§ GEOPOLITICA / GEOECONOMIA

SE L'ECONOMIA BATTE LA POLITICA




Daniel Bell



Mentre si avvicina la fine del ventesimo secolo, due "fatti" di grande portata potrebbero modellare l'ordine mondiale del ventunesimo.
1) la guerra del Golfo, ovvero la guerra per il petrolio, potrebbe essere stato l'ultimo conflitto per la conquista delle risorse naturali che influirà sull'economia mondiale;
2) è molto difficile, anzi improbabile, che possa scoppiare una guerra tra i maggiori Paesi industrializzati del mondo - Germania, Inghilterra, Francia, Stati Uniti e Giappone - come è avvenuto ben due volte in questo secolo.
Entrambi questi "fatti" stanno a indicare la natura mutevole della tecnologia e della geo-politica nel nostro tempo.
Quando affermo che la guerra per il petrolio potrebbe essere stata l'ultima guerra per la conquista delle risorse naturali, non intendo dire che non ci saranno altre guerre a causa di dette risorse. Nel Medio Oriente l'acqua è, per esempio, una questione strategica, che coinvolge Paesi come la Turchia, l'Iraq, la Giordania, Israele, ecc. (l'acqua è un problema alquanto serio anche per gli Stati sudoccidentali degli Stati Uniti, come la California o l'Arizona). Ma a differenza del petrolio, tali questioni non influiscono sull'economia mondiale. L'argomento principale a sostegno della mia tesi è la tecnologia. Cinquant'anni fa e durante la Seconda guerra mondiale le risorse naturali strategiche hanno avuto un ruolo decisivo nel conflitto tra le maggiori potenze. Allora tali risorse erano, ad esempio, la gomma, lo stagno e il rame, e questi prodotti erano soggetti a cartelli. Le nazioni che producevano i suddetti prodotti, ad esempio la Malesia per la gomma, erano punti altamente strategici di intervento militare. Oggigiorno, grazie alla tecnologia e ai suoi derivati, questi prodotti non hanno più il ruolo determinante che avevano allora. Il petrolio è l'ultima risorsa di primaria importanza in grado di coinvolgere gli interessi di tutti i Paesi nel mondo. Ma nei prossimi venticinque anni il petrolio avrà, molto probabilmente, e soprattutto in considerazione degli aumenti di prezzo ai quali è soggetto, un'importanza decisamente minore rispetto agli altri sostitutivi "naturali", quali il carbone e il gas naturale, e in misura ancora più importante rispetto ai nuovi processi tecnologici, dalla superconduttività all'energia solare.
Il petrolio continuerà a costituire la base dei prodotti petrolchimici, ma servirà sempre meno per la produzione di energia, proprio perché la più moderna produzione ad alta tecnologia tende a trasformare i processi produttivi, indirizzandoli verso un rendimento più efficiente dal punto di vista energetico.
Vi è inoltre una seconda ragione, altrettanto evidente. L'improbabilità di un conflitto non dipende tanto dal fatto che le alleanze consolidatesi durante la Guerra fredda, la Nato, l'alleanza tra Stati Uniti e Giappone, abbiano reso interdipendenti le strutture militari di queste nazioni, oppure dal collasso dell'Unione Sovietica che ne ha fatto decadere il ruolo di grande potenza mondiale, bensì dal fatto che la geo-politica ha visto mutare il suo contesto strutturale di base.
Dal 1870 agli anni'40 di questo secolo abbiamo assistito alla rapida espansione dell'imperialismo occidentale. Prima della Seconda guerra mondiale, l'ottanta per cento dei territori e delle popolazioni mondiali era sotto il dominio delle potenze occidentali. A prescindere dalle ragioni di potere e di prestigio (che non sottovaluto), le principali motivazioni strutturali dell'imperialismo erano l'esigenza di sicurezza e di materia prima.
Dal 1890 al 1940, il Giappone ha preso parte a quattro conflitti, rispettivamente contro la Corea, la Russia, la Cina e gli Stati Uniti. Ha combattuto contro la Corea e la Russia per proteggere i suoi fianchi dagli attacchi sferrati dal continente. Ha combattuto contro la Cina, negli anni '30, per difendere il carbone e le altre risorse presenti in Manciuria, e contro gli Stati Uniti per estendere il suo dominio nel Sud-Est asiatico.
Dal 1914 al 1939, la Germania ha preso parte a due conflitti contro altre nazioni europee. La guerra contro l'Unione Sovietica può considerarsi come l'ultima guerra nella quale lo spazio geografico abbia avuto un ruolo determinante. Sebbene l'esercito sovietico sia arrivato alle porte di Mosca (come Napoleone, 125 anni prima), grazie alla vastità del territorio l'esercito russo ha potuto ritirarsi verso l'interno, prima della battaglia decisiva di Stalingrado. Lo spazio geografico ha un'importanza alquanto limitata in un'era dominata dai missili balistici intercontinentali, dai Cruise a media gittata e dagli SS20, o addirittura dagli Scuds a breve gittata. Pertanto, lo spazio non costituisce più come prima un importante fattore di sicurezza.
Dal 1945 ad oggi, in tempo di pace, il Giappone ha ottenuto molti più risultati che in quarant'anni di guerra. Lo stesso vale per la Germania. Ciò dimostra che oggi e in futuro l'economia è la continuazione della guerra con altri mezzi.
Smentendo le voci di un presunto "declino", nella guerra del Golfo gli Stati Uniti hanno dimostrato di essere la maggiore potenza militare e tecnologica del mondo. Ma supremazia militare e tecnologica non significa supremazia economica.
La perizia militare e tecnologica non si basa soltanto sulle capacità organizzative e sull'efficacia delle armi, ma anche su una serie di obiettivi mirati, dove il costo risulta in secondo piano rispetto al potere offensivo. Ma l'economia come continuazione della guerra con altri mezzi implica la presenza di molti concorrenti e altrettanti mercati diversi e il costo è il fattore di maggiore importanza. E' difficile poter pensare che la struttura di comando militare fortemente centralizzata possa essere trasferita anche nella politica industriale e che si possa adottare "un'arma" economica nell'ambito della concorrenza tra le nazioni.
Alle soglie del ventunesimo secolo ci troviamo di fronte a due diversi modelli di ordine mondiale: l'ordine geopolitico, basato sugli Stati nazionali, e l'ordine geoeconomico, orientato verso i vari mercati su scala mondiale. L'intersezione di questi due ordini crea nuovi problemi.
L'ordine geoeconomico si basa su due princìpi fondamentali. Uno è la rapida mobilità del capitale per il conseguimento di alti profitti basati sui tassi di interesse differenziali e sulle possibilità di investimento. Il secondo è quello che ho definito "produzione distribuita", attraverso la quale i prodotti e le parti vengono realizzati in luoghi diversi, in base al costo della manodopera.
Tutto ciò crea una forte pressione sullo Stato nazionale. Lo Stato nazionale deve proteggere il capitale o le persone? Sebbene quasi tutte le nazioni, teoricamente, basino la loro economia sul concetto del "libero scambio" e sul Gatt, è inevitabile che si verifichino delle eccezioni in seguito a pressioni politiche (come nel caso delle sovvenzioni agricole nel Mec, dei mercati del riso protetti in Giappone, delle industrie tessili, dell'acciaio e automobilistiche negli Stati Uniti). Per esempio, per quanto riguarda le relazioni tra gli Stati Uniti e il Giappone, rileviamo che entrambe le nazioni richiedono ufficialmente, nell'ambito della disamina degli "Ostacoli Strutturali", che si proceda alla riorganizzazione delle loro economie.
Circa dodici anni fa avevo affermato che lo Stato nazionale stava diventando troppo piccolo per grossi problemi e troppo grande per piccoli problemi.
Le tensioni che stanno incrinando tali strutture iniziano a essere alquanto evidenti. Esse muovono in due direzioni: una continentale e l'altra regionale.
Per la Comunità europea, la scadenza del 1992 è stata la risposta alla minaccia giapponese, nonché la necessità di mercati più vasti oltre i confini nazionali, in seguito all'espansione industriale tradizionale.
Per quanto riguarda l'America del Nord, attualmente sono in vigore i trattati di libero scambio tra Canada e Stati Uniti e tra Stati Uniti e Messico. In termini di popolazione, questi mercati corrispondono al mercato dell'Europa unita su scala continentale. Le risorse del Canada (legname, energia idrica, petrolio), la tecnologia degli Stati Uniti e la manodopera a basso costo del Messico confluiscono così verso un unico obiettivo.
Nel Pacifico, invece, assistiamo all'espansione del potere economico giapponese. Oggi come oggi, per esempio, gli investimenti del Giappone in Thailandia sono superiori a quelli negli Stati Uniti o in Europa. Il vecchio programma giapponese per il benessere economico dell'Asia orientale è in pieno svolgimento.
A questo si contrappone lo sviluppo regionale quale base per le iniziative economiche e produttive: vedi l'Italia del Nord, la regione del Baden-Württemberg in Germania, la regione dello JütIand in Danimarca, ecc. In effetti, lo sviluppo regionale è così forte che ci troviamo di fronte a una nuova realtà.
Tali sviluppi sono ancora in fase iniziale e usufruiscono della spinta delle forze geoeconomiche attualmente presenti a livello mondiale. Resta da vedere se riusciranno ad assumere una struttura maggiormente definita. La domanda di protezionismo che va affermandosi attualmente, assumendo forma politica, potrebbe inibire tali sviluppi strutturali.
Questa analisi ha considerato soltanto gli sviluppi relativi alle società industriali avanzate e non si è occupata delle grandi regioni dell'ex Unione Sovietica e dell'ex Europa dell'Est, del Medio Oriente e del Bacino del Mediterraneo, dell'Africa, dell'America Latina e delle grandi nazioni come la Cina, l'India insieme con il Pakistan e il Bangladesh. Molti di questi Paesi sono dominati da forze centrifughe interne molto forti, spesso di natura etnica e regionale, che costituiscono una seria minaccia per l'integrità di tali società. Data la natura stessa delle analisi previsionali, si può dire molto poco circa tali sviluppi. Infatti le previsioni si basano per lo più su fondamenti strutturali che diano un certo grado di stabilità alle situazioni politiche; se queste sono instabili oppure esplosive, qualsiasi previsione risulta inattendibile.
Un fatto è certo. Negli anni '80 eventuali conflitti in queste aree, soprattutto nel Vicino Oriente, avrebbero coinvolto le maggiori potenze, in quanto questi Paesi (Siria, Iraq, Arabia Saudita, Egitto, Israele) erano stati clienti degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica. Oggi questa rivalità è scomparsa. Così possiamo contare, ad esempio, sulla pace in Etiopia e in Angola, o, per lo meno, sul ritiro delle forze esterne. Questa situazione contribuisce a garantire un certo grado di stabilità ad alcune di queste regioni.
Resta tuttavia aperta una questione di primaria importanza, ovvero il crescente divario tra nazioni/regioni ricche e nazioni/regioni povere. Secondo una relazione delle Nazioni Unite, nelle regioni dell'Africa subsahariana il paniere delle esportazioni è risultato essere la metà di quello riscontrato nel 1980 e, se escludiamo il petrolio (Nigeria), risulterebbe solo un terzo. Ciò è la conseguenza del fatto che la maggior parte di questa regione è rimasta vincolata soprattutto ai prodotti primari e i prezzi delle materie prime hanno avuto un andamento negativo durante tutto il decennio.
Paradossalmente, mentre nelle società industriali avanzate lo Stato nazionale è diventato più debole, in queste regioni soltanto lo sviluppo di Stati nazionali più ,forti potrebbe porre le basi del loro progresso economico, come si è verificato a Taiwan, in Corea, a Singapore, in Malaysia e anche in Indonesia. Uno Stato forte contribuisce a garantire la stabilità politica necessaria, la protezione degli investimenti e lo sviluppo delle infrastrutture indispensabili, ovvero i fondamenti dello sviluppo economico. Con la fine della guerra del Golfo si è prospettato l'inizio di una nuova era di stabilità politica in alcune di queste regioni. E questo potrebbe già costituire un piccolo progresso, mentre ci avviciniamo alla svolta del secolo.


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