§ EUROPA DOPO LO SME

UNA STELLA MORTA




Bernard-Henry Lévy



Chi è stato responsabile della crisi dello Sme? Ma è esistito, del resto, un responsabile chiaramente designato?
I tedeschi dicono: "Sono stati i francesi, è ovvio; il ben noto egoismo francese; quel terribile orgoglio tutto gallico, con la sua sufficienza, con il suo sciovinismo e quell'inimitabile modo di pretendere che le proprie regole vengano erette a principii universali; potevamo, come ha fatto la Francia, ridurre così unilateralmente i nostri tassi d'interesse? Dovevamo sacrificare tutto alla difesa di un mitico, e assurdo, "franco forte", e non sarebbe stato, questo, il mezzo più sicuro per aprire la crisi e poi farla precipitare?".
I francesi ribattono: "Sono stati i tedeschi, è evidente; la leggendaria arroganza tedesca; all'origine di tutto è stato il demone tedesco, la sua volontà di potenza secolare. Kohl non ha fatto forse pagare ai suoi partners l'unificazione della Grande Germania? Non ha d'un tratto preferito gli interessi di questa Grande Germania a quelli dell'Europa? La più cinica real-économie non ha forse preso il sopravvento, in una parola, su qualsiasi altra considerazione?".
La verità è che questo dibattito ha perso di colpo gran parte del suo interesse, e questa agitazione mediatico-politica, questa ricerca sfrenata di un colpevole e, in fondo, di un capro espiatorio, oggi sembrano soprattutto avere come effetto quello di occultare il solo vero interrogativo che riguarda non le cause ma le conseguenze e il senso della crisi.
Vista da Parigi, aveva già fatto una prima vittima: il presidente François Mitterrand, che da anni aveva legato la propria sorte a quella del franco; che era uscito, per difenderlo, dal riserbo in cui si trovava; e che ha dovuto quindi vivere come una sconfitta la svalutazione di fatto della moneta francese. La seconda vittima era stata il primo ministro Edouard Balladur: anche lui si era immedesimato nella causa del franco forte, ma la sua ortodossia monetaria veniva attaccata violentemente, in casa propria, da una corrente di pensiero (quella, soprattutto, di Séguin) che si potrebbe caratterizzare come "neonazionalista" o "populista"; per quanto abile sia stato a "salvare la faccia" e a "preservare il futuro", come immaginare che la sua autorità e la sua linea potessero non uscire indebolite da quei pochi giorni i tormenta?
Ma la crisi ha fatto, in particolare, una terza vittima, della cui sorte, ad essere onesto, mi importa infinitamente più di quella di tizio o di caio: non un uomo, ma una coppia; e al di là anche di questa coppia, un essere politico e morale che aveva avuto, per ciascuno di noi, il volto del futuro o del destino.
La coppia erano la Francia e la Germania. L'essere era il progetto europeo che i due Paesi da quarant'anni avevano costruito insieme.
Perché si sarà detto ciò che si sarà voluto; e del resto, nei giorni seguiti alla crisi, si son viste moltiplicarsi, da una parte e dall'altra del Reno, le dichiarazioni più tranquillizzanti. Le cose, ahimè, sono state quelle che sono state: senza intesa franco-tedesca, basta Sme; senza Sme, basta prospettiva reale di moneta comune; senza prospettiva di moneta comune, fallimento dello spirito di Maastricht, cedimento di tutto l'edificio di cui era sinonimo e contemporaneamente risultato. Lo "slancio" di Maastricht? Il meno che si possa dire è che è andato in pezzi, con tutta la serie di regressi che l'evento, inevitabilmente, preannunciava.
Qualcuno dirà che la natura politica si vendica e che non si cancellano così, a colpi di leggi e di trattati, secoli e secoli di guerra, di odio o di malinteso.
L'Europa era un'utopia. La sua normalità era il conflitto. Noi torneremo a quella normalità che sarà, fino alla fine dei tempi, quella delle nazioni e della loro demenza. Con lo Sme così indebolito bisognerà imparare a vivere con una Germania di nuovo senza briglie.
Altri - ed è il mio caso - sosterranno che a morire non è stata l'Europa in quanto tale, ma una certa immagine dell'Europa: quella della coppia franco-tedesca; di Monnet e di Schumann; la vecchia macchina europea, messa a punto durante la guerra fredda, i cui migliori combustibili erano la prospettiva e il timore del comunismo, e che dalla caduta del Muro di Berlino sopravvive a se stessa solo in virtù di una sorta di velocità acquisita. Fine di un'epoca, se si vuole, sigillata dal disordine delle monete, oltre che - aggiungiamo - dal caos jugoslavo.
Ricordo la sera del referendum di Maastricht. Rivedo, sugli schermi televisivi, il volto del presidente Mitterrand. Rivedo quello strano balletto di spettri che venivano, ad uno ad uno, a salutare la magra, minuscola vittoria del "sì". Che strana, quella vittoria, non è vero? Che gusto amaro aveva! Com'era stonata quella timida Europa maastrichtiana in mezzo ai tumulti che ci venivano dal profondo delle terre europee, e segnatamente da Sarajevo!
Si chiudeva un'epoca, era chiaro. Una certa idea dell'Europa, legata alla suddetta epoca, si spegneva piano piano sotto i nostri occhi. Trionfava, dite voi? Raccoglieva la maggioranza dei suffragi? Ma via! Era superata. Condannata.
Brillava soltanto alla stregua di quelle stelle morte la cui luce sopravvive a lungo nell'estinzione del loro fuoco. E già da allora, per gli osservatori più lucidi, il solo interrogativo valido era il seguente: "A questa idea defunta sapremo opporre un'altra idea? E quale?".
"L'economia non esiste", ebbe a dire Althusser a un marxista britannico un po' limitato di nome John Lewis. Intendeva dire con questo che l'economia non è che un volto diverso della politica e della cultura. Mai questa parola mi è sembrata giusta quanto oggi nella singolare baraonda in cui marchi, franchi, lire, pesetas e altre divise sono, tutt'a un tratto, come un lapsus dello spirito del tempo e delle sue convulsioni. Monete, nostra fatalità!


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