§ RAPPORTO SULLO SVILUPPO

IL PROGRESSO SFUGGENTE




Anthony Pagden
Docente di Storia delle Idee al King's College di Cambridge



Come possiamo controllare il futuro? E d'altra parte, è opportuno provare a farlo? Il Rapporto Unicef sul progresso delle nazioni non cerca di rispondere a queste domande. Il suo scopo è soltanto di fornire i dati - necessariamente imperfetti - di cui abbiamo bisogno per quantificare i progressi fatti dalle varie nazioni del mondo. Non indica un futuro ideale cui tendere. Tuttavia le Nazioni Unite non hanno soltanto il compito di raccogliere dati; cercano anche di tenere sotto controllo il futuro politico, economico, sociale ed ecologico del mondo. E per far ciò debbono stabilire delle ipotesi sulla natura del "progresso", e presupporre che per progresso e sviluppo si intenderà sempre qualche cosa di positivo e universalmente condiviso.
Come afferma Peter Adamson, il direttore del Rapporto, il progresso deve esser misurato in base al crescente "benessere dei popoli", a sua volta definito come quell'insieme di qualità che tutti ritengono desiderabili, indipendentemente dai princìpi culturali, politici o religiosi: longevità media, alimentazione, salute, istruzione, e così via. Nessun Paese al mondo si opporrebbe attivamente al perseguimento di tali obiettivi. O meglio, nessun Paese lo farebbe se fosse possibile raggiungerli senza dover spendere alcunché. Ma ciò non è possibile. Tali obiettivi impongono ai governi di rinunciare, ad esempio, alle spese militari. Ma dovendo scegliere, la maggior parte dei governi preferirà queste ultime. Inoltre, le mete che abbiamo indicato comportano anche costi sociali e culturali.
Le Nazioni Unite hanno il compito di assicurare il progresso nell'ambito delle libertà politiche e civili ugualmente a tutti i Paesi che ne fanno parte. Eppure le espressioni "progresso" e "sviluppo" sono state per lungo tempo parole, nel migliore dei casi, dal doppio significato, legate in molti Paesi in via di sviluppo (per usare la stessa terminologia delle Nazioni Unite) a forme di sfruttamento economico e persino di predominio politico da parte dell'Occidente. Per gli Stati che occupano una posizione dominante all'interno, lo sviluppo - come i più importanti enti monetari internazionali ammettono sempre più spesso, superando la riluttanza del passato - può essere realizzato soltanto trasformando il mondo in una rete di democrazie liberali aperte al commercio. Il Rapporto non esprime preferenze politiche, tuttavia sarebbe difficile riferire il concetto di progresso sotteso ad ogni articolo e ad ogni statistica che lo compongono a qualsiasi altro sistema politico o, in ultima analisi, a qualsiasi altro ordine sociale. Benché questo sia per molti versi un documento altamente realistico e sebbene i suoi autori esprimano scetticismo riguardo alla possibilità di un progresso a breve termine quasi rispetto a ognuna delle regioni considerate, esso rimanda a un'immagine del futuro che prevede una vita migliore, gente più ricca, più sana, e in definitiva più "occidentalizzata".
Se i popoli del Terzo Mondo non hanno sempre palesato tale intenzione, i governi della maggior parte dei Paesi in via di sviluppo hanno realmente dimostrato, tuttavia, per usare le parole di Marian Wright Edelman, "un'evidente volontà di seguire la via del progresso che gli Stati Uniti d'America hanno battuto per primi". Ma come dimostra la sua raggelante descrizione della sorte di davvero troppi bambini di questo Paese, il modello americano potrebbe benissimo rivelarsi, a lungo andare, un disastro; e questo in particolare per quei Paesi - quasi tutti, tranne alcuni Stati arabi e le "tigri" asiatiche - che mancano del tutto delle infrastrutture necessarie ad assicurare anche soltanto un minimo di assistenza a coloro che non riescono a competere in modo adeguato nel mercato mondiale.
A un altro livello, il problema diviene quello di adattare tali mete generali di carattere umanitario alle priorità culturali dei vari Paesi, molti dei quali porrebbero persino la salute e l'alimentazione in fondo, o quasi, alla scala delle urgenze, considerando l'istruzione, e in particolare quella delle donne, un male sicuro. Prendiamo ad esempio i casi - tra loro collegati -del controllo delle nascite, dei diritti dei bambini e di ciò che qui viene chiamato "la condizione femminile". Uno dei migliori articoli è quello della tanzaniana Gertrude Mongella, riguardante la misura in cui alle donne viene permesso e insegnato il controllo della propria fertilità. Il nonno dell'autrice, essa ci spiega, era "un uomo di notevole prestigio" all'interno della propria comunità. Non perché fosse particolarmente ricco o saggio, ma grazie al fatto che "aveva dieci figli, che tutti erano sopravvissuti e che otto erano maschi". La signora Mongella, sebbene deplori chiaramente le conseguenze che tali tendenze sociali hanno per le donne, si dimostra molto sensibile alle concrete difficoltà che le differenze culturali costituiscono per tutti i programmi di sviluppo. Una drastica riduzione del tasso di natalità non porterebbe soltanto a diminuire la pressione dello sfruttamento sulle risorse naturali, che sono sempre più scarse: costituirebbe altresì un beneficio per le donne di tutto il mondo, se per beneficio intendiamo qualità misurabili in termini "di salute, di alimentazione e di istruzione", (mezzo milione di donne all'anno muoiono ancora durante la gravidanza o il parto; ma in India, Paese con un tasso di natalità tra i più elevati del pianeta, muoiono più donne in una settimana di quanti siano i decessi per gli stessi motivi in un anno intero nell'Europa occidentale, dove il tasso di natalità è uno dei più bassi).
Ma questi non sono i soli beni che vengono forniti o apprezzati da una società. Nel concetto di rispetto delle diversità, che anche le Nazioni Unite si impegnano a mantenere, deve rientrare il rispetto per quella condizione sociale espressa dal nonno della signora Mongella. Eppure tale concezione va interamente in senso opposto rispetto a tutto il progetto per l'attuazione del "progresso" e dello "sviluppo". Pragmatismo e filantropia, e la necessità di rappresentare gli interessi di tutti i membri, potrebbero privare le Nazioni Unite degli strumenti intellettuali adeguati per risolvere tali dilemmi.
Un progetto di sviluppo attualmente in esecuzione, finanziato anche dalle Nazioni Unite e condotto, tra gli altri, dall'economista indiano Amartya Seri e dalla filosofa nordamericana Martha Nussbaum, tenta di affrontare proprio questa questione. La loro tesi - che per ovvie ragioni politiche non potrebbe mai essere ripresa da tutte le agenzie delle Nazioni Unite che si occupano di assistenza - è che gli uomini hanno deliberatamente fuorviato le donne sulla natura dei loro effettivi interessi. In ventotto Paesi è ancora in uso la pratica di mutilare i genitali femminili. Qualunque sia la forma di coercizione impiegata per persuadere le donne a sottomettersi a simili atrocità, non si potrà mai dire che una tale efferata pratica sia eseguita nel loro interesse. In altri termini, non si tratta di differenze tra culture, bensì di differenze tra sessi esistenti in ogni cultura, sviluppata o in via di sviluppo che sia. Dato che le donne rappresentano il fattore chiave dello sviluppo, questo non può non diventare oggetto di studio delle femministe.
Dopo di che, viene il problema della condizione infantile, legato a quello precedente. Nella maggior parte dei Paesi in via di sviluppo, i bambini, come le donne, sono una classe sommersa. Dal 1989 esiste una "Convenzione dei diritti dell'infanzia" che è stata ratificata da più di centocinquanta nazioni. Essa rappresenta, dice Stephen Lewis, "l'unico patto internazionale in cui i diritti politici, civili, economici, sociali e culturali hanno la stessa identica importanza".
E' così, forse, ma tale convenzione è anche, come egli stesso ammette, "uno standard, un punto di riferimento in base al quale il comportamento delle nazioni dev'essere tenacemente e costantemente misurato".
Gli standard e i punti di riferimento, tuttavia, sono sostenuti soltanto dalla forza delle opinioni. I bambini, ancor più delle donne, possono diventare le vittime delle concezioni culturali di una società. Le prostitute bambine (il cui numero solo in India è stimato a trecentomila), i soldati bambini, i bambini lavoratori, sono un fenomeno comune nei Paesi in via di sviluppo. I figli, in molte società, sono considerati, come nell'antica Roma, un bene di proprietà dei genitori. Allo stesso modo in cui il loro numero può essere ragione di prestigio sociale, la loro presenza può rappresentare una preziosa fonte di reddito. Il fatto di assicurare loro i diritti che dovrebbero essere propri di ogni individuo in quanto tale - concetto, questo, che a sua volta appartiene a un modo di pensare limitato al mondo occidentale - priva di fatto la famiglia del controllo su ciò che, anche nei Paesi sviluppati, essa considera esclusivamente suo.
Il problema primario che le Nazioni Unite debbono affrontare consiste nel modo di combinare la visione del filantropismo universale che l'Occidente ha ereditato dall'Illuminismo con gli usi e le priorità di singole culture dalle tradizioni molto diverse. Si tratta forse di un problema irrisolvibile. I Paesi sviluppati, piaccia o no, debbono avere il coraggio di accettare le conseguenze di ciò in cui credono, anche a costo di rispettare un po' meno il "diritto" di singole comunità a mutilare le proprie donne o a ridurre i propri bambini in schiavitù.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000