il primo e chi si fa primo, se anche parte dopo) diventa
assolutamente altro, e il proprio originario è perduto per
sempre, è un alibi, un pretesto colorito sentimentalmente di
nostalgia italica o anoranza spagnola o saudade portoghese o longing
britannica, ecc. Finge di amare e ama la patria per non fallire, intensificando
l'impegno, il lavoro. Odisseo tornò in patria obbligato dalla
fabula, ma Dante lo aveva capito bene con l'ultimo e definitivo naufragio,
colpevole di "virtute e canoscenza", colpevole solo di essere
uomo al limite della impossibile Grazia. Avvolto in una fiamma insieme
al suo degno compare Diomede, è conficcato nelle Malebolge
per le sue frodi, da aggiungere al campo sinonimico del mendacio.
E Dante elenca tre misfatti, ben giustificati o giustificabili.
Il secondo è un caso di doppia menzogna: Achille amoreggia
con Deidamia travestito da donna e i due, travestiti da mercanti,
ne ridestano lo spirito guerriero mostrandogli delle armi, si che
l'eroe abbandona la fanciulla in lacrime. Quanto al primo inganno
dell'"agguato del caval", ne consegue "de' Romani il
gentil seme", fuga di Enea e fondazione di Roma! Quanto al rapimento
della statua di Pallade, i due la furarono per sottrarre ai Troiani
la di lei protezione. Si era in guerra. Per cui non si capisce per
quale motivo tale campione umano di ingegno e magnanimità,
padre Dante lo abbia collocato giù nell'Inferno e non nel Limbo
dei magni spiriti pagani. Ciascuno, infine, ricorda bene di quante
arti menzognere egli si serva nel poema omerico; perfino stando a
sedere si fingeva alto di statura, come tentava il corto Simeone sulla
sua cattedra di Ginnasio inferiore (denominazione umiliante, ecc.);
andando a passeggio coi suoi amici altissimi, procedeva avanti di
gran carriera (Traverso, Bo, Luzi, Bigongiari, Parronchi ... ).
Così Ulisse era sempre l'altro da sé e il suo proprio
era tale altro. Chi parte non torna indietro, voglio dire in spirito,
anche se torna vecchio a passeggiare nella Piazza centrale di Maglie
con la statua della benefattrice Francesca Capece nel mezzo, che accarezza
un bambino; tra l'altro non riconoscerà nessuno né sarà
riconosciuto; tutti morti e lui vivo ancora per caso e per poco.
Non sono più tornati: Alfonso Gatto (detto Affò), Leonardo
Sinisgalli (detto Narduccio, sempre al suo paese), Salvatore Quasimodo
(Totò), Vittorio Bodini (il gitano), Libero De Libero, Vittorio
Sereni, Sandro Penna, Attilio Bertolucci (Bertoldo), Caproni, Vittorini,
Montale: rispettivamente a Salerno da Milano e Firenze, a Montemurro
da Milano e Roma, a Modica da Milano, a Lecce da Roma, a Fondi da
Roma, a Luino da Milano, a Perugia da Roma, a Baccanelli di Parma
(podere venduto) da Roma, a Livorno da Genova e da Roma, a Siracusa
da Firenze e da Milano, a Monterosso, idem.
Giacché il poeta è la sua stessa poesia, e la poesia
è tetica o antitetica, che è la stessa cosa, giammai
dialettica nella loro sintesi. Si aliena e non si ricostituisce, non
si fonde col suo contrario, e, se balza nel contrario, non si dilettizza
col medesimo. Il caso più strepitoso fu quello di Pasolini
che, romanizzato, dimenticò Casarsa e il friulano; gli bastava
la mamma che si portò dietro. Anche Cardarelli disse peste
e corna della sua Tarquinia.
Accade che il poeta resti dove più o meno è nato, ma
l'anima vive e abita nel paese eletto; così il fiorentino Luzi
senese, Bertolucci risale agli antenati maremmani, Bodini spagnolo
col pretesto (mendacio!) di quel barocco, etrusco era Caproni, Landolfi
longobardo, Bigongiari viaggia stando seduto (in macchina o in albergo,
e intanto scrive sempre), Jorge Guillén fiorentino, anzi planetario,
Rafael Alberti messicano, argentino, cinese, romano, ecc., col pretesto
dell'esiliato (pretesto vero!). Il dottor Macrí si finge greco,
finzione vera!, dato che i suoi avi furono cacciati dalla Ionia, dove
resta un'isoletta Macrí, e un omonimo Oreste Macrí è
stato un grande attore ateniese. Il poeta lucchese Stefano Coppola
si salentinizzò completamente.
A questo punto il mio improbabile Lettore dirà: "Simeone
poteva ricordare", "Simeone si è scordato di
ecc.,
"Simeone non tiene conto delle eccezioni; ad esempio
ecc.,
"Simeone non si ricorda di Dante che cospirava per il suo bel
San Giovanni".
Ma sí, la dimora vitale resta la prima radice della poesia;
solo che è difficile investigarla criticamente in sé
e nelle sue eventuali moltiplicazioni; che è il "paese
dell'anima" di Nicola Lisi.
Dicevo che la (grande) poesia è tetica, giammai dialettica.
Il cui altro è autonomo e vero contro la logica hegeliana e
seguaci. Procede per salti qualitativi di immediati singolarissimi,
in che consiste la sua organicità e unità sui generis.
Cosí, ad es., sono distinti i maestri di
Dante nell'itinerario d'oltretomba: Virgilio, Stazio, Beatrice, San
Gabriele; ad es., Beatrice non può andare oltre; né
Virgilio può andare oltre. Ciascuno è assolutamente
vero, oggettivo. Traverso mi ricordava spesso che il poeta è
bête, un animale da tartufi. Quei dannati sono tali per sempre;
gli abitanti del Paradiso non possono piú peccare. Origene
e Papini pensarono che alla fine quei dannati sarebbero stati assolti,
che è una speranziella di ciascuno di noi, compresa quella,
di ciascuno di noi, di non morire, e che ciascuno di noi sia la sola
eccezione di non più morire. Che sono minimi conati poetici,
parodie un po' ridicole.
[Resta una cartella di Simeone, ch'io rifiuto di trascrivere, tanto
è imbrogliata nel pensiero e nella grafia incomprensibili.
Accenna all'antilogica dello "scatto" o "esplosione",
rimandando al racconto Requiem aeternam dei giovanotti partenti morituri
verso la discoteca coi visceri turgidi di varia libido, e a questo
racconto dei primi emigranti, che improvvisamente affamati e assetati
partono all'alba, diventando altri per sempre].
Ho cominciato in epigrafe con Nietzsche, terminerò con Rousseau,
che nella 4a Promenade esamina tutte le bugie che aveva detto in vita
sua e si assolve interamente. Gide cita quel passo ponendosi il quesito
del rapporto tra sincerità e verità. Ad esempio, un
mio caro amico ha smarrito la memoria e non riconosce né moglie
né figli. Gli ho suggerito di fingere d'essere sposato e padre;
e tutto procederebbe bene, se non intervenisse la stessa perdita della
memoria, compresa essa finzione.
Simeone
(p.c.c. Oreste Macrí)
NOTE
1) N.d.C.: Torre Mozza è una marina del Salento assunta da
Carmelo Boccadamo ad emblema di essa terra nel suo libro di racconti
A Torre mozza, Galatina, Congedo, 1993.