§ DIBATTITI

NEW DEAL?




Sergio Romano



Di recente l'America ha celebrato il sessantesimo anniversario del New Deal confrontando le sue condizioni d'allora con quelle di oggi: due grandi crisi economiche e sociali, due leader democratici, due vittorie su presidenti repubblicani - Hoover e Bush - a cui gli elettori hanno rifiutato un secondo mandato, due speranze di trasformazione e rinnovamento. Grazie al gioco dei riferimenti storici, il New Deal di Roosevelt diviene il precedente storico di quello poi annunciato da Clinton. Proviamo a controllare la validità del confronto.
Quando Franklin Delano Roosevelt fece il suo trionfale ingresso alla Casa Bianca nel marzo 1933, Washington era un mostro urbanistico composto da un enorme centro monumentale, omaggio della nazione ai padri fondatori, e da piccoli sobborghi residenziali di gusto inglese. Oggi, sotto la presidenza di Clinton, è una grande area metropolitana abitata da poco meno di cinque milioni di persone. Quando Roosevelt iniziò il suo primo mandato, era la sola città americana in cui i cittadini non avessero il diritto di eleggere la propria amministrazione comunale: un modo per evitare che la capitale degli Stati Uniti avesse un sindaco nero.
Oggi il sindaco c'è, ed è una signora di colore che governa una popolazione composta per l'ottanta per cento da americani di pelle scura. Quando Roosevelt installò la sua prima amministrazione era ancora nell'aria il ricordo della grande marcia su Washington di 22.000 disoccupati, veterani della prima guerra mondiale, che nel giugno 1932 avevano occupato gli edifici pubblici e bloccato il centro della capitale. Nei mesi precedenti la disoccupazione era salita vertiginosamente: quattro milioni nell'aprile del 1930, sette nell'ottobre del 1931, da dodici a quindici nel luglio del 1932. Oggi i disoccupati godono di una protezione sociale che risale per l'appunto a sessant'anni fa, ed è improbabile che Clinton ne trovi un giorno ventimila accampati sui prati della Casa Bianca.
Quando gli americani elessero Roosevelt, l'America era nel mezzo di una grande depressione che aveva sconvolto il sistema bancario, dimezzato la produzione industriale, ridotto a un terzo gli scambi con l'estero, falcidiato i risparmi familiari, decurtato i salari degli operai e colpito ancor più duramente le zone agricole del Paese. Non basta. Mentre nei mesi trascorsi fra l'elezione di Clinton e il suo ingresso alla Casa Bianca la situazione economica è andata gradualmente migliorando, durante l'interregno tra Hoover e Roosevelt tutti gli indicatori divennero ancora più negativi. Oggi a Washington si parla di "recessione"; allora, negli Stati Uniti, si parlava di crisi del capitalismo. Anche se Clinton ama riconoscersi nella grande tradizione democratica di Roosevelt, fra l'America del New Deal e quella di oggi le differenze sono più numerose delle analogie.
"New Deal" sono le parole che Roosevelt usò per la prima volta in un discorso a Chicago durante la campagna elettorale. Costretto su una sedia a rotelle dal giorno dell'agosto del 1921 in cui la poliomielite gli aveva paralizzato le gambe e il bacino, il candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti promise ai suoi concittadini, se lo avessero eletto, un nuovo "deal", vale a dire un "nuovo corso" o anche, con traduzione più libera, un nuovo "giro di carte". Entrato alla Casa Bianca nel marzo del 1933, inaugurò la prassi dei "cento giorni" durante i quali il presidente degli Stati Uniti ha diritto, da allora, a una sorta di impunità politica. I suoi critici sostengono che egli non avesse programmi prefissati e fosse capace, all'occorrenza, di brusche svolte opportunistiche. Apparteneva alla grande borghesia di New York, aveva studiato ad Harvard e alla Columbia University, aveva sposato una cugina, Eleanor, "figlia della rivoluzione americana" e nipote di Theodor Roosevelt, il più imperialista dei presidenti americani. Ma il fatto d'esser nato "con un cucchiaio d'argento in bocca" non gli impediva di avere una forte sensibilità popolare e un certo fiuto populista.
Circondato da un "brain trust" di intellettuali e di professori che provenivano in gran parte dalle università in cui aveva studiato, si buttò immediatamente nell'azione con una raffica di provvedimenti legislativi, messaggi presidenziali e chiacchierate radiofoniche "accanto al caminetto". In pochi mesi riorganizzò il sistema bancario, abbandonò la parità aurea, adottò misure di sostengo per il prezzo dei prodotti agricoli, introdusse la contrattazione sindacale obbligatoria e assorbì una larga parte della disoccupazione con un vasto programma di opere pubbliche e di iniziative sociali. Nel giro di pochi mesi creò ministeri, agenzie, istituzioni: la Tennessee Valley Authority per lo sfruttamento delle risorse idriche e lo sviluppo industriale di una zona particolarmente depressa del Sud; il Civilian Conservation Corps per l'impiego dei disoccupati in lavori destinati alla tutela dell'ambiente; la Public Works Administration per la costruzione di grandi infrastrutture, scuole, ospedali e tribunali; la National Recovery Administration per conciliare iniziativa privata e programmazione pubblica. Contemporaneamente, la Casa Bianca lanciò altri segnali di rinnovamento. Furono stabilite le relazioni diplomatiche con l'Unione Sovietica, furono finanziati programmi culturali che sollecitavano il talento di scrittori, pittori, attori, musicisti. Mai prima d'allora il Congresso era stato soggetto a una dittatura presidenziale; mai l'America aveva subìto tante trasformazioni radicali in un periodo così breve.
Alcune delle idee di Roosevelt fallirono, altre furono spazzate dalle sentenze della Corte Costituzionale, altre ancora produssero risultati contraddittori.
Complessivamente, tuttavia, il New Deal fornì una risposta alle più esasperate domande della società americana, dette una straordinaria sferzata alle energie del Paese, rimise in moto il volano dell'economia.
La politica di Roosevelt suscitò, a destra e a sinistra, reazioni diametralmente opposte. I conservatori americani denunciarono la dittatura e la demagogia del presidente, sostennero che egli metteva a repentaglio i grandi valori individualistici della società americana. I progressisti sperarono che egli incarnasse la via americana al socialismo e ne trassero spunto per proposte ancora più avanzate. Mussolini sperò per un certo periodo che il New Deal fosse un fascismo americano e desse in tal modo un autorevole avallo alla portata internazionale della sua "rivoluzione". Lo lasciò comprendere, tra l'altro, recensendo sul Popolo d'Italia, con un articolo anonimo, il primo libro della casa editrice Einaudi: un saggio economico di Henry Wallace, segretario dell'Agricoltura nella prima amministrazione Roosevelt, pubblicato a Torino nel 1934 con una prefazione di Luigi Einaudi.
Si sbagliavano tutti. Roosevelt fu un grande borghese, geniale, spregiudicato e convinto che la sua classe sociale avesse una naturale vocazione alla leadership. La nascita, l'intelligenza e l'educazione gli conferivano il diritto-dovere di governare e quindi di somministrare al Paese, se necessario, qualche dose omeopatica di socialità.
Non fu né anticapitalista, né illiberale, né socialista. Fu semplicemente un grande aristocratico repubblicano, un principe illuminato: gli unici che sappiano fare accettare a tutte le classi sociali, nei momenti gravi della storia, una grande svolta riformatrice.

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000